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L'Espresso Rassegna Stampa
20.09.2013 Un reportage dalla Cisgiordania che Abu Mazen apprezzerà di sicuro
quello di Gigi Riva con il fotografo Cédric Gerbehaye

Testata: L'Espresso
Data: 20 settembre 2013
Pagina: 72
Autore: Gigi Riva
Titolo: «Quel che resta della Cisgiordania»

Riportiamo dall'ESPRESSO di oggi, 20/09/2013, a pag. 72, l'articolo di Gigi Riva dal titolo "Quel che resta della Cisgiordania".


Il fotografo Cédric Gerbehaye, Abu Mazen

Gigi Riva intona la solita litania di Israele-oppressore/palestinesi-vittime indifese in Cisgiordania, terra che sarebbe erosa dalla costante occupazione dei tremendi coloni ladri di terre islamiche.
La scelta delle persone con cui ha parlato Riva è completamente sbilanciata contro Israele: palestinesi con molti figli, 'pacifisti' di "breaking the silence" e, per ultimi, coloni oltranzisti.
Non c'è spazio per altri.
Il pezzo è corredato da fotografie di Cédric Gerbehaye.
Anche la scelta delle foto è significativa: barriera difensiva nel tratto in cui è cemento, soldati israeliani con la kippah, bambini palestinesi, tutto rigorosamente in bianco e nero.
Terrorismo palestinese? Citato solo di striscio nella frase riguardante la barriera difensiva:  "
La sua costruzione ha prima fortemente diminuito e poi ridotto praticamente a zero il numero di attentati suicidi in Israele che ha caratterizzato la Seconda Intifada o Intifada dei kamikaze".
Per il resto, solo propaganda contro Israele.
Più che un articolo o un reportage fotografico, sembra un'immensa velina uscita dall'ufficio stampa dell'Anp.
Ecco il pezzo:

Una sorta di rassegnazione segna il volto e le parole di bambini, anziani, donne e uomini. Come se non ci fosse più prospettiva dopo 46 annidi occupazione e a 20 esatti dagli accordi di Oslo (13 settembre 1993, Bill Clinton con Yitzhak Rabin e Yasser Arafat che si stringono la mano a Washington per la ratifica). Clinton è oggi un pensionato di lusso della politica e remuneratisssimo conferenziere. Rabin è stato ucciso due anni dopo da un estremista ebreo in piazza a Tel Aviv. Arafat è morto in un ospedale francese nel 2004 e la sua salma riesumata di recente per capire se davvero si trattò di decesso naturale. Il trattato di pace, che tante speranze aveva suscitato, è pure defunto se non sulla carta, sicuramente nei fatti concreti. In occasione dell'anniversario il fotografo belga Cédric Gerbehaye ha percorso tutta la Cisgiordania da sud a nord e incontrato gente comune, palestinesi e coloni, soldati israeliani, attivisti dei movimenti pacifisti. Quasi tutti non erano ancora nati nel 1967 quando Israele vinse la guerra e si prese l'area. Ciò che doveva essere provvisorio è diventato talmente duraturo da sembrare eterno. Tanto che, su entrambi i fronti, la stragrande maggioranza della gente (circa il 70 per cento) ritiene estremamente improbabile che si possa arrivare nei prossimi anni a un patto e che la soluzione "due Stati" su cui tutte le cancellerie ancora ragionano sia definitivamente tramontato. E uno degli ostacoli più seri è la costruzione continua di nuove colonie, o l'ampliamento di quelle esistenti, che Israele non ha mai cessato di autorizzare, provocando le ire persino dell'amica amministrazione americana. Negli ultimi cinque anni il numero dei coloni è aumentato del 20 percento toccando quota 350 mila, distribuiti in 121 insediamenti "ufficiali" mentre altri 300 mila israeliani abitano nella Gerusalemme est che avrebbe dovuto essere la capitale palestinese. Attorno alla Cisgiordania è stato edificato un muro di separazione lungo 730 chilometri, che, in alcuni punti, si discosta di 28 chilometri dalla linea verde del 1967. La sua costruzione ha prima fortemente diminuito e poi ridotto praticamente a zero il numero di attentati suicidi in Israele che ha caratterizzato la Seconda Intifada o Intifada dei kamikaze. Il viaggio di Gerbehaye parte da Masafer Yatta, estremo sud. Capre, desolazione, un paesaggio lunare di sassi e solo il vociare degli uccelli a violare un silenzio immoto. li nulla che deve essere uguale dalla notte dei tempi se non fosse per alcune tende beduine equalche sparuta casa che altro non èse non pietre ammassate. In una vive Mamhoud Hussein Hamamdi, 48 anni, che sembrano venti di più. Ci è nato, in quel panorama biblico. Nel 2007, racconta, «ho fatto la casa e la moschea. Sono arrivati i soldati israeliani a chiedermi dove era il permesso. E poi hanno demolito tutto. Hanno anche preso mia figlia e l'hanno tenuta in prigione per dieci giorni.. La giovane Sawsan legge un libro seduta per terra e lamenta: «I miei coetanei hanno i computer, l'elettricità, possono studiare. Ma Israele non vuole il nostro sviluppo, non vuole che ci emancipiamo». Mamhoud ha fatto 12 figli. Con loro e grazie a un generatore di fortuna guarda la televisione la sera, unico svago. Non sa che proprio quel dato, i 12 figli, tanto comune a molte famiglie palestinesi, è una delle cause di preoccupazione dall'altra parte del muro.11 leader dell'ala politica della Jihad islamica non ha mai avuto del resto timore a confessarlo: «La guerra che abbiamo perso la stiamo vincendo in camera da letto. Io ho fatto 12 figli che a loro volta ne hanno fatti 12 a testa. Il mio vicino ebreo ne ha fatti due. Tra due generazioni saremo 144 a 4«. II sorpasso demografico, nell'area tra il Mediterraneo e il Giordano, fu l'incubo di Ariel Sharon prima che il male lo rendesse un vegetale. Lo è per i suoi credi politici. Lo scarto di fertilità tra vicini è probabilmente il più alto del pianeta. E la natalità potrebbe contare, a lungo, più della forza. Lo strapotere militare è oggi evidente nella seconda tappa, Hebron, la città più contesa. Dove c'è la "Grotta dei patriarchi" in cui sono sepolti,secondo la Bibbia,Abramo, Sara, Isacco, Rebecca e Lia. I musulmani la chiamano "moschea di Abramo" ed è sacra per entrambe le religioni. I fedeli entrano da ingressi separati, con un percorso che rende impossibile l'incontro. Si possono spiare attraverso delle enormi grate. È là dentro che il 25 febbraio del 1994 il colono Baruch Goldstein ammazzò a colpi di fucile automatico 29 palestinesi e ne ferì 100. Prima di essere sopraffatto da alcuni coraggiosi che, per fermarlo e colpirlo, dovettero divellere dal muro la pesante cassa di un telefono pubblico: l'unica improvvisata armadi cui potevano disporre. Oggi 2 mila soldati proteggono 800 coloni e per farlo «condizionano la vita di 30 mila famiglie palestinesi a ,come sottolinea Yeduha Shaul, di Breaking The Silence, una ong pacifista israeliana. Gerbehaye incontra un'anziana donna palestinese. Una madre anzitutto che cerca di mettersi nei panni di quei giovani militari nemici: «Gli hanno fatto il lavaggio del cervello in modo taleche anche io avrei paura di noi se fossi al loro posto». E aggiunge che prima o poi, come la goccia che scava la pietra, le ragioni del suo popolo vinceranno. Parla anche, il fotografo, coi membri di una pattuglia. E uno di loro quasi si scusa: «lo sto solo facendo il mio lavoro». l soldati incombono, proprio fisicamente, sulla vecchia e meravigliosa casbah, quasi sempre deserta ora. Stanno sui camminamenti costruiti sopra le antiche pietre e dà lì controllano, mitra alla mano, la vita che scorre in basso. Scorre come può, in quella condizione intollerabile. A nord di Hebron c'è Nahalin (terza tappa) la più drammatica per l'incontro con il clan dei Ghayada, vittime di un'imboscata con bombe molotov da parte di un gruppo di coloni (e Yehusa Shaul aggiunge: «Il numero dei loro attacchi è in preoccupante aumento negli ultimi tempi»). È il capofamiglia Ayman che ricorda: «Stavamo andando in macchina a fare degli acquisti e siamo stati bloa ti da uomini spuntati dal bosco. Quando l'auto ha cominciato a bruciare siamo riusciti a togliere le cinture di sicurezza, uscire dall'abitacolo e scappare». Su tutto il corpo porta i segni delle ustioni così come suo figlio. E a nulla era valsa l'implorazione di Bassam l'autista, verso gli aggressori: «Abbiamo dei minori a bordo, che c'entrano loro?». La quarta tappa nei dintorni di Gerusalemme est, riporta a uno dei nodi cruciali e irrisolti del conflitto, lo status della città santa, l'ipotesi di divisione perché sia capitale, sempre più ipotetica, dei due Stati benché quasi tutti i politici israeliani la proclamino «indivisibile». A Wadi Abu Hindi altre 2 mila unità abitative in costruzione mettono a rischio la continuità territoriale della Cisgiordania, tagliando fuori proprio Gerusalemme. Peraltro già attorniata da una delle porzioni più oppressive del muro di cemento e oltre la quale sorge il sobborgo di Abu Dis, dove l'Autorità palestinese ha già cosrwto parte dei propri uffici amministrativi, peraltro inutili allo scopo, per ora e chissà per quanto. Nella Valle del Giordano, ultima tappa, c'e la colonia di Mehola i cui abitanti si sentono investiti di un ruolo gotico. Stanno lì, dicono, «per motivi economici, politici e religiosi». A proteggere, da quell'avamposto (parola di Meir Sivan), «Gerusalemme, Tel Aviv le nostre città. Perché il conflitto è qui che comincia... Non crede «che la nascita di uno Stato palestinese possa garantire la sicurezza di Israele». Pensa che quando è stato offerto qualcosa ai palestinesi, come il ritiro da Gaza, «in cambio abbiamo ricevuto bombe in testa». Crede in fondo che agli arabi non dispiaccia vivere accanto a Israele «visto quanto succede in Siria o in Egitto». Sarebbe anche disposto a restituire loro la terra «solo se ci daranno la pace». Ma Rachel Wiseberg, altra colona, offre la miglior chiosa al perenne dissidio: «Non sono sicura che la parola pace abbia lo stesso significato per noi e per loro».

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