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Libero Rassegna Stampa
09.07.2019 Caso marò, uno scandalo enorme: finalmente un (ex) ministro italiano parla chiaro
Andrea Morigi intervista l'ex ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata

Testata: Libero
Data: 09 luglio 2019
Pagina: 1
Autore: Andrea Morigi
Titolo: «'In Italia qualcuno ha tradito i due marò'»
Riprendiamo da LIBERO di oggi, 09/07/2019, a pag. 1-11, con il titolo 'In Italia qualcuno ha tradito i due marò', l'intervista di Andrea Morigi a Giulio Terzi di Sant’Agata.

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Andrea Morigi

«Non c’è nessun giudice o esperto di diritto internazionale che possa dire che la giurisdizione sul caso della Enrica Lexie è indiana», spiega l’ex ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata. Inoltre, prosegue, «non è in discussione che la nave fosse in acque internazionali. Vi era a bordo, in servizio, un organo dello Stato italiano. La giurisdizione era quindi italiana. Non c’è dubbio». Eppure, per Massimiliano Latorre e Salvatore Girone inizia un’altra stazione del calvario. Presso la Corte arbitrale internazionale dell’Aja ha preso ieri il via l’ultima udienza sul caso, per decidere se sarà l’Italia oppure l’India a dover decidere sulla sorte dei duefucilieri dellaMarina italiana, accusati di aver ucciso due pescatori indiani nel 2012, al largo delle coste dello stato indiano del Kerala. Entrambi i militari furono incarcerati, provocando un’ondata d’indignazione nell’opinione pubblica italiana, alla quale seguì un terremoto anche a livello governativo. L’allora ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata, il 26 marzo 2013, rassegnò le proprie dimissioni davanti al Parlamento e in diretta televisiva, dopo aver riferito della decisione del governo di rimandarli in India. Oggi, parlando al telefono con Libero, Terzi ripercorre quella vicenda.

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Giulio Terzi di Sant’Agata

Come si sarebbe potuto evitare quest’ultimo passaggio ai marò? «Bisogna chiudere una vicenda incredibile durata sette anni e mezzo. Sono stati persi anni perché non è stato fatto l’arbitrato, che avrebbe avuto un corso più immediato. Fu una decisione tragica, invece, quella di rimandarli in India. Un ribaltamento improvviso seguito a una decisione kafkiana. I marò erano in Italia dal febbraio del 2013 mentre l’India rifiutava la nostra soluzione di un arbitrato,che peraltro aveva una fortissima base legale».

E perché furono riconsegnati alle autorità indiane? «All’improvviso saltò tutto per un circolo vizioso di paure, che riguardavano principalmente dei contratti per la fornitura di elicotteri italiani. Qualcuno ha pensato di fare affari sulla pelle di due nostri connazionali. Ecco perché furono rimandati in India».

A rischio della vita, però. Perché il codice penale indiano prevede la pena capitale per alcuni reati. «Certo, benché non vi fossero garanzie sulla non applicazione della pena di morte, se non una riga di una lettera scritta a Staffan de Mistura da un terzo segretario d’ambasciata, il quale diceva che la pena capitale si applica soltanto eccezionalmente, cioè solo se il caso rientra tra quelli “più rari trai rari”.Mal’allora primo ministro indiano, Manmohan Singh, non garantiva che non vi fosse anche un’imputazione di terrorismo. Quindi il rischio c’era, eccome».

Qual era la strategia italiana per portare in salvo i nostri connazionali? «Fu un atteggiamento passivo di fronte a chi ci aggrediva. Per fare un'altra carineria al governo di Delhi, il governo abbandonò la soluzione dell’arbitrato, facendola cadere. Successivamente, parlare di arbitrato con il governo Letta e la ministra Bonino era divenuto impossibile: temevano di offendere gli indiani, poi con il governo Renzi non se ne parlo più, convinti che vi fosse invece la possibilità di fare furbate, con compensazioni incerte di non si sa quale specie».

Quali risultati si ottennero, invece? «Fallirono tutti i tentativi di arrivare a un accordo bilaterale. E vi fu una strumentalizzazione da parte del Partito del Congresso nei nostri confronti. Il consenso verso il loro governo era incerto nel Kerala. Così siamo caduti in una situazione senza una linea e un senso di dignità».

Allora come si arrivò all’arbitrato? «Perché ormai la situazione era divenuta insostenibile, dopo le pronunce dell’Unione europea, ai tempi dell’alta Rappresentante per la Politica estera Catherine Ashton. Gli indiani si erano spinti perfino a negare la libertà di movimento all’ambasciatore Daniele Mancini, impedendogli di partire da New Delhi, un atteggiamento senza precedenti nella storia della diplomazia».

E ora, su quali basi deciderà la corte dell’Aja? «Innanzitutto occorrerà considerare che la Enrica Lexie era stata costretta a tornare nelle acque territoriali indiane con la forza, sotto la minaccia degli elicotteri e delle navi militari. Inoltre la documentazione prodotta dagli stessi legali del governo di Delhi ha evidenziato chiaramente che la perizia balistica era stata fatta su pallottole diverse da quelle in dotazione ai nostri militari, che il luogo dell’incidente era 30-40 miglia fuori dall’area in cui si sosteneva che fosse avvenuto».

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