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L'Espresso Rassegna Stampa
28.09.2009 Celebrare i 100 anni di Tel Aviv senza parlare di arabi
Secondo Naomi Klein è un peccato mortale

Testata: L'Espresso
Data: 28 settembre 2009
Pagina: 112
Autore: Naomi Klein
Titolo: «Tel Aviv non è una fiction»

Riportiamo dall'ESPRESSO n° 39 del 25/09/2009, a pag. 112, l'articolo di Naomi Klein dal titolo " Tel Aviv non è una fiction ".

Naomi Klein è indignata perchè quest'anno, al Festival del Cinema di Toronto è stata organizzata una retrospettiva per celebrare i 100 anni di Tel Aviv.
"
È paradossale che la programmazione su Tel Aviv sia stata chiamata uno 'spotlight', in quanto celebrare quella città a sé, senza prendere in considerazione Gaza, senza osservare che cosa c'è sull'altro versante del muro di cemento, e dei check point, più che metterla in risalto la adombra. ". Non vediamo il nesso tra Tel Aviv, i suoi 100 anni e Gaza. E' possibile parlare di Israele e della sua cultura senza dover menzionare Gaza e gli arabi? Israele è uno Stato sovrano. Non ha nulla a che vedere con Gaza e la Cisgiordania. Se i palestinesi non hanno uno Stato proprio, di certo non è per colpa di Tel Aviv nè di Israele, ma dei Paesi arabi che, nel 1948, ne hanno rifiutato la fondazione. Per quanto riguarda la barriera difensiva (è sbagliato definirla "muro" dal momento che essa è in cemento solo nel 5% della sua lunghezza totale) e dei check point, non sono un capriccio degli israeliani per rendere scomoda la vita degli arabi. E' una difesa contro il terrorismo palestinese. Quando gli attacchi terroristici degli arabi cesseranno, sarà possibile eliminare barriera e check point. Naomi Klein scrive : " in questo ambito che un gruppo di registi, scrittori e attivisti, dei quali faccio parte anche io, ha redatto la Dichiarazione di Toronto 'No celebration under occupation' (...) molti firmatari erano impazienti di assistere al Festival di quest'anno e non l'hanno boicottato, limitandosi a manifestare la loro contrarietà per la rassegna su Tel Aviv. Molto più fantasiosa è l'affermazione secondo la quale dissentire dal celebrare Tel Aviv come una delle metropoli cool del mondo equivale a mettere in discussione il 'diritto a esistere' della città stessa.". Come sono gentili e civili questi firmatari odiatori di Israele: hanno scritto una lettera contro Israele e Tel Aviv, ma hanno permesso che il Festival avesse luogo senza boicottarlo. Magari Israele dovrebbe scrivere una lettera di ringraziamento in risposta? Klein continua con il suo delirio "La lettera è anche un modo per far sapere a Mona Al Shawa e a milioni di altri palestinesi che vivono sotto occupazione e sotto assedio che non li abbiamo dimenticati. ". La lettera, insomma, non è rivolta a nessuno. Ecco l'articolo:

 Naomi Klein

Quando sono venuta a sapere che il Festival internazionale del cinema di Toronto aveva organizzato una retrospettiva di film per commemorare il centenario di Tel Aviv, mi sono vergognata della città nella quale abito. Il mio pensiero è volato a Mona Al Shawa, un'attivista che si batte per i diritti delle donne palestinesi. L'ho conosciuta a Gaza. Mi ha detto: "Avevamo più speranze durante i bombardamenti, quanto meno pensavamo che le cose potessero cambiare". Al Shawa mi ha raccontato che quando a dicembre e gennaio le bombe israeliane continuavano a piovere, gli abitanti di Gaza erano incollati alla tv. Oltre alle immagini delle carneficine, seguivano la diretta di qualcosa di molto particolare: il mondo intero si stava sollevando in preda allo sdegno, oltre 100 mila persone erano scese in piazza a Londra e un gruppo di ebree a Toronto aveva occupato il consolato israeliano. "La gente ha parlato di crimini di guerra. Non ci siamo più sentiti soli a questo mondo", ricorda Al Shawa. Pareva che, se gli abitanti di Gaza fossero riusciti a sopravvivere, le loro sofferenze sarebbero diventate l'agente catalizzatore in grado di innescare il cambiamento.
Oggi, Al Shawa afferma che quelle speranze sono andate infrante. Nei notiziari non c'è più traccia di Gaza. Non solo, Israele si è sempre rifiutato di collaborare con la missione delle Nazioni Unite, di cui è stato responsabile il giudice sudafricano Richard Goldstone, incaricato di accertare come si sono svolti i fatti (e che, oggi accusa sia Israele sia Hamas di aver commesso crimini di guerra). La primavera scorsa, mentre la missione si trovava a Gaza, il Festival del cinema di Toronto era impegnato nelle selezioni della sua rassegna dedicata a Tel Aviv. In molti avrebbero voluto che tutti noi credessimo che non vi era rapporto tra il desiderio di Israele di eludere le inchieste sul suo operato nei Territori e le sfavillanti anteprime di Toronto. Sono sicura che ci ha creduto perfino Cameron Bailey, il condirettore del Festival. Ma ha avuto torto. Da oltre un anno i diplomatici israeliani parlano della loro nuova strategia finalizzata a contrastare l'indignazione globale per come Israele ha raggirato le leggi internazionali. Non è più sufficiente, sostengono, limitarsi a ricordare Sderot ogni volta che qualcuno infiamma Gaza. Il loro intento è cercare di cambiare argomento, indirizzandosi verso tematiche più gradevoli: i film, le arti, i diritti dei gay, cose che sottolineano ciò che hanno in comune Israele e posti come Parigi, New York e Toronto. Dopo la guerra di Gaza, a mano a mano che le proteste dilagavano, gli israeliani hanno premuto a fondo l'acceleratore di questa strategia. Arie Mekel, vice direttore generale per la Cultura al ministero degli Esteri , ha spiegato al 'New York Times' il proposito di "inviare oltreoceano romanzieri e scrittori famosi, compagnie teatrali ed esposizioni, per mostrare il volto più bello di Israele, e far sì che la comunità internazionale non ci pensi impegnati sempre e soltanto nella guerra". E non c'è ambasciatrice migliore in assoluto della cosmopolita e trendy Tel Aviv, che ha festeggiato per tutta l'estate il proprio centenario con beach party sponsorizzati da Israele a New York, Vienna e Copenaghen.
Toronto aveva avuto un piccolo assaggio di questo nuovo taglio culturale voluto da Israele. Un anno fa Amir Gissin, console a Toronto, aveva spiegato che la campagna 'Brand Israel' avrebbe previsto una "ragguardevole presenza israeliana al Festival del cinema, con la comparsa di personaggi illustri israeliani, hollywoodiani e canadesi del mondo dell'intrattenimento". Gissin aveva anche dichiarato: "Sono fiducioso che tutto quello che pianifichiamo di realizzare lo realizzeremo". E in effetti così è stato. Cerchiamo di essere chiari: nessuno qui afferma che il governo israeliano abbia manovrato la rassegna dedicata a Tel Aviv, sussurrando nelle orecchie di Bailey quali pellicole mettere in programma. Il punto è che la decisione del Festival di dare a Israele il posto d'onore, celebrando Tel Aviv come una "città giovane e dinamica, che come Toronto onora la diversità che la caratterizza" si sposa alla perfezione con la propaganda dichiarata di Israele.
Nel catalogo del Festival si legge che Gal Uchovsky, uno dei registi sul quale si sono puntati i riflettori, ha affermato che Tel Aviv è "un paradiso nel quale gli israeliani possono scappare a rifugiarsi ogni qualvolta hanno voglia di dimenticare le guerre e il peso della vita di tutti i giorni". Rispondendo in parte a ciò, Udi Aloni, il regista del film 'Local Angel', presentato in anteprima a Toronto, ha inviato ai partecipanti un videomessaggio nel quale ha sfidato gli organizzatori a opporre resistenza alla fuga dalla realtà e a "recarsi nei posti dove è davvero difficile andare". È paradossale che la programmazione su Tel Aviv sia stata chiamata uno 'spotlight', in quanto celebrare quella città a sé, senza prendere in considerazione Gaza, senza osservare che cosa c'è sull'altro versante del muro di cemento, e dei check point, più che metterla in risalto la adombra. A Toronto si sono viste splendide pellicole israeliane, che meritavano di essere mostrate come parti integranti del Festival, senza però quella connotazione politica che è stata data loro. È in questo ambito che un gruppo di registi, scrittori e attivisti, dei quali faccio parte anche io, ha redatto la Dichiarazione di Toronto 'No celebration under occupation', firmata da personaggi del calibro di Danny Glover, Viggo Mortensen, Howard Zinn, Alice Walker, Jane Fonda, Eve Ensler, Ken Loach e un migliaio di altri, tra i quali anche il regista palestinese Elia Suleiman. Le reazioni sono state prevedibili e fantasiose allo stesso tempo. L'affermazione più volte ribadita è che i firmatari della lettera praticano la censura, auspicando il boicottaggio del Festival. In realtà, molti firmatari erano impazienti di assistere al Festival di quest'anno e non l'hanno boicottato, limitandosi a manifestare la loro contrarietà per la rassegna su Tel Aviv. Molto più fantasiosa è l'affermazione secondo la quale dissentire dal celebrare Tel Aviv come una delle metropoli cool del mondo equivale a mettere in discussione il 'diritto a esistere' della città stessa. La lettera non fa nulla del genere; è un semplice messaggio di solidarietà, con il quale i firmatari dicono: "Quest'anno non mi sento di festeggiare con Israele". La lettera è anche un modo per far sapere a Mona Al Shawa e a milioni di altri palestinesi che vivono sotto occupazione e sotto assedio che non li abbiamo dimenticati.

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