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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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L'Espresso Rassegna Stampa
19.10.2007 Se Ben Jelloun potesse decidere ? La sua politica sarebbe l'odio per Israele
e non porterebbe alla pace più di quella di un qualsiasi dittatore arabo

Testata: L'Espresso
Data: 19 ottobre 2007
Pagina: 19
Autore: Tahar Ben Jelloun
Titolo: «Abbattiamo quel muro»
Sull'ESPRESSO del 19 ottobre 2007 Tahar Ben Jelloun racconta uun suo incontro con Amos Oz, nel quale i due scrittori hanno discusso del conflitto arabo-israeliano.

Se tutto  fosse nelle mani degli scrittori scrittori, sostiene Jelloun "da tempo in Palestina e in Israele regnerebbe la pace".

Come minimo, dipenderebbe dagli scrittori. Se dalla parte araba ci fosse Ben Jelloun, convinto che tutte le responsabilità del conflitto siano d addebitare a Israele, non cambierebbe davvero molto.

Ben Jelloun indica quello che a suo avviso sarebbe necessario fare per ottenere la pace: "rispetto per la storia, per le aspirazioni di un popolo senza patria dal 1948",  "'Siate coraggiosi, abbattete il muro!'. Perché quel muro, fisico, ma anche psicologico, è una vergogna che non ha fatto altro che esacerbare il conflitto.".

E il rispetto per la sicurezza di Israele ? Il riconoscimento del suo diritto all'esistenza ? E la fine del terrorismo ?

Ben Jelloun non vi fa alcun cenno. Ma trova spazio per le menzogne
("ho ricordato come Sharon, mirando a scatenare una guerra civile tra i palestinesi, abbia favorito l'emergere di Hamas": Sharon ha soltanto consentito le attività sociali e religiose  dei fratelli musulmani, prima che nascesse, durante la prima intifada, il gruppo politico-terroristico Hamas ) e le manipolazioni dei fatti (Mentre dialoghiamo, un gruppo di soldati israeliani è penetrato nella Striscia di Gaza e ha ucciso due palestinesi sospettati di essere dei terroristi: Israele entra a Gaza per fermare i lanci di razzi kassam, i "palestinesi" che muoiono per lo più cadono in scontri a fuoco e sono notoriamente membri di organizzazioni terroristiche).

Ecco il testo:

Di che cosa parlano due scrittori quando si incontrano? Di tutto tranne che di letteratura, a meno che, spinti dalla curiosità, non arrivino a porre una domanda del tipo: "A che cosa stai lavorando in questo momento?". In genere, l'interlocutore risponderà con una frase banale: "Sto facendo delle ricerche per un romanzo". Tuttavia, quando i due scrittori sono uno un israeliano e l'altro un arabo, sarà il conflitto arabo-israeliano a imporsi tra le prime parole che scambieranno.

Il 24 e il 25 settembre scorso, ho avuto l'occasione di incontrare Amos Oz, a Cosenza, dove abbiamo ricevuto congiuntamente il Premio Fondazione Carical Grinzane Cavour dedicato al dialogo tra le culture mediterranee. Un premio conferito nel segno della speranza e del dialogo per la pace.

L'evento è stato grandioso e commovente. Sul palcoscenico, davanti a un folto pubblico attento e caloroso, Amos ed io ci siamo scambiati i nostri punti di vista. Di che cosa abbiamo parlato? Dello scrivere. Come ha detto Amos, lo scrittore è un osservatore, una persona che indaga nella vita quotidiana, che si guarda attorno e scrive.

Sono totalmente d'accordo con lui. Avendo letto ciò che egli ha scritto recentemente sul conflitto in corso nel suo testo 'Aiutateci a divorziare', so che la preoccupazione fondamentale di questo scrittore, così come della maggior parte dei suoi colleghi quali David Grossman o Abraham Yehoshua, è come raggiungere la pace nella giustizia e nella dignità, come sconfiggere i fanatismi in entrambi gli schieramenti.

Ci siamo trovati d'accordo sul fatto che entrambi i popoli sono sfiancati dalla guerra, che intere generazioni di palestinesi e di israeliani sono nati in questo contesto brutale, orribile, e che non conoscono della vita altro se non la violenza e la guerra.

Il nostro dialogo è stato naturale. Abbiamo parlato delle difficoltà di entrambe le parti senza complessi. Amos ha evocato il fanatismo di certi israeliani. Io ho parlato di Hamas che si avvale dell'Islam per portare avanti la propria lotta lacerando dall'interno l'Olp e ho ricordato come Sharon, mirando a scatenare una guerra civile tra i palestinesi, abbia favorito l'emergere di Hamas. Ci siamo trovati d'accordo sul rifiuto di ingerenze, siano esse statunitensi o iraniane. Abbiamo sollecitato con un'unica voce la creazione di due Stati indipendenti. Poi Amos ha aggiunto: "Sono ottimista perché i due responsabili politici si parlano quotidianamente".

È vero che non esistono più tabù tra le due entità. L'una e l'altra si vedono, si parlano, litigano, si riconciliano e sono alla ricerca di soluzioni. Resta il fatto che uno dei partner è forte e l'altro è debole. In genere, sta a quello forte tendere la mano a quello debole. Sta a Israele rendersi conto che la pace si costruisce in un processo lungo e pericoloso, sotto la minaccia di coloro che per interessi politici, economici e persino religiosi sabotano con tutti i mezzi il raggiungimento della pace, una pace che non si conseguirà con la forza delle armi e con l'occupazione coloniale.

Ho risposto ad Amos che il punto non è che i palestinesi e gli israeliani si amino. L'amore è troppo complesso. Meglio sarebbe essere modesti e chiedere semplicemente rispetto: rispetto per la storia, per le aspirazioni di un popolo senza patria dal 1948, rispetto per una coesistenza che non sarà semplice, ma che è assolutamente necessaria. Altrimenti? Altrimenti si cascherà nello scenario peggiore, quello formulato dai cinici, che vuole che questa regione sia condannata alla guerra eterna.

Se non è possibile vivere insieme, viviamo almeno separati in attesa che si plachi e sia bonificata questa situazione di vecchi rancori, odi, diffidenza e paure. L'ottimismo è essere modesti. Non ci sarà un miracolo, non ci sarà una pace immediata, totale e feconda. Ma non occorrerebbe forse cominciare da ciò che è possibile? Lo slogan del maggio '68 francese che diceva 'Siate ragionevoli, chiedete l'impossibile' non è valido in questo caso, oppure andrebbe riformulato in 'Siate coraggiosi, abbattete il muro!'. Perché quel muro, fisico, ma anche psicologico, è una vergogna che non ha fatto altro che esacerbare il conflitto.

Se tutto ciò fosse solo nelle mani di noi scrittori, da tempo in Palestina e in Israele regnerebbe la pace. Gli scrittori setacciano la società, sono testimoni vigili ed esigenti della propria epoca. La creazione, l'immaginario, l'inventiva non sono dalla parte della distruzione, dell'umiliazione dei popoli. Platone sognava una Repubblica alla cui guida ci fossero i filosofi, i poeti. Oggi, riguardo ai potenti che governano il mondo, possiamo sognare non che cedano il posto agli scrittori, ma almeno che li leggano ed eventualmente li ascoltino quando parlano.

Mentre dialoghiamo, un gruppo di soldati israeliani è penetrato nella Striscia di Gaza e ha ucciso due palestinesi sospettati di essere dei terroristi. Il linguaggio degli scrittori non ha niente a che vedere con quello dei militari. Purtroppo.

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