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L'Espresso Rassegna Stampa
03.08.2009 Domani il congresso di Fatah
Paola Caridi non perde l'occasione di fare propaganda anti israeliana

Testata: L'Espresso
Data: 03 agosto 2009
Pagina: 80
Autore: Paola Caridi
Titolo: «Un leader per Fatah»

Riportiamo dall'ESPRESSO n°31 del 06/08/2009, a pag. 80, l'articolo di Paola Caridi dal titolo " Un leader per Fatah ".

Paola Caridi scrive, riferendosi al congresso di Fatah che inizierà domani : " Molti dei delegati di Gaza sono già fuori dalla Striscia ". Curioso, dato che solo ieri su Repubblica una cronaca di Alberto Stabile (ripresa nella rassegna di IC) riportava la notizia che Hamas ha bloccato i delegati di Fatah a Gaza e che alcuni di loro (pochi) sono riusciti a fuggire di nascosto (Hamas ha promesso di processarli al loro ritorno).
"
Provare a fare la pace con i palestinesi divisi, e per di più con il partito nazionalista (e laico) in perenne crisi di identità, non è possibile. (...)Lo sanno anche gli israeliani, ed è per questo, dice qualche intellettuale palestinese, che Tel Aviv vorrebbe un Fatah debole, con cui è più facile raggiungere i risultati che Israele vuole. ". Israele è interessato a raggiungere una pace equa con gli arabi. Il premier israeliano ha fatto delle proposte e chiesto delle cose in cambio. Compromesso significa questo: entrambe le parti devono dare qualcosa per ottenere qualcos'altro. Netanyahu ha offerto lo smantellamento degli insediamenti illegali e si è impegnato a migliorare le condizioni di vita dei palestinesi. In cambio ha chiesto il riconoscimento di Israele come Stato ebraico e la fine del terrorismo palestinese. Abu Mazen ha rifiutato la prima offerta e Hamas continua a sostenere di voler distruggere Israele. La pace con gli arabi, perciò, non dipende dalla debolezza o meno di Fatah, dal momento che, per quanto riguarda Israele, le due fazioni hanno la medesima posizione.
Caridi scrive : "
Tradotto: bisognerà vedere quanto sarà facile, checkpoint permettendo, raggiungere Betlemme da Nablus, da Hebron, da Jenin, nei giorni del congresso, e capire chi riuscirà a ottenere, dall'estero, il permesso degli israeliani di entrare. ". Come ha scritto Alberto Stabile nella sua cronaca di ieri, Israele non si è opposto al passaggio dei delegati di Fatah. Chi ha bloccato la loro uscita da Gaza è Hamas.  Paola Caridi non solo mente, ma è anche disinfomata. Ecco l'articolo:

 Abu Mazen

L'ombra di Gaza si allunga, sorvola i valichi che isolano la Striscia da anni, e arriva alla chiesa della Natività. Sino alla grande sala della scuola di Terrasanta dove si aprirà il 4 agosto il tanto atteso sesto congresso di Fatah. A vent'anni esatti dal precedente: era il 1989, gli accordi di Oslo erano ancora lontani, l'Anp (Autorità nazionale palestinese) un sogno, e Yasser Arafat era considerato ancora da molti un terrorista. Un congresso importante, fortemente voluto dalla nuova amministrazione americana di Barack Obama per legittimare la leadership del movimento più laico tra i palestinesi in vista della ripresa dei colloqui di pace. Dall'esito dell'assise si capirà anche quale chances ci siano di riallacciare il dialogo con la controparte israeliana.
Su tutti c'è, però, il tema interno che si chiama Gaza. Lasciata in un cassetto per almeno due anni, dai tempi in cui Hamas ha conquistato la Striscia, la questione è diventata l'incubo delle manovre precongressuali. La sconfitta di Gaza ancora brucia. Hamas ha preso il potere nel giro di pochi giorni, nel giugno del 2007, sbaragliando gli uomini di Fatah. Quella débâcle, a Ramallah, porta ancora un solo nome: quello di Mohammed Dahlan, allora l'uomo forte dentro la Striscia su cui confidava anche una parte dell'Occidente. Dahlan sembrava aver abbandonato la scena. Ora, invece, non si parla d'altro che del suo rientro. Dahlan vuole salire ai vertici di Fatah, guadagnarsi un posto dentro l'ufficio politico. E il rientro in scena di Dahlan vuol dire che della sconfitta di Gaza tutti dovranno parlare. Come se il congresso dovesse diventare anche un processo pubblico. Chi ha sbagliato, insomma, dovrà pagarne il prezzo politico.
Gaza, però, significa anche lo scontro in atto con Hamas. Che ha deciso di entrare con tutti e due i piedi nella partita. Mahmoud A-Zahhar, uno dei vecchi leader di Hamas a Gaza, lo ha detto chiaro: nessun membro di Fatah sarà autorizzato a lasciare la Striscia per andare a Betlemme. Prima devono essere liberate le centinaia di militanti di Hamas detenuti per ragioni politiche in Cisgiordania, dall'Anp. Poi, Hamas farà uscire i 400 delegati.
I numeri sono alti. Un terzo del totale dei delegati. Per Nabil Shaat, vecchio leader, la loro assenza metterebbe addirittura a rischio il congresso. "Senza Gaza non c'è conferenza", dice Shaat. Molti dei delegati di Gaza sono già fuori dalla Striscia. Ma sono solo quelli che ruotano attorno a Dahlan. "Gaza è il catalizzatore dei nostri fallimenti, il risultato dei nostri problemi", aggiunge Shaat
Nelle alchimie precongressuali, alleanze si stringono e si rompono, vecchie amicizie si riannodano. E la lista dei candidati è segreta. D'altra parte, il congresso di Fatah deve ridisegnare un movimento che vive su organismi decisi vent'anni fa. Da allora tutto è cambiato. Non c'è più Arafat. La vecchia guardia che sta all'estero si è indebolita. Soprattutto c'è bisogno di ringiovanire i quadri, dicono tutti. "Ma non ci aspettiamo una gran riforma", dice Qaddura Fares, esponente dell'élite che si è formata sulle strade della prima Intifada e che si riunisce attorno a Marwan Barghouthi, chiuso in una prigione israeliana con una condanna a cinque ergastoli. Il nodo, però, è che non c'è "un fondamento etico, una nuova cultura, un recupero della vecchia tradizione", dice Fares. E il congresso rischia di essere solo un mosaico in cui si inseriscono le tessere del nuovo potere di Fatah.
E allora? Qual è la nuova faccia di Fatah? Una sola cosa è certa. Mahmoud Abbas (Abu Mazen), il presidente, vuole la consacrazione. Perché afferma di essere, a 74 anni, il nuovo leader di Fatah. D'altra parte, la nuova amministrazione americana di Obama ci tiene molto a che Fatah si dia un volto nuovo, che faccia nascere un partito forte e unito quanto Hamas. Provare a fare la pace con i palestinesi divisi, e per di più con il partito nazionalista (e laico) in perenne crisi di identità, non è possibile. E i centri studi progressisti americani che stanno dietro al presidente lo sanno bene. Lo sanno anche gli israeliani, ed è per questo, dice qualche intellettuale palestinese, che Tel Aviv vorrebbe un Fatah debole, con cui è più facile raggiungere i risultati che Israele vuole. Tradotto: bisognerà vedere quanto sarà facile, checkpoint permettendo, raggiungere Betlemme da Nablus, da Hebron, da Jenin, nei giorni del congresso, e capire chi riuscirà a ottenere, dall'estero, il permesso degli israeliani di entrare.
Per il resto, "può succedere di tutto, l'una cosa e l'opposto. Sarà un congresso imprevedibile", dice Sari Nusseibeh, nel suo ufficio di rettore dell'università di Al Quds. Nusseibeh, tra gli intellettuali palestinesi più stimati, è sempre stato fuori dai giochi di partito. Ma al sesto congresso di Fatah ha (quasi) deciso di presentarsi per il comitato centrale. Come esponente del gruppo dei professionisti, spiega il direttore del centro studi di Gerusalemme Mahdi Abdel Hadi. Ci sono poi altri tre gruppi a giocarsi la palma, afferma Abdul Hadi. La vecchia guardia con Abu Mazen. Gli uomini attorno a Marwan Barghouthi. E infine la cosiddetta ala militare. Divisa, come sempre, tra un Dahlan redivivo e un altro nome che per anni era rimasto in stand-by. Quello di Jibril Rajoub, responsabile della sicurezza ai tempi di Arafat.
Uomo di Hebron, roccaforte islamista, Jibril Rajoub significa il riconoscimento di Hamas come attore politico. Suo fratello Nayef, leader islamista, è in una prigione israeliana da tre anni, Un riconoscimento, però, che la vecchia guardia di Ramallah non ha alcuna intenzione di ripercorrere. "Hamas è una minaccia al sistema politico palestinese", dice per esempio Abdullah Abdullah. Lui incarna l'ala di Fatah che non ha alcuna intenzione di cedere lo scettro. "Fatah forte significa il guardiano delle altre fazioni palestinesi". E per avere Fatah più forte bisogna "ripulire la nostra identità da tutta la polvere". Compresa quella che si è posata negli anni dell'Anp, quando Fatah si è confusa con l'Autorità nazionale. E sono arrivate le accuse di corruzione.
Staccare Fatah dall'Anp, questa è la formula. Per poi affrontare tutto il resto. Da una parte un governo di tecnocrati, magari guidato da Salam Fayyad, che possa continuare a gestire i soldi della comunità internazionale in Cisgiordania. Dall'altra parte Fatah, il bacino di consenso di Abuy Mazen, a cui il leader di Hamas, Khaled Meshaal, ha già dato il suo assenso per affrontare il processo di pace e poi sottoporlo a referendum. Il nodo, però, è chi ci sarà attorno ad Abu Mazen. Se un partito incline a ricostruire la politica palestinese e riaprire il dialogo con Hamas. E allora Dahlan dovrà avere un ruolo marginale. Oppure l'ala dura che vuole ridurre Hamas ai minimi termini, confinarla a Gaza e vincere le prossime elezioni.
Gli organismi direttivi prossimi venturi rischiano anche di cambiare i termini di una pace possibile. E la stessa geografia palestinese. Con due alternative. Una Palestina che cerca di riunire Cisgiordania e Gaza. O una Palestina composta da una Cisgiordania sempre più vicina ad Amman e da una Gaza sempre più isolata dal resto del mondo. È per questo che i giochi politici palestinesi possono influire sul rapporto con tutti gli altri protagonisti.
Israele, anzitutto, e la questione delle colonie in Cisgiordania, proprio nei giorni in cui i militari di Tel Aviv dicono che il popolo degli insediamenti ha superato quota 300 mila. Gli americani, che vogliono scrivere un piano di pace e vogliono farlo in fretta. E poi l'incognita: il dialogo con Hamas, la questione della riconciliazione. Infine, sopra a tutto, Gerusalemme, segnata da tensioni sempre più forti tra i palestinesi, le autorità comunali israeliane, i coloni. Tensioni che a qualcuno, come uno dei vecchi leader di Fatah, Hathem Abdel Qader, ricordano la fiammata sanguinosa del 1996. Primo ministro era, come oggi, Bibi Netanyahu, e al centro di tutto era sempre la terra: di chi è e di chi sarà.

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