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L'Espresso Rassegna Stampa
17.05.2010 Per qualcuno amare Israele significa offrire nuovi spunti per odiarlo
Goldkorn e Riva entusiasti dell'appello JCall contro Israele

Testata: L'Espresso
Data: 17 maggio 2010
Pagina: 108
Autore: Wlodek Goldkorn - Gigi Riva
Titolo: «Le due anime di Israele»

Riportiamo dall'ESPRESSO n°20 del 14/05/2010, a pag. 108, l'articolo di Wlodek Goldkorn e Gigi Riva dal titolo " Le due anime di Israele ".

Secondo i due autori del pezzo, l'appello JCall sarebbe nato a causa di " una sempre più pressante e urgente preoccupazione: che un domani lo Stato d'Israele possa scomparire, o forse mutare radicalmente natura e da un Paese democratico retto dalla regola "una testa un voto" possa diventare una società governata dal principio di apartheid (una minoranza che detta la legge alla maggioranza). ". JCall non è un appello pro Israele. Il contrario, semmai. E' un appello che offre agli odiatori dello Stato ebraico nuovi spunti per attaccarlo.
Il pezzo di Goldkorn e Riva è fortemente sbilanciato a favore di JCall. Per dovere di cronaca, dopo diverse righe di spiegazione su JCall, Goldkorn e Riva scrivono : "
subito è partito un controappello, le comunità si sono divise e le accuse di atteggiamenti irresponsabili se non di intelligenza col nemico sono all'ordine del giorno.". L'appello redatto da Fiamma Nirenstein, 'Con Israele, con la Ragione', viene liquidato in due righe e mezzo, come se fosse un dato poco rilevante. In verità, 'Con Israele, con la Ragione' ha raggiunto 4000 firme in pochi giorni.  
Goldkorn e Riva riportano le dichiarazioni di uno dei firmatari di JCall, Alain Finkielkraut : "
"Amo Israele, un amore cieco", premette. E poi spiega quanto l'amore sia sinonimo di timore: un timore che la madre sente per un figlio che sbaglia, e che mette a repentaglio la propria vita. "Oggi Israele è minacciato dall'Iran e dai suoi alleati: la Siria e Hamas", dice. Ed ecco come la politica e la memoria entrano in un circolo virtuoso: la bomba atomica di Teheran è da prendersi sul serio. Ma per evitare il peggio, occorre un comportamento politico razionale e ragionevole: bando al panico e alla propaganda. ". Quando Israele denuncia il nucleare iraniano e i rischi che comporta starebbe facendo propaganda?
Goldkorn e Riva riportano anche le dichiarazioni di Gad Lerner sugli ebrei della diaspora. Secondo Lerner non c'è alcuna differenza fra ebrei israeliani ed ebrei della diaspora. Ma è evidente che una differenza fondamentale c'è. Gli ebrei della diaspora firmatari di JCall non vivono in Israele, non hanno sulla propria testa la minaccia costante di Hamas, di Hezbollah, della Siria, dell'Iran. E' facile puntare il dito contro uno Stato che si difende dai propri nemici con tutti i mezzi in suo possesso senza viverci e, quindi, senza condividere le minacce che lo hanno portato a difendersi.

Invitiamo a leggere l'aggiornamento di Fiamma Nirenstein sull'appello 'Con Israele, con la Ragione', e firmarlo per chi non l'avesse ancora fatto:  http://www.petitiononline.com/israel48/petition-sign.html
pubblicato in inglese in altra pagina della rassegna
Ecco l'articolo di Wlodek Goldkorn e Gigi Riva:


Alain Finkielkraut, uno dei firmatari di JCall

Per l'ebraismo è una rivoluzione copernicana. Causata da una sempre più pressante e urgente preoccupazione: che un domani lo Stato d'Israele possa scomparire, o forse mutare radicalmente natura e da un Paese democratico retto dalla regola "una testa un voto" possa diventare una società governata dal principio di apartheid (una minoranza che detta la legge alla maggioranza). Ecco perché oltre 5 mila tra intellettuali, artisti, professionisti, hanno firmato e presentato al Parlamento di Bruxelles un "Appello alla ragione" in cui si dice quanto segue: Israele deve perseguire una politica che renda fattibile la soluzione di due Stati, uno ebraico e uno palestinese; per farlo l'Europa deve assumersi le proprie responsabilità per le sorti degli ebrei, del Paese e della regione. E infine, last but not least: chi sta nella diaspora ha il diritto e il dovere di dire tutto quello che pensa dello Stato d'Israele. Tra i firmatari persone così diverse tra di loro come Daniel Cohn Bendit (che non è mai stato un fan del sionismo), Alain Finkielkraut (che lo è e con vigore), Bernard-Henri Lévy e George Bensoussan, storico, da sempre allineato all'ortodossia del movimento nazionalista ebraico. Da noi lo hanno firmato tra gli altri, Anna Foa e Gad Lerner. Fin qui la cronaca, con un corollario: subito è partito un controappello, le comunità si sono divise e le accuse di atteggiamenti irresponsabili se non di intelligenza col nemico sono all'ordine del giorno.
Per capire perché un simile documento possa aver originato una rivoluzione: culturale e quasi antropologica, occorre tornare indietro, fino alla seconda metà degli anni Quaranta. Dopo Auschwitz, e dopo la distruzione di un mondo (un fenomeno a cui all'epoca si stentava perfino a dare un nome, solo più tardi si parlò di Olocausto e poi della Shoah) una cosa era data per certa e fuori da ogni possibile discussione: che la catastrofe dell'ebraismo europeo avesse reso definitivamente muta la diaspora. La Shoah aveva messo in evidenza, si diceva, che gli ebrei nel Vecchio Continente, ma anche altrove fuori dalla Palestina, fossero perennemente alla mercé degli altri: vittime di chiunque voglia trasformarli in un capro espiatorio. L'unica salvezza, morale e non solo politica, stava nel "fare la aliyah", trasferirsi in Terra d'Israele, combattere e costruire uno Stato in cui gli ebrei potessero costituire una maggioranza e diventare così soggetto del proprio destino. La diaspora, con i suoi inconcludenti Freud e Mahler, era diventata sinonimo della vergogna. Israele con i suoi soldati agricoltori era invece il sole dell'avvenire, un astro centrale che emana luce e calore ad altri pianeti, e l'infallibile guida per il mondo ebraico.
"Oggi la situazione è cambiata, prima di tutto dal punto di vista sociologico", dice il professor Bensoussan, "700 mila israeliani vivono fuori dal Paese, nella diaspora". "La differenza tra stare in Israele o fuori non ha più nessun significato", conferma Gad Lerner, "conosco tanta gente che vive qualche anno nello Stato ebraico, poi viene in Europa, o il contrario. La barriera che divideva i due tipi di ebrei è caduta". L'appello dei 5 mila è dunque una logica conseguenza dell'abbattimento di quel invisibile muro. Ma è solo questo? O forse sta cambiando l'immaginario degli ebrei?
Contrariamente a quanto si possa pensare, più ci si allontana dall'evento storico e più quell'evento, la Shoah, diventa centrale per il vissuto di ogni ebreo: anche per coloro che hanno gli antenati fuori dall'Europa. O meglio, la Shoah è diventata centrale a partire dal 1967, quando alla vigilia della guerra dei sei giorni, tutti in Israele e nella diaspora hanno pensato che lo Stato degli ebrei fosse minacciato dalla distruzione. Finì con la conquista di Gerusalemme e dei luoghi sacri. Fu l'euforia. Qualcuno capì che si trattò di un dono avvelenato. Oggi molti, dallo storico tedesco israeliano Dan Diner a Cohn Bendit, dicono che con la guerra del 1967 la Gerusalemme celeste, sogno di redenzione, è diventata fin troppo terrena: incubo di cemento armato e di costruzioni volte ad affermare l'eterna sovranità ebraica sulla città. Il teorico della letteratura George Steiner ha descritto una volta le due forme di attesa del Messia. Per alcuni il redentore parlerà (o forse già parla) solo l'ebraico. Per gli altri egli avrebbe ripristinato la primordiale lingua adamitica perduta: gli ebrei avrebbero partecipato alla redenzione del mondo. Senza il messianesimo non c'è ebraismo moderno. E quelle due visioni che hanno spaccato l'ebraismo dai tempi dell'Illuminismo sono validissime, spiega Diner, perché vi si aggiunge non più il fantasma, ma la memoria più razionale possibile ed elaborata della Shoah. Una memoria che serve per il presente e il futuro.
Ne parlano gli stessi firmatari dell'appello. Basta sentire Alain Finkielkraut. "Amo Israele, un amore cieco", premette. E poi spiega quanto l'amore sia sinonimo di timore: un timore che la madre sente per un figlio che sbaglia, e che mette a repentaglio la propria vita. "Oggi Israele è minacciato dall'Iran e dai suoi alleati: la Siria e Hamas", dice. Ed ecco come la politica e la memoria entrano in un circolo virtuoso: la bomba atomica di Teheran è da prendersi sul serio. Ma per evitare il peggio, occorre un comportamento politico razionale e ragionevole: bando al panico e alla propaganda. E poi racconta come prima di firmare l'appello abbia parlato con lo scrittore David Grossman (da settimane in prima linea nella lotta ai coloni, a coloro che sognano il Messia amministratore di condomini esclusivamente ebraici). Grossman lo ha convinto che la diaspora deve parlare. E deve spiegare agli israeliani che il loro Paese si sta suicidando. Aggiunge Finkielkraut: "Israele è diventato l'oggetto di odio, il capro espiatorio, come lo erano i singoli ebrei". E allora non rimane che dare una mano a coloro che vogliono cambiare il governo di Gerusalemme. Anche per fermare i coloni: il secondo punto di Finkielkraut, che minacciano di trasformare Israele (annettendo la Cisgiordania) in uno Stato binazionale, in definitiva quindi o ebraico e non democratico, oppure democratico e non ebraico.
Il tabù è rotto. Ci sono degli ebrei che dicono apertamente: vogliamo che Hillary Clinton si attivi di più per frenare il governo di Netanyahu, complice dei coloni, e che porta Israele alla distruzione. Dicono anche che vogliono la colomba Tzipi Livni come premier, e aggiungono: l'Europa dia una mano perché tutto ciò diventi possibile. Un ritorno a un Messia universalistico? Si vive e si muore, tutti insieme in un mondo globalizzato? Anche. Non a caso l'"Appello alla ragione" nasce in Francia, patria di 600 mila ebrei e 5 milioni di musulmani. I firmatari del documento non nascondono come la seconda intifada in Israele, abbia reso più difficile la convivenza tra le due comunità nel loro Paese: gli eventi di Gerusalemme hanno ripercussioni immediate a Parigi. E poi, dice Cohn Bendit, un ebreo lontanissimo dall'ortodossia ma fanatico della memoria, è l'ora che l'Europa, si assuma la responsabilità per la sorte di coloro che ha rifiutato, massacrato, espulso. Il movimento in realtà è doppio. Mentre molti nel nostro continente, si rendono conto quanto di Europa ci sia in Israele, anche nello Stato degli ebrei, si riscoprono le radici nel Vecchio continente. Intanto, numerosi sono coloro (e i loro figli) che nati nelle contrade di Polonia, Ungheria, Romania hanno ripreso le vecchie cittadinanze: le chiamano "il passaporto europeo". Si sentono più al sicuro con questo, che non con quello blu scuro dello Stato d'Israele. Il ritorno alla diaspora è alimentato fin dalle scuole: nelle gite che fanno i liceali in Polonia, patria di un ebraismo rigoglioso fino alla Shoah, non si parla più di un Paese cimitero. Si vanno invece a visitare i luoghi della vita che fu. E il governo a Varsavia pensa che l'integrazione della Polonia in Europa passi per il legame con Israele e il recupero della memoria ebraica. E che dire del recente discorso di Netanyahu al Reichstag di Berlino, accolto come se fosse a casa sua, in una capitale che nel centro ha il monumento agli ebrei uccisi? Spiega Diner: "Il prisma di Auschwitz, attraverso cui l'intera storia ebraica veniva vista, è stato infranto". A questo ha contribuito anche la storiografia. La Shoah (quella che fu, non l'ipotetica causata dall'Iran) non fa paura. È stata addomesticata: da romanzi, film, opere d'arte. La catastrofe dice Diner, è stata resa famigliare. Non si parla più di "6 milioni di martiri", si fanno invece i nomi di chi è morto, e si dice quando e come sia stato assassinato. E pochi in Israele si scandalizzano se alla Shoah si paragonano altri tentati o veri genocidi: Rwanda o Bosnia, per esempio. Ma oggi è Israele l'unico Paese in cui la vita degli ebrei è davvero in pericolo, e anche di questo ci si rende conto.
C'è poi chi nella diaspora ha una posizione ancora più radicale, chi ha firmato appelli per il boicottaggio d'Israele (si veda anche la Bustina di Minerva di Umberto Eco a pagina 182). Uno di questi è lo scrittore inglese John Berger: "Ho chiesto il boicottaggio delle istituzioni appoggiate dal governo attuale, non certo di colleghi universitari, scrittori", precisa. Lui l'appello non lo firma, "ma anch'io temo per le sorti del Paese. Non voglio che Israele muoia". È come se quella alzata di scudi dei 5 mila l'avesse avvicinato alle comunità. "Sono contento che tante belle teste della diaspora siano capaci di dire a Israele: quel che fate non lo potete fare a nome mio". Che poi, è lo stesso concetto che sostiene Finkielkraut, lontanissimo dalle posizioni di Berger: "Israele non è né può essere il portavoce delle comunità". E Lerner ricorda una sua intervista con Primo Levi, pubblicata su questo settimanale durante la guerra del Libano nel 1982. Levi, con altri ebrei italiani, aveva firmato una lettera di protesta contro la politica di Gerusalemme. E disse allora che il baricentro dell'ebraismo da Israele si stava spostando verso la diaspora. Ecco, la storia si è compiuta. Oggi, Israele è solo una delle comunità della diaspora. Forse un figlio ribelle di una madre in pena. Il baricentro non c'è più.

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