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L'Espresso Rassegna Stampa
14.12.2007 A Guantanamo i processi non sono "regolari", la diplomazia metterà le cose a posto in Medio Oriente
affermazioni pregiudiziali, smentite dai fatti

Testata: L'Espresso
Data: 14 dicembre 2007
Pagina: 0
Autore: Enrico Pedemonte - Paul Salem
Titolo: «Nell'aula bunker di Guantanamo - Quando vince la diplomazia»

L' ESPRESSO del 14 dicembre 2007 pubblica la cronaca di un processo Salim Ahmed Hamdan, autista e guardia del corpo di Bin Laden, detenuto a Guantanamo.
E' chiaramente al cronaca di un "regolare processo", nel quale sono garantiti i diritti dell'imputato e della difesa.
Ma il pregiudizio ideologico porta Pedemonte a concludere così il suo articolo: 
"difficilmente il giovane yemenita, e gli altri imputati che seguiranno la sua linea di difesa, saranno spostati negli Stati Uniti per un regolare processo. Almeno finché alla Casa Bianca siederà George W. Bush. "

Ecco il testo:


E il generale Thomas W. Hartman a darci il saluto, nel piccolo ufficio stampa della base militare di Guantanamo: "Quella che comincia domani è la nuova Norimberga", dice con tono marziale: "Ma a Norimberga non era possibile presentare appello, mentre qui i detenuti potranno farlo". Hartman è un uomo alto e magro, veste in modo formale, con due stelle da generale che spiccano sul colletto. È qui come consulente legale della Commissione militare del Pentagono costituita per processare i reclusi nelle carceri della base. Il primo della lista è Salim Ahmed Hamdan, autista e guardia del corpo di Bin Laden, arrestato nel novembre 2001 nei pressi di Kandahar, in Afghanistan. Quando i militari americani lo presero gli affibbiarono il n. 149, e ancora oggi, oltre sei anni dopo, è il 'detenuto 149'. Il drappello di inviati ammessi alle udienze è costituito da sei americani, un'inglese che lavora per un'agenzia saudita e il giornalista de 'L'espresso'. Siamo arrivati su un Dc 9 della Marina Militare decollato dall'Andrews Military Airport di Washington, insieme ai collegi della difesa e dell'accusa, ai giudici e a cinque osservatori internazionali tra cui un inviato dell'Onu, il finlandese Martin Scheinin. Ci accompagna Jeff Gordon, portavoce del ministro della Difesa Robert Gates.

L'ultima volta che avevamo messo piede a Guantanamo Bay, nel novembre del 2003, la base ospitava 660 detenuti, ciascuno dei quali viveva in una piccola gabbia di metallo traforato, una sistemazione più volte denunciata come inumana dalle organizzazioni per i diritti civili. Oggi le cose sono cambiate. I detenuti rimasti sono 305 e vivono all'interno di quattro carceri nuove di zecca che hanno gli standard delle prigioni di massima sicurezza americane. Guantanamo è nel frattempo diventata il tallone d'Achille più delicato dell'amministrazione Bush e il processo a Hamdan è il tentativo di far recuperare un'ombra di legalità internazionale al carcere.

L'aula dove si svolgono le udienze è in una palazzina gialla a due piani in cima a una collinetta spoglia che degrada verso il mare. Ma si tratta di una sede provvisoria. Il nuovo Palazzo di giustizia è in via di costruzione più a valle, a poche decine di metri dalla spiaggia, e sarà ultimato all'inizio della prossima primavera: è un edificio bianco con il tetto spiovente che potrà ospitare due processi in contemporanea, circondato da una tendopoli dove saranno sistemati gli avvocati, la sala stampa e i servizi giudiziari. Il Pentagono dice di voler mandare a giudizio almeno ottanta detenuti, ma finora i processi avviati sono solo tre, a parte il caso dell'australiano David Hicks, che si è dichiarato colpevole di sostegno ai terroristi, ha concordato una condanna a nove mesi (subito sospesa) ed è stato rispedito al suo paese.

Raggiungere l'area del processo è una gimkana tra i posti di blocco. Il pulmino che trasporta i giornalisti e la scorta viene fermato prima per il controllo dei permessi di accesso, poi per verificare se sotto il pianale siano nascoste bombe. A cento metri dall'aula giornalisti e militari di scorta vengono ispezionati con un detector di metalli e uno di esplosivi. A pochi metri dall'aula c'è un ulteriore controllo del badge, e all'ingresso una giovane in tuta mimetica controlla le scarpe, svuota le tasche delle giacche e sequestra temporaneamente tutto: portafogli e passaporti, biglietti da visita e penne supplementari. Poi si entra. Ciascuno può portare con sé solo una penna e un taccuino, purché non a spirale. Nell'aula è proibito disegnare schizzi, spostarsi dal posto assegnato. I cellulari sono oscurati. Chi esce durante l'udienza non può più rientrare.

Molti dei militari con cui parliamo riconoscono che all'interno della base le misure di sicurezza sono una sorta di ossessione. Alcuni osservatori notano che questa continua pressione psicologica serve per sottolineare lo 'stato di guerra' dichiarato dall'amministrazione, cioè il caposaldo ideologico per giustificare l'esistenza stessa del carcere di Guantanamo.

Ma dentro l'aula il clima cambia radicalmente. Il giudice che presiede la Commissione militare, il comandante della Marina militare Keith Allred, è noto per la sua indipendenza di giudizio. È un cinquantenne energico e sorridente che crea un clima disteso durante il dibattimento, si rivolge spesso all'imputato per verificare se la traduzione simultanea è adeguata e persino per informarsi se è troppo stanco per seguire i lavori che procedono a tappe forzate.

Quando l'imputato Hamdan entra nell'aula è stretto fra due soldati che gli tengono i polsi piegati in avanti, una posizione che limita la mobilità delle mani. Ha lo sguardo tranquillo, sorride agli avvocati, guarda il pubblico con curiosità. Ha 37 anni, la barba e i capelli neri tagliati corti e una giacca di tradizione yemenita a quadrettini bianchi e neri, con un'ampia sciarpa bianca che gli copre le spalle. Quando fu arrestato ammise subito di avere lavorato come autista e guardia del corpo di Bin Laden, pagato 200 o 300 dollari al mese più cento di affitto. Ma negò di essere un militante di Al Qaeda e di avere avuto un ruolo nella strage dell'11 settembre o in altri attentati. Nei primi mesi della sua prigionia accompagnò gli agenti dell'Fbi in giro per l'Afghanistan per mostrare dove aveva portato Bin Laden, i nascondigli notturni, i campi di addestramento. Poi, nell'aprile 2002, fu trasferito a Guantanamo e da allora lasciato in totale isolamento. Gli dissero che se si fosse dichiarato colpevole lo avrebbero liberato. Ma lui rifiutò, ed oggi eccolo qui, seduto in quest'aula spoglia, 25 metri per 15, accanto ai quattro avvocati della difesa, voltarsi per guardare il pubblico che sta al di là di una balaustra di legno scuro, una cinquantina di persone, in larga parte militari della base ed esperti del Pentagono.

È l'avvocato Brian Mizer, giovane luogotenente della Marina vestito in abiti civili, a spiegare la prima mossa della difesa. Mizer contesta lo status giuridico del prigioniero, considerato 'unlawful enemy combatant', cioè 'nemico combattente illegale'. Non si tratta di un cavillo giuridico ma dello snodo attorno a cui ruota la macchina giudiziaria di Guantanamo. Secondo la Convenzione di Ginevra per avere lo status di 'prigioniero di guerra' bisogna far parte di una catena di comando e vestire un'uniforme. I terroristi, i franchi tiratori, i mercenari e le spie non hanno questo status. Se i detenuti di Guantanamo fossero dichiarati 'combattenti legali' l'amministrazione Usa dovrebbe trasferirli su territorio americano e processarli secondo il codice militare.

Fu lo stesso giudice Keith Allred, a giugno, a prosciogliere Hamdan da tutte le accuse sostenendo che nessun tribunale aveva giudicato l'imputato 'nemico combattente illegale', una condizione indispensabile per poter essere giudicato qui. L'amministrazione dovette varare un provvedimento ad hoc per far riprendere il processo. Oggi, per dimostrare che Hamdan non era un militante di Al Qaeda, l'avvocato difensore chiede di potere interrogare nove testimoni. Tra questi ci sono tre fra i più noti dirigenti di Al Qaeda: Khalid Sheikh Mohammed, Ramzi bin al-Shib, Abu Faraj al-Libi. Il primo è considerato la mente dell'attentato dell'11 settembre. "Essendo militanti di rango di Al Qaeda potranno dirci se Hamdan faceva parte dell'organizzazione", dice Mizer. Il colonnello William Britt, avvocato dell'accusa, si oppone. È un uomo alto, calvo e con una spiccata somiglianza con Lex Luthor. Dice che i tre militanti di Al Qaeda fanno parte dell'elenco degli 'High Value Detainees', detenuti di alto valore, l'accesso ai quali non è mai stato consentito neanche ai membri del Comitato militare. Il giudice gli dà ragione e la richiesta viene respinta.

Ma ci sono altri nomi: per esempio quello di Abdul Rahim al-Sharqawi. Si tratta di uno yemenita noto come 'Riyadh il facilitatore' perché organizzava il viaggio verso l'Afghanistan dei giovani che volevano andare a combattere a fianco di Al Qaeda e dei talebani. Il giudice permette alla difesa di andare a parlare con il detenuto in carcere per sondare l'utilità dell'interrogatorio. Ma anche in questo caso ci sono ostacoli tecnici. L'avvocato difensore di al-Sharqawi è ovviamente negli Stati Uniti. Ci vorranno settimane, forse mesi per combinare un incontro. Harry Schneider, l'avvocato che guida la difesa, in una pausa del processo commenta: "Quanto sta accadendo mostra le difficoltà pratiche di svolgere queste udienze a Guantanamo. Solo la logistica comporta ostacoli quasi insormontabili".

Il processo procede con lentezza. Ogni 40 minuti il giudice sospende l'udienza per dare tregua all'interprete. Allora l'imputato viene trasferito in un bunker accanto alla sala, il pubblico abbandona il gelo dell'aria condizionata e va a scaldarsi con i trenta gradi all'ombra del cortile.

Quando cominciano gli interrogatori sembra di entrare in un processo indiziario ambientato in un teatro di guerra. L'accusa vuole dimostrare che quando fu arrestato, il 14 novembre 2001, Hamdan stava trasportando due missili terra-aria verso Kandahar. L'imputato sostiene che quel giorno era andato con la sua auto oltre il confine pachistano per portare al sicuro la moglie incinta e la figlia. Fu arrestato mentre tornava in città, inconsapevole che Kandahar fosse ormai assediata.

Il maggiore Hank Smith è il primo a salire sulla pedana alla destra del giudice. All'epoca dirigeva un gruppo di 15-20 soldati americani che guidavano un plotone di 800 alleati afgani. Sostiene che Hamdan fu arrestato mentre stava trasportando a Kandahar due missili terra-aria nel bagagliaio di un'auto color argento. Ma nella foto esibita come prova i due missili sono su un pick up bianco.

Più tardi, quando la difesa chiama a testimoniare il detenuto Said Boujaadia, nell'aula cala il silenzio. È la prima volta che un detenuto di Guantanamo sale sul banco dei testimoni. Boujaadia è il detenuto 'numero 150', un marocchino arrestato nelle stesse ore di Hamdan e nello stesso posto. Contro di lui non è mai stata avanzata alcuna accusa, e molti mesi fa un'istanza di scarcerazione era già stata firmata, ma poi tutto si è bloccato e nessuno sa perché. È un uomo magrissimo, veste una lunga tunica grigia e ha il volto coperto da una fitta barba nera. Si guarda intorno confuso, sorride a tutti ma fornisce risposte poco chiare. Interrogato alcuni anni fa, aveva detto che aveva visto i due missili sopra un pick up bianco guidato da due egiziani che erano stati uccisi. L'avvocato difensore gli chiede di ripetere la testimonianza di allora: Che cosa c'era su quel pick up? "Una cassetta di datteri", risponde lui, con un sorriso svanito. Alcuni degli osservatori presenti giudicano la sua testimonianza "drammatica", "spettacolare", "agghiacciante". Uno degli ufficiali consulenti della Commissione militare ci dice di dubitare che sia ancora sano di mente, dopo sei anni di isolamento totale. È la prima volta che Boujaadia comunica con qualcuno al di fuori del carcere: "E probabilmente durante il trasporto in aula è stato tenuto con i paraocchi e i paraorecchie per impedirgli di capire dove si trovasse".

È la volta di George Crouch, giovane agente speciale dell'Fbi, che interrogò a lungo Hamdan nel 2002: "Ci disse che Bin Laden non si aspettava più di 1.500 morti per effetto dell'attacco alle due torri. Quando seppe che i morti erano il doppio fu molto contento". Hamdan gli raccontò di avere giurato fedeltà alla Jihad nel 1996, quando aveva cercato di raggiungere il Tagikistan per arruolarsi come guerriero islamico. Ma non era riuscito ad arrivare a destinazione ed aveva ripiegato sull'Afghanistan. Qui era entrato in contatto con Bin Laden, che lo aveva assunto come autista per 300 dollari al mese, più cento per la casa. In un breve filmato inedito che risale al gennaio del 2000 si vedono Hamdan e Bin Laden affiancati che si fanno largo in mezzo a una folla in tripudio. Hamdan veste una tunica bianca, si guarda in giro sorridendo e non è armato. Non ci sono dubbi che avesse un rapporto quotidiano con Bin Laden. Ma è abbastanza per dimostrare la sua militanza in Al Qaeda e il suo ruolo negli attentati?

L'asso nella manica della difesa si chiama Brian Williams, uno studioso che ha vissuto in mezzo agli estremisti islamici per anni. Dopo due giorni di udienze ininterrotte, quando ormai è già notte, Williams si sottopone a un lungo interrogatorio nel quale reinterpreta la storia dell'invasione dell'Afghanistan, negando la versione sostenuta dall'amministrazione Bush. Williams sostiene che Al Qaeda era in realtà costituita da due organizzazioni: Al Qaeda Al Subha e Al Qaeda Ansars. La prima operava all'esterno dell'Afghanistan, era segreta e aveva finalità terroristiche. La seconda era una formazione militare che operava in Afghanistan sotto le insegne della Brigata 055: i suoi militanti esibivano un'uniforme e una bandiera riconoscibili ed erano integrati nelle truppe talebane. Williams va oltre: sostiene che i talebani erano un esercito regolare e che gli stranieri arruolatisi nelle loro file vanno considerati combattenti legali, persone che combattevano alla luce del sole per difendere l'Afghanistan dall'invasione delle truppe alleate.

Questa tesi della difesa si scontra in modo diretto con le posizioni sostenute dall'amministrazione Bush negli ultimi sei anni. Nelle sue appassionate conclusioni, pronunciate dopo 15 ore di udienza, l'avvocato difensore Joseph McMillan dice che tutt'al più Hamdan può essere considerato un soldato di Ansars: essendo estraneo ai piani terroristici, gli spetta lo status di prigioniero di guerra. Quando il giudice Allred si ritira, promettendo una decisione in poche settimane, è quasi mezzanotte. Se accetterà le tesi della difesa, e dichiarerà Hamdan 'combattente legale', il processo sarà sospeso. Ma difficilmente il giovane yemenita, e gli altri imputati che seguiranno la sua linea di difesa, saranno spostati negli Stati Uniti per un regolare processo. Almeno finché alla Casa Bianca siederà George W. Bush.

Paul Salem, direttore del Carnegie Middle East Center di Beirut, Libano si compiace del pasaaggio dagli strumenti militari a quelli diplomatici, da parte dell'amministrazione americana. Tra i segnali della svolta, il rapporto dell'intelligence  sul nucleare iraniano.
Peccato che la possibilità di una bomba degli ayatollah sia, anche secondo quel controverso rapporto, solo rimandata, e che intanto continui il sostegno di Teheran al terrorismo.
Risolvere i conflitti  internazionali con le trattative e non con la violenza è sicuramente la cosa migliore, ma nè la Repubblica islamica, nè gli altri Stati canaglia ne sembrano convinti.
La diplomazia, per ora, non vince.

Ecco il testo:

Quattro grandi aree di conflitto in Medio oriente - Iraq, Israele -Palestina, Libano e Iran - hanno registrato recentemente un'evoluzione positiva.

In Iraq, la violenza è diminuita sensibilmente rispetto ai picchi raggiunti l'anno scorso. Ciò si deve in parte alla 'ripresa' degli americani, ma anche alla rivolta delle tribù e dei capi sunniti contro i gruppi stranieri e iracheni di al-Qaeda e alla reazione di molti sciiti all'estremismo di alcuni delle loro fazioni quali l'Esercito del Mahdi. Arabia Saudita, Iran e Siria che hanno alimentato inizialmente l'estremismo hanno adottato in seguito politiche moderate riconoscendo che una guerra civile sfrenata in Iraq non sarebbe servita ai loro scopi, mentre avrebbero tratto invece più vantaggi da una presenza in questo paese una volta stabilizzato, che non collaborando alla sua distruzione.

Ma anche se nei prossimi anni l'Iraq continuerà ad essere scosso da ondate di violenza, è possibile che abbia ormai superato la fase più critica, allontanando la prospettiva di una guerra civile su larga scala e procedendo in modo lento e faticoso verso un compromesso interno e una graduale ricostruzione politica ed economica.

Sul fronte arabo-israeliano, la sospensione del processo di pace da sette anni in qua, è finalmente terminata ad Annapolis, negli Stati Uniti, con l'intensificazione dei negoziati fra Olmert e Abu Mazen e con l'impegno dell'amministrazione Bush a favorire una pace tra due Stati entro la fine del 2008. Al vertice hanno partecipato tutti i maggiori Stati arabi e la Russia si è offerta di organizzare un incontro a Mosca per arrivare a una pace fra Siria e Israele col patto di una restituzione delle Alture del Golan.

Anche in Libano, dove c'era il rischio di un'esplosione di violenze in occasione delle elezioni presidenziali, la situazione è evoluta verso il meglio quando entrambe le parti contrapposte hanno espresso il loro consenso alla candidatura di un moderato quale il generale Michel Suleiman, comandante in capo dell'esercito. Il nuovo presidente potrebbe spianare la via alla formazione di un nuovo governo, che porrebbe fine alle manifestazioni di protesta a Beirut e segnerebbe un ritorno alla normalità in questo piccolo paese, che riveste però un'importanza strategica.

Infine, per quanto riguarda l'Iran, i servizi segreti americani hanno annunciato che Teheran ha sospeso il suo programma nucleare militare nel 2003, non ha in corso attualmente alcuna attività per riattivarlo e anche se lo volesse, non sarebbe in grado di produrre una bomba atomica prima dell'inizio o della metà del prossimo decennio. Questa rivelazione scongiura la possibilità di un attacco americano all'Iran durante l'amministrazione Bush e attenua considerevolmente le tensioni fra i due paesi.

Questi importanti sviluppi derivano in parte da un cambiamento della politica americana oggi più orientata al negoziato che allo scontro, nella convinzione che la diplomazia possa essere uno strumento efficace di politica estera, dopo aver preso in considerazione soltanto le opzioni militari. Essi riflettono, inoltre, la preoccupazione di Bush per l'eredità che lascia e la necessità della sua amministrazione di stabilizzare queste aree di conflitto prima dell'avvento di un nuovo governo a Washington nel 2009. Come pure i cambiamenti delle politiche degli attori regionali in Iraq, Arabia Saudita, Siria e Iran, che stanno abbandonando la prospettiva di una guerra aperta e cercano un modo per garantire i propri interessi attraverso manovre politiche. La rinnovata attenzione della Russia per il Medio Oriente ha giovato anch'essa poiché ha sollecitato un atteggiamento più moderato da parte della Siria e ha contribuito a mettere in moto vari processi politici.

Dopo vari anni di guerra e di conflitti successivi agli eventi dell'11 settembre e all'invasione dell'Iraq, il 2008 potrebbe segnare una svolta verso l'intensificazione degli sforzi diplomatici e la ricerca di compromessi in Medio Oriente. Speriamo che i principali attori regionali e internazionali possano far leva sui negoziati come strumenti altrettanto efficaci delle armi.

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