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L'Espresso Rassegna Stampa
10.06.2016 Gaza 'sotto assedio' perchè manca l'acqua? L'ennesima bufala contro Israele
La diffonde Michele Monni

Testata: L'Espresso
Data: 10 giugno 2016
Pagina: 68
Autore: Michele Monni
Titolo: «La grande sete di Gaza»

Riprendiamo dall' ESPRESSO di oggi, 10/06/2016, a pag. 68, con il titolo "La grande sete di Gaza", il reportage di Michele Monni.

Il reportage ha il solo scopo di accusare Israele di "assediare" Gaza, attribuendo allo Stato ebraico la responsabilità della situazione difficile in cui versa parte della popolazione araba palestinese. Michele Monni, in ogni caso, sottolinea la natura del regime clientelare e familistico-mafioso di Hamas, che gestisce l'acqua a piacimento. In chiusura, però, vengono riprese le accuse a Israele.

Ricordiamo che lo Stato ebraico non solo non è responsabile della "sete" di Gaza, ma che passa ogni anno milioni di metri cubi d'acqua desalinizzata alla Striscia. Nella Striscia di Gaza, inoltre, esistono alberghi di lusso, piscine olimpioniche, parchi giochi acquatici: non proprio quello che ci si aspetterebbe da un luogo "assediato" e privato dell'acqua necessaria per sopravvivere.

Un consiglio a Michele Monni: la prossima volta che farà un servizio su Gaza perchè non pubblica le immagini che abbiamo scelto noi per illustrarne la "sete"?

Ecco l'articolo:

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Un parco giochi acquatico a Gaza

Per capire la crisi idrica di Gaza basta aprire il rubinetto: l'acqua è salata. Le due principali organizzazioni palestinesi che si occupano di acqua a Gaza (la Palestinian Water Authority e la Costal Municipality Water Authority) dicono che il 96,5 per cento della falda è compromesso. Se non si interviene in tempi brevi, sarà contaminata per sempre e nel 2020, stando a uno studio Onu, Gaza diventerà un luogo non umanamente vivibile.

«E' una catastrofe». Non usa mezzi termini Mahmoud Shatat, direttore del dipartimento di Oxfam che si occupa di acqua. «II problema principale è la sovraestrazione di acqua e il non sufficiente ricambio derivato dalle scarse precipitazioni», aggiunge. Per consentire questo ricambio, spiega Shatat, il limite estrattivo dovrebbe essere di circa 55-60 milioni di metri cubi l'anno, mentre oggi supera i 220 milioni di metri cubi, di cui 90 destinati ad uso domestico e il resto per il settore agricolo. Dato il continuo abbassarsi del livello della falda, l'acqua marina ha incominciato a infiltrarsi, pregiudicando l'unica fonte di acqua potabile. Per mitigare l'impatto della sovraestrazione, la Pwa acquista ogni anno tra i 10 e i 15 milioni di metri cubi di acqua dalla compagnia statale israeliana Mekorot, che vengono poi convogliati nella falda di Gaza per diminuirne il livello di salinità. Ma non basta.

Il trattamento delle acque di scarico è l'altro grande problema di Gaza. Più di 90 milioni di litri di acque nere non trattate vengono scaricati ogni anno a pochi metri dalla costa. L'effetto sulla flora e la fauna marina è devastante e costringe i circa 4.000 pescatori della Striscia a gettare le reti nell'area compresa tra il limite imposto da Israele (tra le sei e le nove miglia marine) e il liquame che si propaga dalla costa. Per avere un'idea del problema delle fogne, basta fare una passeggiata sul lungomare, in prossimità del campo profughi Beach Camp, il terzo più popoloso di Gaza (75 mila abitanti). Qui i rifugiati vivono a pochi metri dalle tubature di spurgo. L'olezzo che sale dal mare colpisce allo stomaco e si mischia alle strida dei gabbiani che svolazzano intorno in cerca di cibo tra i rifiuti.

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Una piscina sul lungomare di Gaza

Mariam Abu Reyalah, 75 anni, che vive con una quindicina tra figli e nipoti in una casetta sul lungo mare, spiega di essere costretta ad acquistare acqua a circa 40 shekels (10 dollari) al metro cubo: «Con quella del rubinetto non lavo nemmeno i panni», dice. A Wadi Gaza (nel centro della Striscia), dove un tempo scorreva un fiume, ora i bambini giocano accanto a un'enorme conduttura di scarico che rilascia migliaia di litri di liquami in quella che una volta era una delle aree più fertili di Gaza. In zone come questa, ha avvertito l'Oms, il rischio di un'epidemia di colera e tifo è alto.

Le ultime operazioni militari israeliane, oltre a causare migliaia di morti civili, hanno pesantemente danneggiato le infrastrutture idriche della Striscia. Ma la crisi idrica è legata anche alla quasi decennale lotta intestina tra le due principali fazioni palestinesi: Hamas e Fatah. I primi controllano la Striscia, ma non sono riconosciuti dalla comunità internazionale e quindi non possono gestire le centinaia di milioni di dollari in aiuti che invece sono amministrate dall'Autorità palestinese (Anp), dalle agenzie dell'Onu e dalle ong internazionali.

«Ci sono sicuramente ragioni tecniche, come l'ipersfruttamento della falda e le imbarazzanti strutture per la gestione delle acque di scarico, ma la crisi d'acqua a Gaza è principalmente un problema politico", dice a "l'Espresso" Rebhy el-Sheikh, numero due della Pwa, chea Gaza opera come emanazione dell'Autorità palestinese. «Il blocco imposto da Israele, che include materiale edilizio e macchinari, ci fa lavorare a singhiozzo, e le lotte tra Fatah e Hamas non aiutano. In più, negli ultimi 30 anni le precipitazioni nella Striscia si sono dimezzate (da 500 mm a 250 mm annui) mentre la popolazione è cresciuta esponenzialmente».

Così alcuni degli abitanti di Gaza hanno deciso di farsi il proprio pozzo, estrarre acqua e desalinizzarla. Il fenomeno è molto comune nelle zone rurali del sud della Striscia, nei pressi di Khan Younes e Rafah, ma anche nel centro di Gaza city. Secondo i dati della Pwa ci sarebbero più di 4.000 pozzi privati nella Striscia, da quelli per uso domestico a quelli che pompano migliaia di litri al giorno per il settore agricolo. Una piccola parte di questi pozzi - non è chiaro quanti - operano sotto autorizzazione Pwa, che ne testa la qualità per permetterne l'utilizzo e la vendita. Questo però non vale per chi ha legami stretti con il governo di Hamas, che spesso riceve il via libera dal gruppo militante stesso. Il movimento islamico ha inoltre dislocato cisterne di acqua gratuita tra le strade dei quartieri di Gaza City e di altre città dove i suoi sostenitori sono più numerosi.

Attrezzarsi ed estrarre acqua per venderla può essere un'attività molto lucrativa a Gaza. «Ho costruito l'impianto 6 anni fa, ho speso circa trentamila dollari: guarda, i filtri sono americani, racconta Abdel Al-Halabi puntando con il dito i cilindri di metallo dai quali si propagano tubi e valvole in un garage aperto su di un vicolo di Jabaliya. L'impianto è tutt'altro che professionale, ma consente di pompare 2.400 metri cubi ogni mese e rivenderli a circa 10 dollari al metro cubo. La Pwa e la Cmw non vedono di buon occhio i pozzi fai da te. Secondo i loro dati, più del 60 percento degli impianti sono illegali e forniscono acqua biologicamente inquinata.

Per Clemens Masserschmid, un idrologo tedesco che vive da quasi vent'anni in Palestina ed è considerato il massimo esperto di acqua nella regione, «le cause di questo disastro sono un misto di contingenze naturali e storiche. LA causa naturale è semplice: Gaza è una striscia di terra semi-arida con scarse precipitazioni e una falda molto salina. La causa storica, secondo l'idrologo, è da ricercare invece nelle conseguenze dell'espulsione forzata di più di 700 mila palestinesi durante la creazione dello stato di Israele, nel 1948: in quel periodo la popolazione di Gaza quadruplicò improvvisamente e i palestinesi persero il 98 per cento delle risorse idriche allora disponibili. «Ma la vera ragione della mancanza d'acqua è che Gaza è completamente sigillata dal blocco israeliano», sostiene Clemens. «Provate a pensare a una città delle dimensioni di Milano senza la possibilità di ricevere acqua dai laghi e dalle Alpi e che dovesse contare solo sulle risorse in loco. Sarebbe nella situazione di Gaza in pochissimo tempo.

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