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Panorama Rassegna Stampa
22.07.2006 Sergio Romano non vuole ammettere che Israele si sta difendendo
allora "allarga il quadro", ma solo fino al punto che più gli conviene

Testata: Panorama
Data: 22 luglio 2006
Pagina: 17
Autore: Sergio Romano
Titolo: «Medioriente: il fallimento di moderati e mediatori»

Sergio Romano, nel suo editoriale pubblicato sul numero di PANORAMA  datato 27 luglio 2006, deve ammettere fin dalle prime righe che a scatenare l'attuale crisi in Medio Oriente sono state le aggressioni di Hamas ed Hezbollah.
E' una verità troppo evidente per essere negata senza compromettere la propria credibilità.
Ne segue allora che Israele si sta difendendo e la responsabilità della guerra è dei terroristi?
Romano è ben lontano dal condividere questa analisi, e per proporne un'altra sceglie di allargare "il quadro fino a comprendere altri fatti che gli eventi recenti hanno oscurato".
Alcuni di questi fatti, va subito notato, sono male intrepretati e persino mal ricordati da Romano.
Il documento dei detenuti palestinesi che Abu Mazen ha cercato di far approvare ad Hamas, tanto per incominciare, non comportava affatto un "riconoscimento implicito" di Israele, ma era soltanto una riedizione del piano a fasi di Al Fatah per arrivare alla distruzione di Israele partendo dalla creazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza.
Comunque, contrariamente a quanto scrive Romano "tre settimane fa, poco prima della cattura del caporale israeliano" Abu Mazen non stava per nulla "costringendo Hamas ad adottare una posizione più flessibile".
 Il premier Haniyeh, al contrario, aveva escluso chiaramante di poter accetare il piano.
Sono state invece le azioni israeliane successive al rapimento di Gilad Shalit, e la diretta minaccia all'incolumità dei capi terroristi di Hamas a Gaza e in Cisgiordania a spingere Haniyeh a una tardiva e poco credbile sottoscrizione.
In ogni caso, seguendo la metodologia proposta da Romano, proviamo a  allargare "il quadro fino a comprendere altri fatti" che la ricostruzione dell'editorialista  ha (volutamente ?) oscurato.
In primo luogo la pioggia di razzi kassam piovuta da Gaza su Israele ininterrottamente dopo il ritiro. Con ovvie responsabilità del governo di Hamas dopo la vittoria elettorale del gruppo fondamentalista.
In secondo luogo l'escalation di propaganda antisraeliana, di incitamento all'odio e di minacce da parte del regime iraniano, sponsor e mandante di Hezbollah.
Infine, il fallimento della via delle trattative come risoluzione del conflitto israelo-palestinese, dovuto alla doppiezza di Arafat e all'impotenza di Abu Mazen.
E' veramente difficile, di fronte al ritiro da Gaza e al progettato ritiro dalla Cisgiordania, vedere come Romano nell'unilateralismo israeliano il segno di un rifiuto del compromesso.
Si tratta invece, com' è evidente ad ogni osservatore privo di pregiudizi, della risposta all'assenza di un interlocutore palestinese al contempo credibile e disposto alla  trattativa (e alla rinuncia alla violenza) . Da parte di un popolo e di un paese che hanno dato ampie prove della propria disponibilità alla pace e alle "dolorose rinunce" che ritengono necessarie per conseguirla.

Ecco il testo dell'editoriale di Romano:   

 
Quando una intera regione sembra scivolare verso la guerra, come è accaduto negli scorsi giorni in Medio Oriente, il giudizio sulle responsabilità degli uni e degli altri è una sorta di processo in cui gli osservatori cercano anzitutto di ricostruire la sequenza degli avvenimenti che hanno preceduto la crisi. Israele ha colpito la Striscia di Gaza dopo la cattura di un caporale israeliano: la responsabilità, quindi, è di Hamas. Israele ha reagito a una sanguinosa operazione di commando degli hezbollah nel suo territorio e ha colpito il Libano dove il governo non riesce a controllare le zone in cui le milizie islamiche hanno installato le loro basi: responsabili delle iniziative israeliane sono quindi gli hezbollah e, oggettivamente, il governo di Beirut. La direzione di Hamas è a Damasco e gli hezbollah sono foraggiati da Teheran: Siria e Iran sono quindi i burattinai che hanno montato o reso possibili le operazioni provocatorie delle due organizzazioni. Ma il giudizio sulla crisi può cambiare se l'osservatore allarga il quadro sino a comprendere altri fatti che le vicende più recenti hanno oscurato. Abbiamo dimenticato, per esempio, il lungo braccio di ferro che ha opposto negli scorsi mesi il leader palestinese Abu Mazen al governo costituito da Hamas dopo la sua vittoria elettorale. Il tema del confronto era, sin da giugno, un interessante documento scritto da quattro esponenti del movimento palestinese detenuti nelle carceri israeliane: Marwan Barghouti (Al Fatah), Abdel Khalek al-Natsheh (Hamas), Abdel Rahim Malouh (Fronte popolare per la liberazione della Palestina), Sceicco Bassam al-Sadi (Jihad islamica). Il documento era composto da 18 punti e comprendeva proposte (per esempio il ritorno dei rifugiati palestinesi nelle terre da cui erano partiti nel 1948 e nel 1967) che il governo israeliano non avrebbe accettato. Ma proponeva la nascita di uno stato palestinese a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, vale a dire in territori conquistati da Israele durante la Guerra dei sei giorni. Pur senza dirlo esplicitamente, quindi, il documento Barghouti, come veniva generalmente chiamato in quei giorni, conteneva un implicito riconoscimento dello stato d'Israele. Il documento non piacque all'ala intransigente di Hamas perché avrebbe costretto l'organizzazione ad ammettere l'esistenza di Israele; e non piacque a Gerusalemme perché il governo di Ehud Olmert non intendeva riconoscere Hamas come interlocutore e rinunciare alla propria strategia unilaterale. Ma Abu Mazen continuò a premere sul governo di Gaza e dichiarò che nell'eventualità di una risposta negativa avrebbe posto il problema agli elettori con un referendum che si sarebbe tenuto alla fine di luglio. Cercava in tal modo di separare i moderati di Hamas dai falchi dell'organizzazione. Tre settimane fa, poco prima della cattura del caporale israeliano, la difficile operazione di Abu Mazen stava costringendo Hamas ad adottare una posizione più flessibile. Se fosse riuscito a terminare l'opera, il presidente palestinese avrebbe avuto nelle sue mani una carta importante e se ne sarebbe servito per tentare d'indurre Olmert, con cui aveva avuto un cordiale incontro in Giordania, a rivedere il proprio atteggiamento. Israele, beninteso, avrebbe dovuto implicitamente riconoscere che il governo di Hamas a Gaza non era più l'espressione di una organizzazione terroristica; e avrebbe dovuto accettare che il ritiro dalla Cisgiordania avesse luogo nel quadro di un accordo negoziato coi palestinesi. Ma Abu Mazen, per completare l'opera, avrebbe potuto contare sull'appoggio dell'Onu e di una buona parte della comunità internazionale. La cattura del caporale israeliano è probabilmente opera di quella parte di Hamas che intendeva boicottare l'intelligente operazione di Abu Mazen. E la reazione di Israele segna il trionfo di quella tendenza israeliana che, fedele alla linea fissata da Ariel Sharon, ha sempre preteso di risolvere il problema palestinese unilateralmente e di concedere al nuovo stato soltanto ciò che era compatibile con i propri interessi. Esistono poi, naturalmente, le responsabilità di Hezbollah e dei suoi protettori stranieri. Ma l'organizzazione libanese non avrebbe agito, probabilmente, se le rappresaglie israeliane a Gaza non le avessero fornito il migliore dei pretesti possibili.

Una pura supposizione, che mette in ombra l'evidente volontà di precipitare il Medio Oriente in una crisi, che accomuna Hezbollah e Iran

Usciti di scena i moderati e i mediatori, la scena oggi è interamente occupata dai falchi, tutti uniti dalla convinzione che lo scontro allontani la possibilità di ciò che ciascuno di essi maggiormente detesta: un compromesso.

Cliccare sui link sottostanti per scrivere alla redazione di Panorama e a Sergio Romano


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