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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Informazione Corretta Rassegna Stampa
19.10.2020 IC7 - Il commento di Diego Gabutti: La trappola dell'antisemitismo
Dal 12 al 17 ottobre 2020

Testata: Informazione Corretta
Data: 19 ottobre 2020
Pagina: 1
Autore: Diego Gabutti
Titolo: «IC7 - Il commento di Diego Gabutti: La trappola dell'antisemitismo»
IC7 - Il commento di Diego Gabutti
Dal 12 al 17 ottobre 2020

La trappola dell'antisemitismo

Quel normale antisemitismo | Rep

Non è più, se mai lo è stato, un pregiudizio religioso, e non è neanche più una Weltanschauung pseudoscientifica, come sotto Hitler e le SS: l’antisemitismo è un protocollo. Un protocollo che viene applicato indifferentemente a ogni sorta di nemico, e che scatta come la molla d’una trappola per topi quando il confronto assume una dimensione tribale, metafisica. Dalla rivoluzione d’ottobre in avanti non c’è più stato bisogno d’essere ebrei per finire catalogati tra «gli insetti da schiacciare», come fino a quel momento capitava soltanto ai «giudei».

Sotto Pol Pot, quando «la spinta propulsiva della rivoluzione russa» (come Enrico Berlinguer caramellava la storia) non s’era ancora completamente esaurita, bastava saper leggere e scrivere per guadagnarsi un colpo alla nuca in quanto «sfruttatori», «nemici del popolo» e «usurai». Sotto il Presidente Mao, i «revisionisti» (insieme a tutti i loro congiunti) andavano incontro alle stesse sventure che sono sempre toccate ai «giudei» nei villaggi russi e polacchi. Ai generali argentini bastava che un cittadino qualsiasi avesse votato (prima del golpe) il partito sbagliato o letto un «giornale ostile» per scaraventarlo giù da un elicottero senza paracadute. Brigatisti rossi e neri, nell’Italia degli anni settanta, consideravano sacrificabile come un tacchino a Natale chiunque non abbracciasse la loro causa, quale che fosse (più tardi, deposte le armi, quel che rimaneva della loro claque avrebbe rubricato alla voce «antropologicamente inferiori» gli elettori di destra, trasformati con un abracadabra ideologico in «sporchi giudei» della democrazia borghese). Negli USA di quegli stessi anni agiva un gruppo di terroristi di sinistra detto «Weather Underground»: dopo la strage di Bel Air, quando Sharon Tate (moglie incinta del regista Roman Polansky) e i suoi ospiti furono uccisi a forbiciate da Charles Manson e seguaci, i militanti del gruppo, detti «Weathermen», meteorologi, presero a salutarsi tra loro agitando indice e medio nell’aria: il «saluto delle forbici», evoluzione nazimaoista del classico pugno chiuso comunista. Un moderno jihadista, infine, non ha più bisogno di scuse: ai suoi occhi, chiunque non si genufletta due o tre volte al giorno in direzione della Mecca merita d’essere sgozzato, come un capretto per il kebab, «ebreo» o «crociato» o muslim tiepido che sia.

Antisemitismo. Dichiarazione del Consiglio Nazionale delle Chiese USA

Questi orrori, che hanno fatto del Novecento il secolo dei disumanesimi sono tutti da ricondurre, dal primo all’ultimo, a una sola fonte primaria: l’antisemitismo, che ha fatto scuola, attraverso i secoli, a tutte le psicopatologie politiche, filosofiche, «razziali» e «biologiche» ideate e messe in pratica dalle comunità umane. In questo senso, poiché funziona da modello chiavi in mano d’ogni pregiudizio e fanatismo presente e passato, come pure di tutte le possibili persecuzioni (ma anche soltanto di tutte le possibili calunnie, diffamazioni, imposture e fake news) che incessantemente ne derivano, l’antisemitismo si è trasformato in protocollo. Basta applicarlo per ottenere il risultato che ci si prefigge: la fanatizzazione dei conflitti, la disumanizzazione del nemico. Lenin non era un antisemita, ma fu dagli antisemiti, e segnatamente dai Protocolli dei Savi Anziani di Sion, un classico della disinformazia zarista, che imparò a falsificare la storia, a imputare colpe collettive a intere classi sociali e a interi popoli, a inventare sabotaggi, congiure e trame spionistiche inesistenti, come pure a esprimersi, in tema di «borghesi» e di «socialtraditori», nella neolingua cannibale dei disumanizzatori, degl’inquisitori, degli scannagiudei. Stalin, dopo aver «giudeizzato» l’intera Unione sovietica, trasformando in comunità da isolare e all’occorrenza da sterminare ogni gruppo sociale che non baciasse la pantofola dei bolscevichi e dei cekisti onnipotenti, pensò bene d’estendere il protocollo della giudeizzazione anche ai «giudei» per nascita e fede religiosa. Perché risparmiare proprio loro? E infatti non furono risparmiati.

Oggi? Be’, oggi, ottant’anni dopo la soluzione finale, settantacinque anni dopo la liberazione dei sopravvissuti dai lager, trent’anni dopo la fine del comunismo, viviamo in una sorta di Auschwitz a basso profilo (almeno in Occidente, e almeno per ora) ma diffusa e avvolgente. Ovunque il conflitto civile e politico degenera in scontro rabbioso. Ci sono ovunque demagoghi deliranti e assatanati che millantano identità e distribuiscono patenti di subumanità come colpi di karate e manganellate tra capo e collo. Gli articoli di fondo e d’informazione sulla campagna elettorale americana (Trump boia, Biden un santo) che si leggono sulla stampa italiana e internazionale (idem i commenti che s’ascoltano in tv mentre il giorno delle elezioni s’avvicina) sarebbero puramente e semplicemente inimmaginabili senza l’oscura tradizione della stampa antisemita dalle quali le gazzette militanti hanno appreso l’arte loro. (Sarebbero inconcepibili, d’altra parte, anche i balbettii di Trump, invulnerabile ai virus ma non alle domande scomode, quando gli chiedono a giusto titolo lumi circa i suoi rapporti con la supremazia bianca e con QAnon, una banda multinazionale di complottisti d’ultradestra, suoi elettori e supporter entusiasti, ma a dir poco psicopatici). C’è l’esperienza plurisecolare dell’antisemitismo, il suo inconfondibile segno di Zorro, anche dietro il populismo pentastellare: la «casta» è l’ultimo avatar della plutodemocrazia, o meglio del «complotto demo-pluto-giudaico-massonico» evocato, tra le due guerre, dai tiranni fascisti e da quelli stalinisti (che evolverà, col tempo e le nespole, nel SIM, lo stato imperialista delle multinazionali fantasticato dalle Brigate rosse, su su fino ai libelli anticasta di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella). Si sente odore di zolfo antisemita nei quartieri degradati dei social network dove non c’è questione da quattro soldi che non cresca in un lampo a guerra mortale tra tribù nemiche. Negli stadi, dove ventidue atleti in mutande corrono dietro un pallone, campeggiano cartelli e striscioni che richiamano parodisticamente gli slogan antisemiti. Per non parlare dell’antisemitismo propriamente detto: la guerra al sionismo attraverso l’aggressione a chi porta il kippah, il tifo per le bande armate palestiniste, per gli ayatollah, per i missili di Saddam Hussein che durante la guerra del Golfo piovevano su Israele, e poi il negazionismo e/o la giustificazione delle persecuzioni antisemite, Shoah compresa (se li perseguitano e ogni tanto li massacrano, be’, di qualcosa devono pur essere colpevoli). Ci siamo dentro tutti.

Sono tempi difficili. Non c’è cittadino onesto e liberale d’una qualsiasi nazione occidentale che non rischi di diventare bersaglio d’una campagna di criminalizzazione (come si dice, con espressione debole) modellata sul Mein Kampf. Agli occhi dei beppegrilli, dei nazisti e dei comunisti rinati, siamo tutti riconducibili a qualche gruppo sociale da liquidare in quanto tale: bottegai evasori, politici ladri, islamofobi, beffeggiatori delle teorie di genere, atei, apostati, «amici (o nemici, è lo stesso) dei negher», maschilisti, elettori senza vergogna di partiti politicamente scorretti, lettori di libri all’indice, liberi pensatori.

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Diego Gabutti



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