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L'Espresso Rassegna Stampa
19.07.2010 Che cosa c'entra la flottiglia con l'inaugurazione della nuova ala dell'Israel Museum ?
Non si sa, ma ciò che conta è non perdere l'occasione di attaccare Israele

Testata: L'Espresso
Data: 19 luglio 2010
Pagina: 98
Autore: Enrico Arosio
Titolo: «Il tempio museo»

Riportiamo dall'ESPRESSO n°29 del 16/07/2010, a pag. 98, l'articolo di Enrico Arosio dal titolo " Il tempio museo ".

Pur trattandosi di un articolo sull'espansione dell'Israel Museum di Gerusalemme, Enrico Arosio non ha perso l'occasione per criticare la politica israeliana e scrive : " Faticoso costruire a Gerusalemme? La tensione è alta. Il processo di pace irrigiditosi dopo le ennesime provocazioni dei coloni, le gaffes di Netanyahu con Obama, l'odioso agguato delle truppe israeliane al convoglio umanitario in acque internazionali, le minacce di Hamas e dell'Iran.". La tensione è alta grazie alle minacce di Hamas, Hezbollah, Siria, Iran. Quali sarebbero le gaffes di Netanyahu con Obama? Il loro ultimo incontro è andato bene. Per quanto riguarda la Mavi Marmara, Arosio sostiene che facesse parte di un convoglio umanitario. Non è così. Se lo scopo della flottiglia fosse stato quello di far arrivare aiuti alla popolazione di Gaza, avrebbe attraccato al porto di Ashdod come era stato richiesto dalla marina militare israeliana. Là le merci sarebbero state ispezionate e mandate a Gaza via terra. Inoltre Arosio non specifica che i 'pacifisti' a bordo della Mavi Marmara erano armati e che alcuni soldati di Tzahal sono rimasti feriti nel corso dell'operazione.
Sono stati diffusi video e immagini che lo dimostrano.
Ecco l'articolo di Enrico Arosio:


alcune immagini dell'Israel Museum

La voce lontana di James Carpenter giunge da Oklahoma City. Quel magico nome, Oklahoma, ove immaginava futuro e libertà il ragazzo sradicato Karl in "America" di Kafka. Carpenter, 61 anni, nato a Washington, in qualche modo è sradicato anche lui, ma in Israele. Estraneo alle vicende politiche e culturali di quel Paese, dove anzi per la prima volta gli è capitato di lavorare, è stato lui a coordinare l'espansione dell'Israel Museum a Gerusalemme, che verrà inaugurato il 21 luglio alla presenza delle massime autorità dello Stato. "È un luogo carico di significato sin dalla sua topografia", racconta il progettista, che ha base a New York, ed è stato selezionato, tra altri, non per concorso ma sulla base di curriculum e intervista. "Il campus museale sorge a Givat Ram, in cima a una collina estremamente carica di significato: vicino alla Knesset e alla Corte Suprema, alla guardia della laicità in una città sempre più in mano agli integralisti. Nello stesso spazio ritroviamo gli edifici-simbolo di politica, giustizia e cultura. La chiamano la collina della Tranquillità".
Givat Ram è particolare. Un'oasi anche concettuale in una città aspra, dove la cultura laica fatica a difendere i propri spazi dalle crescenti paranoie del nazionalismo etnico e della tensione interreligiosa. L'altura verde sovrasta l'antico Monastero della Croce, origini nell'XI secolo, a lungo, nell'Ottocento, seminario teologico ortodosso. Givat Ram è pulita e ordinata, un'eco della ville-jardin europea. Nella polvere del cantiere ancora aperto i bravi giardinieri gerosolimitani (non di rado arabi) già risistemavano i roseti. Il 21 luglio dunque riapre l'Israel Museum: scrigno di belle arti e tesori culturali o centro di public relations per la "Prussia del Medio Oriente" (così Eugenio Scalfari nel 1967)? L'uno e l'altro, forse. Riapre rinnovato, con una spesa di 100 milioni di dollari (oltre 80 raccolti dalla diaspora, soprattutto in Europa e Usa): 7.800 metri quadri di nuove costruzioni e 19 mila di spazi espositivi rinnovati e ampliati. Carpenter è stato affiancato da partner locali, Efrat-Kowalsky e Lerman Architects, di Tel Aviv. Per lui, abituato alla densità urbana di New York (è autore della torre 7 World Trade Center, del Time Warner Center a Columbus Circle, dell'ingresso della Hearst Tower), è stata un'esperienza inedita. E non facile.
Il museo, nato nel 1965, era la sintesi imperfetta di autori e linguaggi diversi. La base progettuale è l'edificio creato da Alfred Mansfeld, classico pioniere askenazita, ebreo russo che aveva studiato a Berlino e Parigi ed era emigrato in Palestina nel 1935. Il linguaggio era nettamente modernista: molto cemento armato, orizzontalità, angoli retti e protezione dalla luce, come tanti edifici di Tel Aviv (senza scomodare la bauhausiana Città Bianca degli ebrei tedeschi). "A Mansfeld si erano aggiunte", racconta Carpenter, "altre mani e altre sensibilità. Come il Rose Art Garden, il giardino di sculture disegnato dal nippo-americano Isamu Noguchi; e naturalmente il Tempio del Libro, di Frederick Kiesler". Il Tempio è l'attrazione speciale, con quella bassa cupola espressionista, vagamente mammellare, che contiene i Manoscritti di Qumran e un patrimonio di antichi testi religiosi, legali, sapienziali che sono le testimonianze dell'Ebraismo. La visita al Tempio è un'esperienza emotiva, ma anche spaziale, molto intensa.
"Siamo intervenuti con delicatezza", riprende Carpenter: "Dovevamo riunire, far dialogare, creare interconnessioni. Con il direttore James S. Snyder si è deciso di integrare le parti, aprire al paesaggio esterno, migliorare la circolazione, la luminosità. Senza sovrapporci con forza". Il contrario di tanta architettura museale di oggi, tesa all'esibizionismo dell'oggetto mediatico.
Tema cruciale era la protezione dalla luce, che in Israele può essere violenta. Sul vetro e i materiali tralucenti Carpenter ha lavorato per anni: è un esperto. "Il museo di Mansfeld usava molto cemento e poca luce naturale. Gli spazi espositivi erano tante scatole isolate dal paesaggio. Noi abbiamo cambiato. Sui lati esposti, ovest e est, abbiamo messo molto vetro, ma schermato da griglie in ceramica estrusa, che neutralizzano la luce diretta, la filtrano con morbidezza. Un trattamento comune a tanta tradizione costruttiva del Medio Oriente".
I visitatori verranno accolti da tre nuovi padiglioni vetrati, con la riorganizzazione di tutto l'ingresso, dalla biglietteria alla ristorazione, e una nuova promenade accessibile a tutti, cento metri di tunnel pedonale che ha alla sua destra il Garden di Noguchi e il Tempio, ed è addolcito da giochi d'acqua e vitree trasparenze. Lo spazio espositivo si è rinnovato nelle tre ali principali: l'archeologia, le arti internazionali, e la vita ebraica. Ripensata la Synagogue Route; introdotta una galleria permanente di artisti israeliani; raddoppiato lo spazio per l'arte moderna, che ha veri tesori, da Picasso a Modigliani, dagli impressionisti a Chagall, da Dada a Magritte, da Man Ray a Rothko e oltre. Di Olafur Eliasson e Anish Kapoor, concessione alle mode, due nuove installazioni all'aperto.
Faticoso costruire a Gerusalemme? La tensione è alta. Il processo di pace irrigiditosi dopo le ennesime provocazioni dei coloni, le gaffes di Netanyahu con Obama, l'odioso agguato delle truppe israeliane al convoglio umanitario in acque internazionali, le minacce di Hamas e dell'Iran. Davanti a un "quarrelsome world", come direbbe Salman Rushdie, Carpenter fa il muro di gomma. Manca poco all'inaugurazione, e sono temi scivolosi: "L'Israel Museum", scandisce, "ha mantenuto il suo ideale delle origini, come luogo del dialogo, e io ne ho tenuto conto. Le collezioni vanno bel oltre la componente ebraica, con ricche presenze islamiche e cristiane. Si è allargata la base secolare, basti pensare all'arte moderna e contemporanea. Su Israele colgo, come tutti, l'alternare di ottimismo e pessimismo. Posso dire che hanno chiamato un architetto americano, libero, neutrale. E non mi hanno mai rivolto richieste di tipo ideologico". Architettura, scuola di diplomazia.

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