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L'Espresso Rassegna Stampa
21.02.2021 Gli Accordi Abramo: un'analisi valida a metà se si dimentica il ruolo di Donald Trump
Un commento politicamente corretto di Wlodek Goldkorn

Testata: L'Espresso
Data: 21 febbraio 2021
Pagina: 66
Autore: Wlodek Goldkorn
Titolo: «Israele riscopre la fratellanza araba»
Riprendiamo dall' ESPRESSO di oggi 21/02/2021, a pag.66, con il titolo "Israele riscopre la fratellanza araba", l'analisi di Wlodek Goldkorn.

L'analisi di Wlodek Goldkorn è valida soltanto a metà. Il giornalista fa bene a sottolineare la distensione tra Paesi arabi del Golfo e Israele e le conseguenze positive di questa anche sui rapporti tra israeliani e arabi palestinesi, ma dimentica di specificare che il merito va attribuito agli Accordi Abramo voluti da Donald Trump. Questa è la metà che manca per non dover riconoscere le scelte vincenti dell'ex presidente degli Stati Uniti.

A pag. 98 Bernardo Valli, in un articolo che non riprendiamo, oltre a dimenticare il ruolo di Donald Trump sostiene che fino a pochi mesi fa non ci fossero relazioni diplomatiche tra quasi tutti i Paesi arabi e Israele. E' vero a metà, ma Valli avrebbe dovuto specificarne la ragione, cioè il rifiuto arabo di riconoscere Israele, mentre da parte dello Stato ebraico non ci sono mai state obiezioni al riconoscimento dei Paesi arabi.

Ecco l'articolo:

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Wlodek Goldkorn

Chi vince e chi perde dagli Accordi di Abramo
I firmatari della pace tra Israele e Stati arabi

Qualche mese fa, tre palestinesi, cittadini israeliani, hanno postato su YouTube un filmato: vestiti da arabi degli Emirati del Golfo, con tanto di kefiah (lo scialle tradizionale) ricamata di rosso e kandura (la lunga tunica) candida, passeggiavano per le strade di Herzliya, una cittadina al mare a nord di Tel-Aviv. Si trattava, hanno spiegato, di un esperimento sociale e culturale. Volevano documentare come i concittadini ebrei avrebbero reagito (bene) alla presenza di turisti arabi. Negli stessi giorni, ogni mattina e per alcune settimane, finché un lungo lockdown non ha interrotto il fenomeno, dall'aeroporto Ben Gurion partiva una dozzina di aerei diretti a Dubai, pieni di israeliani. Che cosa andavano a vedere? La domanda non riguarda tanto le conseguenze geopolitiche di quelli che vengono chiamatigli accordi di Abramo", una pace fra Paesi che non hanno mai combattuto fra di loro, fatta in funzione della politica di contenimento dell’Iran dell'ex presidente Donald Trump e della strategia di Benjamin Netanyahu, atta a non cercare una soluzione del conflitto con i palestinesi. La questione riguarda invece le ripercussioni di quella pace sull'identità degli israeliani e sul loro modo di stare in mezzo al mondo arabo. Anni fa, Ehud Barak, ex premier laburista, paragonò Israele a «una villa in mezzo alla giungla». Figlio delle élite di discendenza europea, cresciuto in un kibbutz, pianista brillante, soldato eccellente, insomma l'uomo modello del pioniere, combattente, artista, voleva probabilmente dire: Noi siamo la cultura, loro la barbarie. Ora, per restare nell'ambito dell'infelice parabola, gli israeliani visitando gli Emirati, scoprono, nel mondo arabo, l'esistenza di un'altra villa. Dubai, con i suoi grattacieli, con l'industria del divertimento, con i musei progettati da designer celebri - per non parlare di hi-tech e connessi - è uno specchio di Tel Aviv, anzi, un luogo ancora più postmoderno. E poi, parlando degli specchi, forse non è l'unico posto della zona che va dal Golfo e fino al Maghreb, in cui vedono riprodotta la propria immagine. Stiamo parlando dei rapporti con il Marocco e della nostalgia dell'Iraq. Ci torneremo.

«Intanto negli Emirati non si va per scoprire la letteratura di qualità o la musica sofisticata di una cantante leggendaria come Umm Kulthum», avverte però lo scrittore Etgar Keret, osservatore attento della cultura quotidiana del suo Paese. «Si va, per lo più, per giocare al casinò, affittare per poche ore una macchina di lusso, divertirsi senza sforzo di immaginazione. Si tratta di gite nella contemporaneità assoluta». In altre parole: evasione. Sottoponiamo allora il problema a Eva Illouz, sociologa e una delle pensatrici più originali del momento: nata a Fez in Marocco, vive fra Parigi e Israele. Il lato transeunte delle visite negli Emirati ha pure un significato culturale e identitario? Illouz ci tiene a sottolineare una certa vicinanza fra Israele e le monarchie del Golfo (Arabia Saudita compresa) per quanto riguarda il mix pericoloso fra tecnica e religione, rimarca quanto Israele sia disposto a collaborare con Paesi che non brillano per il rispetto dei diritti umani, insiste sulla realtà dell'occupazione dei Territori. E poi dice: «Quei viaggi, per gli israeliani sono un'uscita da una specie di spazio chiuso, da un ghetto. Da questo punto di vista sono una svolta». E in questo senso hanno a che fare con l'identità, perché non è un'uscita verso l'Europa o l'America, ma un viaggio nel cuore del mondo arabo e islamico. Certo, i confini terrestri con i Paesi vicini, l'Egitto e la Giordania, sono aperti da anni. C'è pace. Però manca il calore. Le memorie della guerra sono fresche e, nel caso della Giordania, la presenza dei palestinesi fa sì che il conflitto sia sempre latente. Né al Cairo, né tanto meno ad Amman, ci si sente a casa. Abbiamo detto casa. Ecco, la nostalgia di una rata non cinta da alte mura, e invece in mezzo ad altri è tanta. Quale casa? Dove? Certo, nei luoghi del mondo arabo e islamico dove la presenza ebraica era nel passato massiccia e culturalmente significativa, come l'Iraq e il Marocco. O se vogliamo, la vicenda di Dubai si inserisce nel processo della rinascita della cultura "mizrahi" (orientali), come vengono chiamati gli ebrei provenienti dal mondo islamico. Una cultura, che a lungo, in Israele, era disprezzata e che per i suoi stessi portatori, era spesso motivo di vergogna. Ma attenti, la nostalgia è un sentimento delicato e ambivalente.

La condizione per essere nostalgici è la certezza che tutto resti immaginario, che il passato non torni. La nostalgia è prima di tutto la costruzione della memoria come base per ricostruire la propria identità, ferita. Senza tornare ad abitare a Baghdad o Casablanca. Israele è la patria. Anche se a Baghdad e Casablanca si rimpiange l'assenza degli ebrei, e in una serie trasmessa dalla tv saudita girata da un regista del Bahrein, "Um Haroun" (la madre di Aronne), si racconta con toni kitsch della convivenza armoniosa fra ebrei e arabi, nel passato. Ecco, ci sono oggi star della musica araba, israeliane. E, si sa, attraverso la musica passa molta memoria. Prendiamo come esempio Dudu Tassa. Qualche anno fa, una sua canzone, "Esule" (titolo non casuale), è stata una piccola rivoluzione. Lui è nato in Israele ed è nipote di Daud El-Kuwaiti. Daud El Kuwaiti, a sua volta, assieme al fratello Saleh era considerato il fondatore della musica araba irachena moderna. I due, negli anni Trenta, erano ammirati e invidiati nell'intero mondo arabo. Spesso erano ospiti a pranzo alla corte del re a Baghdad. La loro vicenda segue le memorie degli ebrei iracheni: molti erano scrittori, artisti, attivisti politici. Poi, nel 1941 arriva un pogrom a Baghdad, 180 sono le vittime: finisce con l'esodo di quasi tutti gli ebrei, dopo la nascita dello Stato ebraico nel 1948. Arrivati in Israele, i fratelli El Kuwaiti da monarchi dei palcoscenici e dei cuori si ridussero a suonatori ai matrimoni. Ora Tassa canta le loro canzoni, rielaborate. I commenti sui social media sono all'insegna non solo di apprezzamento in Israele ma anche di parole degli utenti arabi, a Baghdad o Bassora, che dicono: «Tornate qui, fratelli ebrei». Ma non c'è solo la musica. Ecco il caso del poeta Almog Behar, 42 anni, nato in Israele. Pure lui uno dei 450 mila ebrei di discendenza irachena. In uno dei suoi poemi in ebraico, scrive il verso "Sono un ebreo", ma lo fa in lingua araba, a sottolineare il rispecchiarsi l'una nell'altra delle due identità. Qualche anno fa ha pubblicato un volume dal titolo "Sefer Baghdad" (I1 libro di Baghdad), dove esprime l'amore e il lutto per la perdita di un mondo mitologico, eppure molto concreto. Behar ama sottolineare quanto la lingua ebraica debba all'arabo e a quello che lui chiama «la simbiosi ebraico araba». E ancora, un anzianissimo e molto apprezzato scrittore israeliano, sempre in ebraico, Sami Michael, si considera (anche) un autore arabo iracheno (si veda "Victoria", edito con Giuntina). Un altro autore quotato e premiato, di origini irachene, Eli Amir, nel romanzo "Yasmine" (Einaudi) narra una simbiosi amorosa: un funzionario di Stato israeliano originario di Baghdad, per cui la cultura araba è più vicina di quella israeliana, si infatua di una palestinese di Gerusalemme Est, appena dopo la conquista della città nel 1967. Tre mesi fa il Marocco ha deciso di instaurare pieni rapporti diplomatici con Israele. Alla firma degli accordi, il rappresentante dello Stato degli ebrei, Meir Ben Shabbat, si rivolse al re Mohammed VI, in lingua locale, con le parole: «Lunga vita al mio sovrano». Un esercizio di retorica, ai fini geopolitici? È lecito pensare che non sia solo così. Ben Shabbat, alto funzionario dei servizi di sicurezza israeliani, fa parte di una comunità di quasi un milione di marocchini di quel Paese. E molti di loro rivendicano il legame con la dinastia e la fedeltà al re.

Ogni anno, a decine di migliaia visitano il Marocco. Sono attratti da quelli che, parafrasando lo storico Pierre Norra, possiamo chiamare "i luoghi della memoria", i quartieri delle città una volta abitati dagli ebrei o le tombe dei rabbini in odore di santità. E ora, con i rapporti diplomatici sarà più facile e per niente lacerante avere perfino la doppia cittadinanza, a sigillo sempre di un'identità declinata al plurale. Neta Alkayam, nonni venuti dal Marocco, è un'attrice e cantante israeliana. Da anni lavora al recupero dei vecchi canti e delle antiche preghiere. Ecco, andare a sentire la sua canzone "Muhal Nensa" (Impossibile dimenticare), vedere i commenti, da Israele e dai Paesi arabi e dal Maghreb, nei social media, per capire la potenza del fenomeno. No, nessun progetto di tornare e vivere in Marocco, ma una ricerca per riallacciare il filo spazzato della memoria, con un occhio all'avvenire. Un avvenire da vivere senza la necessità di provare a chiunque che si fa parte della "villa" e non della "giungla". Alkayam è regolarmente ospite del Festival ebraico di Cracovia, dove uno sforzo analogo (per quanto riguarda l'Europa) viene fatto da artisti di origini ebraiche polacche. La differenza fra le due situazioni? Sentiamo ancora una volta lo scrittore Keret, che in Polonia, Paese natio dei suoi genitori, torna spesso. La risposta è lapidaria: «Nel caso degli ebrei marocchini si tratta di una memoria senza ombra della Shoah». Certo, ci sono state violenze anti-ebraiche anche nel Maghreb (a Fez nel 1912, a Jerada e Oujda nel 1948), ma quel mondo non è mai stato distrutto, solo trasportato nelle valigie e nelle teste degli immigrati in Israele. Ecco perché si tratta una memoria piena di potenzialità. E per tornare all'inizio. La nostalgia non si traduce immediatamente in politica. Da ambedue le parti. La riscoperta della "fratellanza" non sposta il modo di votare dei discendenti di coloro che da quel mondo provengono né li rende sull'istante empatici con i palestinesi. E molti intellettuali arabi hanno difficoltà a riconoscere la legittimità di Israele. Eva Illouz così chiosa e riassume il nesso fra le storie dei viaggi nel postmoderno: «Il mondo oggi è un universo che con una metafora potrei definire androgino e ambivalente. Il nemico pub essere amico, il superiore inferiore, gli sfruttatori sfruttati . È una situazione non facile da comprendere ma che apre tutto lo spazio all'immaginazione».

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