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Shalom Rassegna Stampa
16.09.2014 Se l'ottimismo non basta: l'eredità di Shimon Peres
Commento di David Meghnagi

Testata: Shalom
Data: 16 settembre 2014
Pagina: 26
Autore: David Meghnagi
Titolo: «Le lacrime di Shimon, il 'pacifista'»

Riprendiamo da SHALOM di settembre 2014, a pagg. 26-27, con il titolo "Le lacrime di Shimon, il 'pacifista' ", il commento di David Meghnagi.


David Meghnagi       Shimon Peres


Shimon Peres (a destra) con Ariel Sharon

Gli ultimi giorni della sua presidenza, Shimon Peres li ha trascorsi visitando le famiglie dei caduti, abbracciando le madri dei soldati, partecipando personalmente al lutto, seduto accanto ai genitori, in stanze “disadorne”, come prescrive il rituale ebraico della Shibbah. In un paese dove ogni persona che abbia un minimo di dignità, anche se critico, o contrario, alla politica del governo, compie il servizio militare, e oltre i quaranta è richiamato per quaranta giorni a compiere il suo dovere, i soldati sono i figli più cari, spesso i migliori, che compiono il loro dovere anche quando potrebbero evitarlo, sacrificando la loro vita per gli altri. A differenza che in molti altri Stati, anche democratici, in Israele non si finisce di fronte a una corte marziale, per non avere indossato la divisa. La possibilità di evitare il servizio militare, è molto ampia. Al punto che di recente si è posto il problema di come introdurre degli obblighi, anche per chi in nome di ragioni di ordine religioso, fruisce di un privilegio che lascia ad altri il sacrificio più grande. Visitare le famiglie dei caduti non è solo un atto politico. È un atto morale dovuto, frutto di un sentire comune, in un paese tragico dove i genitori convivono con l’angoscia di dover essere loro a dare sepoltura ai figli e non viceversa, come dovrebbe essere invece in un mondo normale. Il segreto dell’amore che i genitori hanno per i figli in Israele, della loro dedizione assoluta ha come sfondo questo spaventoso pensiero. In Israele i bambini hanno tutto dai loro genitori. C’è qualcosa di commovente nel modo in cui le madri e i padri si svenano per i bisogni dei loro figli. Sanno che dopo quella breve parentesi, i figli dovranno indossare la divisa rischiando la morte per salvare la vita dei loro genitori e garantire che la zolla di terra strappata al deserto non ridiventerà tale. Il gesto di Peres che abbraccia una madre in pianto e piange con lei per il figlio caduto, non ha nulla di retorico. E’ anche il pianto di “un nonno” della nazione, piegato come noi tutti dal dolore, che vede allontanarsi l’idea in cui ha maggiormente creduto e per cui lottato negli ultimi tre decenni, aprendo un varco nel cuore della nazione araba in nome di una visione del futuro improntata al riconoscimento reciproco, alla composizione dei conflitti e alla elaborazione del dolore e dei lutti. Ideatore degli accordi di Oslo, tragicamente falliti, Peres non è di certo un politico ingenuo. È anche colui, che più di ogni altro, ha fatto per lo sviluppo dell’industria israeliana degli armamenti e per la creazione del reattore nucleare di Dimona. All’Università Luis, dove negli anni Novanta, gli fu consegnata la laurea honoris causa, invece di diffondersi sulle ragioni storiche del conflitto mediorientale e sul processo di pace allora in atto, preferì paradossalmente parlare di rivoluzione informatica e di bit d’informazione. Aprendo il suo intervento con un riferimento a Freud, si dilungò su temi apparentemente estranei al suo ruolo politico e alle ragioni per cui era stato premiato. Con l’animo rivolto agli scenari nuovi che si erano aperti con la globalizzazione e alle nuove sfide che ponevano al mondo intero e al futuro di Israele, concentrò il suo intervento su una grande rivoluzione tecnologica. Per quanto importante la profondità di un territorio, non era più sufficiente a garantire la sicurezza del paese. Peres non lo disse in modo esplicito, ma il senso di quelle parole era chiaro, anche se in molti non capirono e focalizzarono poi la loro critica in privato al fatto che in Israele la profondità si riduceva, come in un’antica canzone degli ebrei di Libia, “un fazzoletto di terra”. Un po’ come se i confini della Francia all’epoca della Grande guerra passassero per il quartiere latino e quelli dell’Italia nella guerra con l’Austria per il quartiere di Trastevere. Per chi sapesse leggere tra le parole il messaggio era chiaro. Tanto se si pensa agli scud irakeni, piovuti sul territorio israeliano in una guerra in cui gli israeliani, per “non mettere in crisi” la coalizione internazionale di stati per la liberazione del Kuwait, erano obbligati a subire gli attacchi contro le loro città, senza poter rispondere. I missili furono “pochi”, i danni “limitati” e la minaccia delle tesate chimiche, con le immagini delle case con una stanza ermeticamente chiusa, che facevano il giro del mondo, “rimase” per fortuna solo una minaccia. Ma il trauma fu grande.


Shimon Peres con Yasser Arafat

Per la prima volta, dalla guerra del ’48-49, quando gli eserciti arabi invasero il territorio israeliano per gettare a mare i suoi abitanti, gli israeliani sperimentavano un pericolo nuovo, legato allo sviluppo delle nuove tecnologie, che in un futuro prossimo avrebbe obbligato gli israeliani a ripensare la difesa militare del paese, nei suoi rapporti con la politica, con l’etica, con la cultura e con l’uso del diritto nell’arena internazionale. Per chi avesse saputo leggere il senso di quell’intervento era chiaro. Era il richiamo implicito alla necessità di una rivoluzione nel pensiero. Nella dottrina militare israeliana l’idea cardine era di impedire a qualunque costo al nemico di portare la guerra dentro confini di Israele. Israele è uno stato piccolo, dove i confini passano per la capitale. Israele non ha un fiume o un mare che separi. Non ci sono montagne in cui rifugiarsi. Dal Golan e dal Giordano si plana rapidamente sino ai luoghi più bassi del pianeta. Una situazione al limite dell’impossibile, che non poteva in nessun modo essere trascurata, indipendentemente dall’esito di accordi, condannati in partenza per il fatto che le decisioni più importanti erano state rimandate a un futuro incerto, legate ai progressi dell’intero processo. Come poi è tragicamente accaduto, con i sanguinosi attentati contro i civili e gli autobus che saltavano per aria. Rappresentante di una generazione che ha contribuito in modo decisivo alla nascita dello Stato, Peres incarna col pensiero e con l’azione una complessità irrisolta che nonostante le impossibilità cumulative, cui è andata incontro la società israeliana, non ha mai cessato di interrogarsi su un futuro possibile misurandosi con le sfide più difficili. Il “pacifismo” di Peres è la ricerca di un compromesso politico sostenibile, che apra orizzonti nuovi in un’area del mondo segnata da un secolo di guerre. Dove tutti i problemi lasciati aperti dalla Prima guerra sono rimasti aperti: la questione dell’acqua e dei rapporti fra popoli e culture religiose, la questione dei kurdi sparpagliati in quattro diversi stati, la questione dell’acqua, il conflitto storico fra sunniti e sciiti, la penuria d’acqua, la tutela delle minoranze religiose, il problema dell’uguaglianza tra persone di fedi diverse. Per non parlare degli assetti di potere autoritari e che oggi esplodono spaventosamente. Molto più di quanto Peres immaginasse allora, nel suo intervento alla Luiss, occorreva allora come oggi, una rivoluzione del pensiero che assumesse in pieno le sfide del futuro sul piano culturale, politico e diremmo oggi giuridico, e non solo militare. In molti, guardarono illusoriamente al ritiro israeliano dal Libano, come al ritorno di una condizione che avrebbe restituito a Israele un diritto pienamente riconosciuto di reagire in caso di attacco. Le cose si sono poi rivelate molto più complesse e difficili. Nonostante il diritto a reagire, nello scontro con Hizbullah prima, e con Hamas oggi, gli israeliani si sono ritrovati sul banco degli accusati, nonostante abbiano fatto di tutto per evitare di colpire i civili utilizzati programmaticamente come scudi. Il fatto che Israele riesca a impedire la strage dei suoi cittadini diventa perversamente “una colpa” in più. Poco importa se Hamas usa in modo programmatico i civili palestinesi come scudi umani, minaccia e scheda i giornalisti che non si adeguano ad una falsa narrazione degli eventi bellici e nel suo statuto dichiaratamente antisemita, afferma che l’obiettivo è la distruzione di Israele. Nella tragica conta dei morti, abilmente manipolata da una stampa compiacente, le vittime di ieri, diventano i “carnefici” di oggi. La falsa equazione delle vittime che si trasformano in “carnefici” non è solo un’infame menzogna. Esprime in realtà un desiderio degli antisemiti europei e islamici. Se Israele fosse, come viene follemente e falsamente descritto dalla nuova accusa antisemita, i conti col passato sarebbero per tutti “pareggiati”. In questa logica, le colpe del passato non sono più tali. “Confessando” le colpe del passato, presentandosi come schierati dalla parte dei più “deboli”, gli europei sarebbero “liberati” delle colpe passate per il genocidio e per il colonialismo. La falsa rappresentazione di Israele come Stato occidentale ed europeo, mediante il quale l’Europa ha scaricato su altri le proprie colpe, è un tassello importante di questa costruzione. Israele diventa il capro espiatorio di tutto ciò che non funziona nei rapporti tra le sue sponde del Mediterraneo. In realtà israeliani e palestinesi hanno terribilmente bisogno l’uno dell’altro per costruire un futuro diverso per i figli. Non perdere questa capacità di visione del futuro è per Israele essenziale per aprirsi un varco nel cuore della nazione araba. Per giungere alla pace non basta purtroppo avere siglato accordi che definiscano i confini presenti e futuri. Ci vuole una visione condivisa del presente e del futuro che faccia da sfondo per il recupero del passato. Altrimenti l’accordo rischia di essere solo una hudna coranica, una “tregua” per attaccare poi da posizioni più vantaggiose, come teorizzò Arafat all’indomani della firma di Oslo in una moschea a Sidney. Per utilizzare un’immagine di Amos Oz, israeliani e palestinesi sono condannati come divorziati a dividersi i pochi spazi a disposizione. Tocca alla cultura preparare il terreno, ma è la politica a doverne fissare i termini. Quanto allo Shalom biblico, cui aneliamo, è un’altra cosa. Non appartiene alla politica. E’ in primo luogo una categoria interiore dello spirito, qualcosa che ha a che vedere con l’utopia messianica e non con la realtà della storia e della politica.

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