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Panorama Rassegna Stampa
16.08.2007 A Sergio Romano piacciono le dittature
per esempio quella siriana

Testata: Panorama
Data: 16 agosto 2007
Pagina: 86
Autore: Sergio Romano
Titolo: «La rivincita dello Stato canaglia»

PANORAMA datato 16 agosto 2007 pubblica a pagina 86 un articolo di Sergio Romano sulla Siria.
L'articolo si conclude con la proposta di stipulare un accordo di asscociazione  tra il regime di Damasco e l'Unione europea.
Per arrivare a rendere accettabile questa conclusione, Romano allinea nel testo falsità, minimizzazioni e distorsioni.
La Siria, apprendiamo,  è stata "ripetutamente accusata di essere protettrice di Hezbollah e di Hamas, di avere stretto con l’Iran un «patto del diavolo», di soffiare sul fuoco della guerra civile irachena".
Forse Romano ignora che Khaled Meshal, capo di Hamas, vive a Damasco, che le armi iraniane arrivano a Hezbollah attraverso la Siria e che sempre dai confini siriani transitano molti terroristi stranieri diretti in Iraq.
Ignora probabilmente anche i motivi dell' "offensiva" israeliana alla quale Hezbollah avrebbe ben "resistito",  il sequestro di due soldati, la morte di altri otto e i razzi katiuscia contro la popolazione civile.
In compenso non ignora che Chirac, lasciato l’Eliseo, "è andato ad abitare in un duplex del quai Voltaire che appartiene alla famiglia Hariri", della quale faceva parte l'ex premier libanese assassinato dai servizi segreti siriani.  L'attuale abitazione di Chirac, scrive Romano, è "una prova dell’amicizia che lo legava all’ex premier assassinato e un’ombra, secondo qualche malizioso osservatore, sull’obiettività della sua politica antisiriana.".  Se Chirac non fosse stato amico di Hariri, dunque, sarebbe stato più "obiettivo", e avrebbe riconosciuto che la Siria aveva tutti i motivi di farlo fuori...  D'altro canto, in seguito all'omicidio Hariri e alla reazione della comunità internazionale 
"la Siria ha ritirato le sue truppe dal Libano, ma può ora sostenere con qualche ragione, dopo quanto è accaduto da allora, che la loro presenza aveva garantito la stabilità del paese". Con le autobombe contro gli oppositori, appunto.
 Non è nemmeno il caso, per Romano,  di insistere troppo sulla mancanza di democrazia interna. In fondo il 
97 per cento dei voti che alle ultime elezioni hanno riconfermato presidente Bashar Assad sono "troppi per un regime veramente democratico, ma anche il segno della rassegnata convinzione che questo sia, per il momento, il migliore dei regimi possibili. " Quanto conti, nel determinare questa "rassegnata convinzione", l'azione della polizia segreta del regime, Romano non se lo chiede.
A lui, è evidente,  i regimi non "veramente democratici" piacciono così come sono.  Non si devono rivolgere loro critiche troppo aspre. Piuttosto, facciamoci affari, "buona economia" contro la "cattiva politica" del cambio di regime.
Ecco il testo:

Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha deliberato la costituzione del tribunale che dovrà processare i responsabili della morte dell’ex premier libanese Rafik Hariri. È un brutto colpo per il presidente siriano Bashar al-Assad che rischia così di finire sul banco degli imputati come mandante dell’assassinio o silenzioso complice dei suoi servizi segreti. Ma la risoluzione non è stata approvata all’unanimità. Fra i quindici paesi che fanno parte del Consiglio, cinque (fra cui Russia e Cina) si sono dissociati. Non hanno voluto assumere una posizione esplicitamente contraria a quella degli Stati Uniti e dei loro alleati, ma hanno preferito astenersi. Resta da vedere, comunque, se il tribunale riuscirà a decollare. Il governo libanese di Fouad Siniora lo ha tenacemente voluto e intende usarlo per mettere in difficoltà le fazioni filosiriane del suo paese. Ma non è riuscito a farlo approvare dal parlamento di Beirut e governa da tempo sull’orlo d’una crisi che rischia di trasformarsi in guerra civile. Il suo maggiore problema oggi non è più, come negli scorsi mesi, il braccio di ferro con Hezbollah e altri gruppi di opposizione. È l’apparizione in Libano di una versione domestica di Al Qaeda (Fatah al-Islam) che sta buttando benzina sui campi in cui vivono circa 400 mila profughi palestinesi. Questo è il Medio Oriente: una grossa matriosca in cui ogni crisi ne contiene un’altra e tutte formano insieme una imbrogliata matassa.

Ma la Siria, nonostante la costituzione del tribunale, può tirare oggi un sospiro di sollievo. Due anni fa, dopo l’assassinio di Hariri, attraversò un periodo di pericoloso isolamento. Fu colpita da nuove sanzioni americane. Fu ripetutamente accusata di essere protettrice di Hezbollah e di Hamas, di avere stretto con l’Iran un «patto del diavolo», di soffiare sul fuoco della guerra civile irachena. Dovette riportare in patria le sue truppe, presenti in Libano da circa quarant’anni. Fu abbandonata persino dalla Francia, un tempo sua amica, che divenne da quel momento il suo principale avversario in Europa. Si racconta che nell’ultima fase della sua vita il vecchio Hafez al-Assad, presidente della Siria dal 1970, avesse telefonato al presidente francese Jacques Chirac per affidargli il giovane, inesperto Bashar, chiamato da Londra per succedere al padre. Ma Chirac, vecchio amico di Hariri, reagì alla morte dell’ex premier libanese come a un’offesa personale e divenne, insieme a Bush, il principale regista di una iniziativa all’Onu per la creazione del tribunale. Se ne è occupato attivamente, a quanto pare, sino agli ultimi giorni della sua presidenza, facendo pressioni su molti governi dell’Ue. Si dice che qualche tempo fa, quando Massimo D’Alema si apprestava a incontrare il ministro degli Esteri siriano, Chirac abbia telefonato a Romano Prodi per chiedergli di non rompere il fronte della solidarietà europea.

Ora il tribunale esiste, ma Chirac ha lasciato l’Eliseo ed è andato ad abitare in un duplex del quai Voltaire che appartiene alla famiglia Hariri: una prova dell’amicizia che lo legava all’ex premier assassinato e un’ombra, secondo qualche malizioso osservatore, sull’obiettività della sua politica antisiriana. Non basta. Hezbollah ha resistito bene all’ offensiva israeliana della scorsa estate ed è ancora una quinta colonna siriana nella politica libanese. La Siria ha ritirato le sue truppe dal Libano, ma può ora sostenere con qualche ragione, dopo quanto è accaduto da allora, che la loro presenza aveva garantito la stabilità del paese. Persino i rapporti con gli Stati Uniti sono meno tesi. Il Gruppo di studi sull’Iraq, presieduto da James Baker e Lee Hamilton, ha raccomandato a Bush di aprire conversazioni con la Siria. Nancy Pelosi, presidente del Congresso, ha raccolto l’invito del Gruppo e ha fatto una sosta a Damasco durante il suo viaggio in Medio Oriente. Condoleezza Rice ha incontrato il ministro degli Esteri siriano durante la conferenza sulla crisi della regione che si è tenuta a Sharm el Sheikh nello scorso maggio.

Il cerchio dell’isolamento si è rotto e la Siria può contare, tra l’altro, sull’amicizia della Russia e persino della Turchia con cui ha concluso un accordo di libero scambio nel dicembre 2004. Anche Israele, in questi ultimi tempi, ha fatto capire che sarebbe disposto ad aprire negoziati con il governo di Damasco per trasformare il vecchio armistizio del 1973 in un trattato di pace. Vi erano già state trattative all’epoca del vecchio Assad e sembravano destinate a concludersi con il ritiro delle truppe israeliane dalle alture del Golan. Ma si erano interrotte quando le due parti non erano riuscite ad accordarsi su una fascia di terra lungo il mare di Galilea, importante per la fornitura d’acqua alla zona.

La rottura dell’isolamento si riflette nel tono con cui gli uomini politici siriani parlano ora della situazione nella regione. Qualche settimana fa ho incontrato a Damasco il viceministro degli Esteri Feisal Miqdal. Quando ho osservato che la Siria era «rientrata in gioco», mi ha risposto con sicurezza che non ne era mai uscita. Siamo stati «in gioco»», mi ha detto, anche quando gli Stati Uniti ci consideravano uno stato canaglia e persino qualche paese della regione aveva raffreddato i suoi rapporti con Damasco. Abbiamo ricevuto meno visite di ministri stranieri, è vero. Ma che cosa contano le visite quando, come capita spesso, non producono alcun risultato? Questo sentimento di scampato pericolo permette al viceministro di rievocare con compiacimento le principali vicende degli ultimi anni. Gli attentati terroristici dell’11 settembre, mi dice, hanno provocato in Siria un’ondata di sentimenti filoamericani. Ma gli Stati Uniti hanno fatto un pessimo uso di questa simpatia. Più tardi, quando fece una visita a Damasco come segretario di Stato, Colin Powell arrivò con una lista di istruzioni che «nessun presidente siriano avrebbe accettato». Ma ora finalmente Usa ed Europa sembrano rendersi conto dell’importanza della Siria nella regione. Può contribuire alla soluzione della crisi irachena perché, dice Miqdal, «siamo amici di tutti». Mi ricorda che il presidente iracheno Talabani è stato esule in Siria, ha viaggiato con un passaporto diplomatico siriano e ha fondato il suo partito in un caffè del quartiere in cui stiamo parlando. Tutti gli oppositori di Saddam sono passati da qui e molti hanno atteso in Siria la caduta del regime.

Il sentimento di sicurezza è rafforzato dalla convinzione che il sistema politico siriano sia uscito indenne dall’assedio internazionale degli ultimi anni. Certo, il risultato delle ultime legislative era scontato: il partito Baath può contare, per regola costituzionale, su 170 dei 250 membri di cui si compone l’Assemblea e gli altri partiti hanno un ruolo comparabile a quello delle piccole formazioni lasciate in vita nelle democrazie popolari durante la guerra fredda. Ma il voto è servito a rinnovare in parte il personale politico e a collocare in parlamento uomini fedeli al presidente.

Le elezioni presidenziali, qualche settimana dopo, hanno dato a Bashar il 97 per cento dei voti: troppi per un regime veramente democratico, ma anche il segno della rassegnata convinzione che questo sia, per il momento, il migliore dei regimi possibili. Le riforme politiche promesse dal giovane Bashar all’inizio della sua presidenza sono state accantonate e il regime ha ricominciato a processare i dissidenti: tre anni di carcere a un giornalista per avere firmato una dichiarazione con cui si chiedeva alla Siria di rispettare l’integrità territoriale libanese, dieci anni a due militanti, rei di una colpa analoga, 15 anni a un medico, esponente dell’opposizione, 5 anni a un avvocato dei diritti umani. Ma l’agenda delle riforme economiche non è cambiata. Bashar ha capito meglio del padre che l’economia siriana poteva permettersi di essere dirigista e statalista negli anni in cui disponeva di qualche risorsa petrolifera e aveva a Mosca un potente partner economico su cui fare affidamento. Ma le sue riserve energetiche si stanno assottigliando, l’Urss è morta e l’Asia produce a prezzi imbattibili i pochi prodotti che la Siria era in grado di esportare. La privatizzazione e la deregolamentazione, in queste circostanze, non sono una opzione, ma un obbligo. Per Damasco, quindi, il modello politico-economico è quello della Cina. Il presidente e il suo partito debbono conservare il controllo della società, ma l’economia deve adottare, sia pure con qualche prudenza, le regole del mercato. I riformatori, come il vice primo ministro Abdullah Dardari, ne sono consapevoli. Ma si scontrano con una doppia difficoltà. Dovranno dare risposta alle preoccupazioni dei ceti sociali maggiormente danneggiati dall’abolizione dei prezzi politici e delle misure sociali elargite dalla Siria socialista. Dovranno smantellare la rete delle amicizie e delle clientele che si sono cristallizzate al vertice del sistema politico e che intendono approfittare della loro influenza per continuare ad amministrare la nuova economia.

Un aiuto determinante potrebbe venire dall’Unione Europea con cui la Siria ha lungamente negoziato un accordo di associazione. L’accordo era pressoché pronto quando la morte di Hariri, la crisi libanese e le pressioni degli Stati Uniti lo hanno congelato. Oggi è arrivato probabilmente il momento di tirarlo fuori dal cassetto. In una regione devastata dalle crisi la buona economia potrebbe servire a riparare i danni della cattiva politica.

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