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Shalom Rassegna Stampa
21.03.2015 Per sconfiggere l'Isis bisogna usare i muscoli. Gli iracheni da soli non ce la faranno
Alessandra Farkas intervista Bruce Hoffman

Testata: Shalom
Data: 21 marzo 2015
Pagina: 12
Autore: Alessandra Farkas
Titolo: «Per sconfiggere l'Isis bisogna usare i muscoli. Gli iracheni da soli non ce la faranno»

Riprendiamo da SHALOM marzo 205, a pag.12, con il titolo " Per sconfiggere l'Isis bisogna usare i muscoli. Gli iracheni da soli non ce la faranno ", l'intervista di Alessandra Farkas a Bruce Hoffman, fra i massimi esperti americani di terrorismo e contro-terrorismo.


Alessandra Farkas                                Bruce Hoffman

NEW YORK – “La priorità assoluta, adesso, è fermare l’espansione dello Stato Islamico e arrestare i suoi successi militari. Solo dopo potremo occuparci di colpire alla radice il malessere socio-economico dei giovani musulmani foreign fighters residenti in Occidente, a cui si è riferito il presidente Obama”. Parla Bruce Hoffman, Direttore del Center for Security Studies e del Security Studies Program della Georgetown University, uno dei massimi esperti americani di terrorismo e controterrorismo, il cui ultimo libro, Anonymous Soldiers: The Struggle for Israel, 1917-1947 è appena stato pubblicato in Usa dall’editore Alfred A. Knopf. All’indomani del summit internazionale sul terrorismo che si è svolto a Washington il mese scorso, Hoffman riflette sui limiti e le virtù dell’approccio obamiano. Secondo il Presidente Usa al Qaeda e ISIS sfruttano la rabbia crescente tra la popolazione musulmana quando questa sente che ingiustizia e corruzione non lasciano possibilità di migliorare la propria vita. Il mondo, teorizza Obama, deve sforzarsi per offrire qualcosa di meglio, soprattutto alle giovani generazioni. E i governi che negano i diritti umani fanno il gioco degli estremisti. E’ d’accordo? “Una delle lezioni che abbiamo appreso dalla lotta al terrorismo degli ultimi 15 anni è che non esiste un’unica, semplice ricetta per sconfiggerlo”, ribatte Hoffman, “serve un approccio ampio, globale e coordinato che coniughi prevenzione e strategia militare. Ma lo ribadisco: il problema oggi non è il reclutamento e la radicalizzazione di nuovi adepti in Occidente ma i successi sul campo dello Stato Islamico e la sua vertiginosa espansione. Non dimentichiamoci che Isis è l’unica entità, dopo Israele, che è riuscita a ridisegnare i confini nazionali del Medio Oriente rimasti invariati dalla prima guerra mondiale”. L’amministrazione americana è stata accusata di timidezza e indecisione di fronte alla minaccia Isis. “Se l’America vuole rimanere una superpotenza deve imparare dai propri, numerosi errori. Ma ciò non significa guidare da dietro le quinte, leading from behind, come l’amministrazione Obama ha definito la propria strategia anti-Isis. Per neutralizzare un nemico tanto pericoloso non basta qualche raid aereo: serve un approccio ben più chiaro e muscolare dell’attuale”. L’America resta pur sempre il leader della coalizione. “Sì, ma se chiediamo ai paesi arabi della coalizione quali Turchia, Giordania, Arabia Saudita ed Emirati Arabi di impegnarsi di più, dobbiamo essere pronti ad assumere un vero ruolo di leadership: una svolta che Obama non ha ancora intrapreso. Se un decennio orsono i nostri marines hanno incontrato ostacoli enormi per sconfiggere al Qaeda in luoghi come Ramadi e Falluja, quanto è realista pensare che l’esercito iracheno oggi possa essere addestrato in poco tempo per sconfiggere Isis da solo? Lo stesso esercito che un anno fa disertò e si dette alla fuga di fronte all’avanzata dello Stato Islamico?” I terroristi negli ultimi tempi hanno colpito Europa, Canada e Australia ma risparmiato gli Usa. Come lo spiega? “Con due oceani che ci proteggono, controlli rigorosissimi alle frontiere e un incremento della sicurezza interna, per quanto controverso all’indomani delle rivelazioni dell’ex tecnico della Cia Edward Snowden. Il problema dell’Europa è la sua configurazione geografica che permette a qualsiasi terrorista di salire su un’auto imbottita di armi in Siria, varcare la frontiera in Turchia e, una volta dentro l’Unione Europea, andare a colpire dove vuole”. L’America oggi conta 150 foreign fighters: molto pochi rispetto agli oltre 3500 dell’Europa. “La forza dell’America è essere un paese costruito da emigranti dove, al contrario dell’Europa, non conta da dove vieni ma cosa sei riuscito a fare. La popolazione islamica in Europa non è integrata né riesce a salire la scala sociale e la mancanza di opportunità crea frustrazione e tensioni. Resta il fatto che i leader terroristi sono spesso rampolli di famiglie molto integrate e di successo. Il terrorista inglese che nel 2002 uccise il reporter ebreo Daniel Pearl in Pakistan veniva da una famiglia ricchissima ed aveva frequentato le migliori università dell’élite britannica al punto che i genitori sognavano il giorno in cui sarebbe stato investito del titolo di cavaliere a Buckingham Palace”. Il melting pot americano è una sorta di vaccino contro il terrorismo? “Sì e no. Il Canada, che ha un decimo della popolazione Usa, ha un numero ben più elevato di foreign fighters. Eppure è una società simile alla nostra che ha fatto moltissimo per integrare i suoi emigranti, accordando loro benefits impensabili nel paese di origine. Non basta dare lavoro e opportunità ai giovani islamici: siamo di fronte ad un problema ben più complesso”. Ha ragione l’Italia ad avere paura dopo l’intensificarsi delle minacce contro il nostro paese? “In quanto sede del Vaticano e culla della cristianità, Roma è un obiettivo ideale per i fautori dello scontro tra civiltà che desiderano estirpare l’influenza cristiana dal continente. Se poi le minacce vengono dalla Libia, bisogna riflettere sulla lunga storia coloniale dell’Italia in quel paese, che da oltre un secolo la strumentalizza come grido di guerra e fonte di odio anti-italiano. La vicinanza geografica tra i due paesi e il continuo flusso di emigranti illegali sono l’ennesima prova che le intimidazioni di Isis devono essere prese molto sul serio”. Quando erano solo gli ebrei le vittime del terrorismo il mondo è stato a guardare. “Purtroppo nella storia il sangue degli ebrei è stato sempre a basso costo. I popoli lo hanno preso, voltando lo sguardo quando altri facevano lo stesso. Troppa gente oggi associa automaticamente gli ebrei con Israele, imputando gli errori della politica israeliana a cittadini che non vivono nello stato ebraico né hanno modo di influenzarlo. Ciò ha aumentato i rischi per gli ebrei della diaspora, soprattutto in Europa. Non biasimo gli ebrei che oggi emigrano in Israele per sentirsi sicuri ma il fatto che nel 21° secolo essi debbano ancora una volta abbandonare le proprie case indica il fallimento totale dei valori della civiltà occidentale”. Che cosa ci riserva il futuro? “Se non cambiamo rotta, con azioni ben più decisive che nessuno oggi vuol intraprendere, il problema peggiorerà in maniera esponenziale. Cinque anni dopo che l’America ha dichiarato fine alla guerra al terrorismo, al Qaeda è stata soppiantata da un’entità ben più pericolosa, brutale e potente, molto più vicina geograficamente ai nostri alleati europei e che minaccia un numero di persone ben più vasto: cristiani, ebrei, mussulmani sciiti, yazidi. Nessuno oggi vuole ammetterlo, ma una seconda guerra al terrorismo, con il dispiego di truppe di terra, è ormai inevitabile”.

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