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Shalom Rassegna Stampa
26.04.2014 I pionieri ebrei italiani della psicoanalisi
Analisi di David Meghnagi

Testata: Shalom
Data: 26 aprile 2014
Pagina: 24
Autore: David Meghnagi
Titolo: «I pionieri ebrei della psicoanalisi e delle scienze psicologiche in Italia»

Riprendiamo da SHALOM, aprile 2014, a pag.24/25, l'analisi di David Meghnagi dal titolo "I pionieri ebrei della psicoanalisi e delle scienze psicologiche in Italia".

dall'alto: Enzo Yosef Bonaventura, Cesare Musatti, Emilio Servadio,    
David Meghnagi

 Fa un certo effetto rileggere, dopo molti anni, le considerazioni che Giorgio Voghera scrive sul ciclone psicoanalitico, che si “abbatte” su Trieste nei primi decenni del secolo. Considerazioni cariche di nostalgie per un mondo scomparso, violentemente cancellato, che inconsciamente sente il pericolo annidato fra le pieghe della società e che vive le scoperte freudiane come un nuovo credo per fronteggiare gli interrogativi più inquietanti e ansiosi su un futuro incerto che di lì a poco rivelerà il suo vero volto obbligandolo a lasciare la sua città natale per un kibbutz nell’unico luogo dove in un mondo impazzito, un ebreo avrebbe potuto trovare rifugio. I suoi genitori erano personaggi di spicco della comunità ebraica triestina. Il padre matematico, la madre impegnata nella vita sociale della città, come molti altri ebrei della sua città, s’impiega nelle Assicurazioni Generali, cimentandosi nel tempo libero con la letteratura, la filosofia e l’arte. Abbandonata l’Italia dopo le leggi razziste del ’38, dopo un periodo d’internamento a Yafo (Giaffa), a metà strada fra la prigionia e la sorveglianza coatta, si trasferisce in kibbutz. Il richiamo della foresta è per lui più forte e nel 1948, dopo la liberazione, fa ritorno in una città che non sarà più la stessa. A dispetto di un luogo comune, la diffusione dell’opera di Freud in Italia nei primi tre decenni del secolo passato, pur nella sua marginalità rispetto alle correnti dominanti della cultura medica e scientifica italiana, ha avuto una grande capacità d’innovazione e di creatività, che non poté esprimersi al meglio solo per la violenza della repressione cui andò incontro le derive razziste del regime fascista, le persecuzioni e le deportazioni. Nei ricordi di Voghera, la “discesa” della psicoanalisi da Vienna per Trieste fu nei primi anni del Novecento “un ciclone” che ha l’effetto di un contagio. In un paese dove il numero degli ebrei si aggira all’uno per mille sulla popolazione, a Trieste gli ebrei sono quasi il due per cento della popolazione. Il numero d’iscritti alla comunità era nel 1931 4.671 persone, di cui 3.234 italiani, su un totale di 250.000 abitanti. Nel 1938 gli iscritti aumentarono a 6.937 di cui 1628 non italiani. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, Trieste era un importante snodo ferroviario e marittimo. Il suo porto era il principale sbocco marittimo dell’Impero asburgico, che nel 1719 gli aveva riconosciuto lo status di porto franco. Era la città italiana più cosmopolita, economicamente florida e culturalmente vivace, con una borghesia laica e intraprendente. Un ponte verso l’area mitteleuropea con una vocazione mediterranea: una crocevia di culture e religioni, punto d’incontro di popoli e culture. A Trieste gli scienziati, i medici, i professionisti che si formavano nelle università austriache erano intrisi di positivismo. I letterati e gli umanisti che si formavano in Italia erano attratti dal pensiero di Benedetto Croce, e dai fermenti letterari che ruotavano attorno a La Voce, la più importante rivista italiana, pubblicata a Firenze. Il mondo in cui il pensiero di Freud trova il suo primo e grande ascolto italiano, è un mondo di uomini che non abdicano alla loro soggettività. Il ciclone psicoanalitico triestino è contraddistinto da un duplice versante: filosofico letterario e medico psicologico. Sul versante filosofico letterario è caratterizzato dalla presenza di scrittori e poeti di spessore, la quasi totalità appartiene anch’essa al milieu ebraico della città, che in modo diverso e complementare si confrontano con l’opera del maestro viennese. Nelle mani di Italo Svevo (Aron Hector Schmidt), la psicoanalisi è uno strumento poderoso per portare a fondo l’attacco contro il romanzo realista d’ispirazione ottocentesca. Piegato al bisogno, il discorso freudiano, fornisce l’architettura filosofica e antropologica che rende possibile un’atmosfera nuova che incrinava le certezze morali e personali, economiche e sociali dei personaggi dei romanzi ottocenteschi. Nelle mani di Umberto Saba, un’altra figura di primo piano della comunità ebraica triestina, è uno strumento di arricchimento per la prosa e la poesia. Sul versante clinico, il ciclone triestino può contare sulla presenza di Edoardo Weiss, uno dei padri della psicoanalisi italiana, che si è formato a Vienna con Federn e ha mantenuto anche dopo il ritorno, i contatti con Freud. Un’altra figura di primo piano della cultura medica in quegli anni è Marco Levi Bianchini, primario all’Ospedale di Nocera Inferiore, poi a Teramo e di nuovo a Nocera Inferiore. Sul piano della ricerca scientifica e sperimentale ha dalla sua l’opera di Vittorio Benussi e della cerchia di giovani brillanti e promettenti raccolti intorno a lui nel Laboratorio di psicologia dell’Università di Padova, tra cui c’è Cesare Musatti che insieme a Emilo Servadio, ebreo genovese, e Nicola Perrotti, abruzzese di Penne, porrà le basi della ricostruzione postbellica della psicoanalisi italiana. Se Trieste è la culla della psicoanalisi italiana, Firenze non è da meno e può contare sull’opera di Francesco De Sarlo e di due suoi brillanti allievi ebrei: Roberto Marco Greco (Assagioli) ed Enzo Yosef Bonaventura. Orfano all’età di due anni, Marco Greco assume il cognome Assagioli, dal secondo marito della madre. Marco Assagioli passa un intero anno al Burghozli, lavora con Jung e Bleuler ed entra in contatto con Freud, che conta molto su di lui per la diffusione del suo pensiero in Italia. Rientrato in Italia, Assagioli si laurea con una tesi intitolata “La psicoanalisi”. Poi una rivista (Psiche) che dedica il suo secondo numero interamente a Freud. In seguito però si distacca dal troncone principale della psicoanalisi e fonda una sua scuola (Istituto di Psicosintesi). Figura carismatica e attiva nel movimento sionista italiano, Bonaventura avrà un ruolo di primo piano nella formazione e sviluppo della psicologia accademica israeliana. Geniale e innovativo, Bonaventura saprà mettere a frutto le sue competenze scientifiche e sperimentali, per lo studio in laboratorio di fenomeni legati all’esperienza interiore. Quando i mezzi messi a punto da De Sarlo erano inadeguati, non esitava a costruirne altri di persona (ad esempio il tachistoscopio a doppia caduta, utilizzato per gli studi sulla dimensione psicologica del tempo). L’interesse di Bonaventura per l’opera di Freud è il risultato di una sintesi creativa e originale di attitudine alla ricerca sperimentale, interesse per la realtà fenomenologica unita a una grande tensione morale che gli proveniva dalla sua formazione e militanza ebraica. Espulso dell’Università in seguito alle leggi razziste del ’38, si trasferisce a Gerusalemme, dove continuerà la sua attività scientifica alla guida del Dipartimento di psicologia. La sua morte tragica nel corso della guerra scatenata dagli eserciti arabi per impedire la nascita di Israele, lascerà un grande vuoto. Il suo libro su Freud, pubblicato dalla Mondadori prima della sua partenza dall’Italia, e che si legge ancora oggi con piacere, sarà per molti anni uno dei pochi testi a disposizione in italiano per chi volesse occuparsi seriamente dell’opera di Freud.

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