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Il Mattino Rassegna Stampa
10.08.2005 Il "dovere del dialogo" con il fondamentalismo
teorizzato dall'Ambasciatore italiano al Cairo

Testata: Il Mattino
Data: 10 agosto 2005
Pagina: 1
Autore: Antonio Badini
Titolo: «Con l’Islam il dovere del dialogo»
IL MATTINO di mercoledì 10 agosto 2005 pubblica in prima pagina e a pagina 22 un intervento di Antonio Badini, ambasciatore italiano al Cairo. Badini, tra gli artefici dell'accordo di cooperazione tra l'Università al Azhar, di orientamento fondamentalista, e cinque università italiane, difende la sua iniziativa con vari sofismi, tra cui: l'affermazione che ad al Azhar hanno in passato insegnato intellettuali aperti al "dubbio cartesiano" o, più modestamente disposti a importare ne mondo islamico aspetti tecnici della, civiltà occidentale, una difesa esplicita del fondamentalismo basata sul fatto che "anche in Occidente sono ancora moltissimi quelli che considerano i valori cristiani quale fonte per i fondamenti etici della società e della politica" ( ma in genere non propongono, ad esempio, la pena di morte per apostati e blasfemi) la presunta condanna dell' "estremismo" (cioè del terrorismo) da parte delle più alte autorità religiose, oltre che i governi, di paesi musulmani ( e poco importa se la maggior parte di queste autorità e di questi stati giustificano e incoraggiano alcuni terrorismi, soprattutto quello contro gli israeliani, ma anche quello contro i cittadini dei paesi della coalizione impegnata in Iraq e Afghanistan.

Nel complesso, dunque, un intervento non convincente, basato sul persistente rifiuto di prendere atto della realtà o su una mal riposta tolleranza verso la tirannia fondamentalista, l'antisemitismo islamico e la propaganda del terrorismo jihadista.

Ecco il testo:

I maggiori quotidiani italiani hanno ospitato in questi giorni editoriali e lettere di precisazioni sull’Islam e le sue sfaccettate inter-relazioni con l’Occidente. Il dibattito ha preso le mosse dai rilievi critici rivolti dal vice direttore del Corriere della Sera, Magdi Allam, all’accordo di cooperazione da me co-firmato con il presidente dell’università egiziana Al Azhar per l’avvio di studi comparati con la partecipazione di cattedratici di sei atenei italiani. Anche Il Mattino ha contribuito a chiarire per i lettori i termini della divergenza pubblicando un mio articolo nell’edizione del primo agosto e l’intervista a Magdi Allam in quella del giorno dopo. Ma a parte il merito del contendere, è positivo che le valutazioni esposte da firme di rispetto nelle pagine di Repubblica, di Avvenire, del Giornale e dello stesso Corriere, abbiano evidenziato aspetti non inediti ma certo ancora poco dibattuti e assai controversi. Fra tutti desta una particolare attenzione la tesi illustrata in due editoriali sul Corriere dal politologo Angelo Panebianco sulla scarsa congruità che il termine «moderato» avrebbe nell’individuare la parte dell’Islam con cui il dialogo appare conveniente. L’editorialista solleva come esempio della fallacia del termine il caso dell’Arabia Saudita che a livello politico-diplomatico è aperta alla cooperazione con l’Occidente, e quindi classificabile nell’Islam «moderato», pur tuttavia non essendo riuscita a impedire la nascita tra la sua popolazione di cellule dell’Islam estremista.
In realtà la continuazione del dialogo solo con coloro che l’Ovest considera come moderati rischia di acuire i motivi di tensione con i paesi islamici (che si sentono permanentemente sotto esame) e di creare per di più al loro interno inopportune divisioni fra i governi, accolti come amici, e una parte delle élite religiose e non, spesso sospettate di avallare, istigare e comunque non opporsi alla violenza, e quindi parte dell’Islam da rigettare. E tuttavia non mi sembra neanche così necessario chiedersi, come tende a fare il professore Panebianco, quale altro steccato, se non il convenzionale moderatismo, si debba prescegliere per essere comunque immuni dal pericolo di diffondere con la propria offerta di collaborazione, i focolai di fanatismo religioso e estremismo. Dialogare allora con chi? La storia dell’Islam ci dice che non dobbiamo reinventare la ruota. Essa non manca di offrirci spunti di riflessione. La stessa Al Azhar, per molti oggetto del sospetto, appare tutt’altro che un sistema monolitico. L’esempio più illuminante dell’evoluzione pluralista dei suoi studiosi può essere il grande letterato egiziano Taha Hussein (1889-1973) che, cieco sin dall’età di tre anni e cresciuto in un ambiente fondamentalista, introduce proprio ad Al Azhar il dubbio cartesiano nell’approccio critico della storia della letteratura islamica, allora dominante. Con ciò egli invita a riconoscere come acquisizioni del pensiero umano concetti e assunti elaborati anche al di fuori del mondo islamico. Sempre per restare ad Al Azhar cito altri due celebri scrittori: Mohamed Abdou (1849-1905) e Rashid Ridda (1865-1935), i quali parteciparono alla Nahda (il movimento della rinascita araba contemporanea) promuovendo la riforma delle scienze islamiche quale veicolo della modernità. Che cosa i due studiosi azariti intendessero per modernità lo spiega bene la celebre opera «L’Islam e i fondamenti del potere» di Ali Abderraziq (1888-1966). Argomenta l’amato discepolo di Abdu che i princîpi della fede musulmana e la ricerca intellettuale, inclusa quella storicista, non sono necessariamente antinomici. E precisa: «Niente impedisce ai musulmani di adottare le vie e i mezzi scelti da altre nazioni quando in gioco é l’interesse generale della comunità». Il punto allora non é tanto di verificare se da parte di singoli paesi islamici sono in uso politiche ufficiali di collaborazione con l’Ovest ovvero alleanze delle diplomazie - che possono essere di natura contingente - ma piuttosto se si trovano convergenze tra Islam e mondo occidentale sui modi razionali (non fideistici) di perseguire l’interesse generale delle rispettive comunità. E anche qui l’osservazione storica ci illumina con gli esempi dello scambio di esperienze, di know how, e di conoscenza, nei campi umanistici non meno che scientifici, che hanno permesso in passato, e possono farlo in futuro, solide basi di ricerca condivisa tra Occidente e comunità islamiche. Accettare che l’Islam costituisca nel mondo musulmano la fonte dell’etica sociale non significa aprire il vaso di Pandora perché anche in Occidente sono ancora moltissimi quelli che considerano i valori cristiani quale fonte per i fondamenti etici della società e della politica. Non potrebbe una più stretta collaborazione fra i diversi sistema-valori, incluso ovviamente quello ebraico, andare a vantaggio di una accresciuta dimensione spirituale nella società contemporanea? Convengo comunque che il dialogo delle culture debba essere oggi sottratto alla morsa costituita, da un lato, dalle sterili e salottiere iniziative della Commissione dell’Ue e, dall’altro, dal carattere omologante impresso da alcuni neo-conservatori americani. L’invito rivolto dal presidente Amato dalle pagine del Corriere a non imboccare un nuovo maccartismo e le testimonianze di collaborazioni costruttive di cui fa stato sempre nelle colonne del Corriere il direttore di «Reset» Bosetti, lasciano intendere che la lotta alla violenza cieca e al barbaro fanatismo si può condurre senza aprire nuove battaglie di religione. Non potremmo allora chiamare terrorismo tout court gli atti di barbarie contro civili inermi, visto che oggi le più alte autorità religiose, oltre che i governi, di paesi musulmani, hanno delegittimato gli estremisti che si richiamano arbitrariamente all’Islam? Antonio Badini *Ambasciatore italiano al Cairo
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