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Informazione Corretta Rassegna Stampa
08.05.2019 Come Israele ha accolto gli ebrei dei Paesi arabi - storie di spie
Analisi di Emily Burack

Testata: Informazione Corretta
Data: 08 maggio 2019
Pagina: 1
Autore:
Titolo: «Come Israele ha accolto gli ebrei dei Paesi arabi - storie di spie»

Come Israele ha accolto gli ebrei dei Paesi arabi - storie di spie
Analisi di Emily Burack

https://fr.timesofisrael.com/comment-israel-a-accueilli-les-juifs-des-terres-arabes-histoires-despions/

(Traduzione di Yehudit Weisz)

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All'inizio del suo nuovo libro, Matti Friedman scrive che "il tempo trascorso con vecchie spie non viene mai sprecato". Quando andò a conoscere Isaac Shoshan nella sua casa di periferia a Tel Aviv, Friedman non sapeva cosa aspettarsi - ma era certo che da quella intervista sarebbe venuto fuori qualcosa di buono. "Era un ometto molto anziano che mi arrivava alle spalle", ha detto Friedman all’agenzia di stampa JTA. "Mi ha raccontato una storia del 1948 che non avevo mai sentito prima e ho dovuto intervistarlo più volte prima di capire che cosa mi stesse dicendo. In seguito sono andato a cercare altre fonti. Ho consultato dei documenti che erano stati desecretati e ho avuto accesso alle testimonianze orali, registrate da altri operatori della sezione araba ". Il risultato? E’ un libro intitolato “Spies of No Country: Secret Lives at the Birth of Israel”, ( “Spie di un non Stato: vite segrete alla nascita di Israele”) che racconta la storia intrigante delle primissime spie israeliane - giovani ebrei provenienti da Paesi arabi che erano riusciti ad attraversare le frontiere senza farsi mai scoprire. Facevano parte della "sezione araba" del Palmach, la forza di difesa che esisteva prima dello Stato di Israele e che in seguito divenne l’IDF. “Spies of No Country” racconta la storia di Isaac e di altri tre uomini: Gamliel Cohen, Havakuk Cohen e Yakuba Cohen.

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Un campo di profughi ebrei dai Paesi arabi in Israele

Non c’era alcun legame tra loro - Cohen è un cognome assai frequente - eppure tutti e tre condivideranno l'esperienza degli ebrei mizrahi (orientali) che erano arrivati in un Paese in cui la maggior parte degli ebrei proveniva dall'Europa dell’Est. Come spiega Friedman, “nel movimento sionista dell'epoca - stiamo parlando del periodo precedente al 1948 - quasi tutti erano europei, o dell'Europa dell'Est. Nove ebrei su 10 erano di origine europea. La comunità ebraica che proveniva dai territori musulmani era trascurabile, ed i suoi membri non assomigliavano agli ebrei. Parlavano arabo e praticavano una diversa forma di giudaismo. Il movimento sionista non sapeva che cosa fare di loro. A volte erano considerati interessanti o esotici, ma il più delle volte venivano disprezzati ed esclusi”. Nel mondo emergente dei servizi segreti israeliani e in un Paese in cui i mizrahim ancora oggi si lamentano per la discriminazione, gli eroi del libro per la prima volta avevano visto rispettata la loro identità di ebrei arabi. "E’ stata la loro identità araba, quel che specificamente rendeva questi uomini degli emarginati, ad aver consentito loro di entrare nel Sancta Sanctorum, il Palmach", spiega Friedman. Matti Friedman, giornalista e collaboratore del New York Times , è nato a Toronto e ora vive a Gerusalemme. Tra il 2006 e il 2011 è stato reporter ed editore dell’Associated Press nella Città Santa. Il suo primo libro, “Il codice di Aleppo”, raccontava la storia di un antico manoscritto della Bibbia che era finito in una caverna di Aleppo, in Siria, e il suo secondo libro, “Fiori di zucca”, era dedicato alla sua esperienza militare in un remoto avamposto, situato nel Sud del Libano negli anni '90. “Spies of No Country”è la cronaca della vita degli agenti sotto copertura in varie comunità arabe durante il periodo che precedette la guerra d'indipendenza di Israele, nel 1948.

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La copertina

Dopo la fondazione di Israele, le spie verranno delegate a Beirut, in Libano, dove si faranno passare per profughi palestinesi. Come scrive Friedman, “a posteriori, si capisce che questi uomini avevano trovato la loro strada nell’unica attività del movimento sionista in cui la loro identità sarebbe stata preziosa.” La doppia identità, afferma con convinzione, è sempre stata parte integrante della vita ebraica. Ma questo è particolarmente vero per gli ebrei arabi. “Era la loro arma segreta”, dice Friedman nell'intervista. “Coloro che avevano fondato la sezione araba erano dei britannici e avevano compreso che la finzione etnica era impossibile. Un gran numero di ufficiali britannici aveva agito sotto copertura in Grecia durante la guerra.

Se anche avevano potuto ingannare i tedeschi, non erano mai riusciti a ingannare i greci. Era un’impresa davvero complicata! Ma gli ebrei di Palestina offrivano questa opportunità davvero unica. Tra gli ebrei, alcuni potevano fingere di essere cittadini di qualsiasi nazionalità: polacchi, tedeschi, arabi - e questo perché avevano effettivamente queste due identità. Che fece di loro delle ottime spie e spiega anche i successi dell’intelligence israeliana durante i primi anni dello Stato. Tuttavia si sono rifiutati di definirsi spie o agenti, spiega Friedman. "Avevano invece scelto una parola particolare che esiste in ebraico e in arabo ma che non ha equivalenti nelle lingue europee. Questa parola, mistaarvim in ebraico o mustaaribin in arabo, può essere tradotto come "uno che si assimila ad un arabo", continua. “Mistaarvim trae la sua origine da qualcosa di più profondo. È una parola realmente radicata nella vita degli ebrei dei Paesi arabi. Ad Aleppo, ad esempio, ci sono due comunità ebraiche. Una è quella dei sefarditi,gli sfaradim: questi sono discendenti degli ebrei espulsi dalla Spagna nel 1492. La seconda ha invece sempre vissuto ad Aleppo, prima dell'Islam, prima ancora del cristianesimo. Ha adottato l’arabo e la cultura araba: sono i mistaarvim”. Il termine è ancora usato oggi in Israele (Friedman si riferisce a “Fauda”, la serie israeliana di successo trasmessa su Netflix, dove i commando sotto copertura arabofoni sono il perfetto esempio di mistaarvim contemporanei). Veniamo a conoscere i quattro uomini seguendo le loro storie - dalla loro formazione alle loro imprese sotto copertura e fino al loro ritorno in Israele. Gamliel, originario di Damasco, era stato il primo agente inviato all'estero e si presentava come il proprietario di un negozio a Beirut. Yakuba, il solo dei quattro a essere nato a Gerusalemme, aveva “un temperamento focoso ed era allergico a qualsiasi disciplina”. Havakuk, dello Yemen, è morto all’età di 24 anni: Friedman gli ha dedicato questo libro. Poi c'è Isaac - colui che alla fine diventerà il più familiare per il lettore. C’è la sua complessa relazione con Georgette che vive a Beirut. C’è la sua preparazione e poi il suo ritorno in Israele nel 1950. E c’è un passaggio che colpisce soprattutto - quello in cui Isaac ricorda il rituale arabo delle abluzioni, o wudu . “Tutto ciò era così profondamente radicato nella memoria di Isaac che, settanta anni dopo, fu in grado di mostrarmi il wudu nella sua cucina - prima le mani, e poi la bocca, le narici, ed il viso - per poi iniziare la sua preghiera come se quella mattina fosse andato in moschea”, scrive Friedman. Friedman sottolinea che questi uomini non avevano frequentato scuole di spionaggio ma avevano ricevuto un addestramento molto rudimentale - il Mossad non esisteva, men che meno lo Stato, e la sezione araba era perciò “molto adatta”. Friedman racconta come questi uomini abbiano imparato le preghiere musulmane, le espressioni tipiche locali e a come comportarsi nei suk arabi delle città a cultura mista, come Gerusalemme e Haifa. “È difficile immaginarsi oggi, nel 2019, come tutto ciò sia stato improvvisato e caotico. Nessuno sapeva che lo Stato sarebbe stato fondato nel 1948. Una cosa che amo di questa storia”, continua Friedman, “ è la totale mancanza di preparazione. Dovevano sempre improvvisare!” E questa improvvisazione avrà il suo rovescio: la metà degli agenti della sezione araba furono infatti arrestati e giustiziati. Friedman ritiene che Spies of No Country sia una storia anti-Mossad. Perché? “Nel mondo della mitologia dello spionaggio, c'è sempre l'idea di una grande operazione che cambia il corso degli eventi”, dice. “Nel mondo reale, non è detto che le spie capiscano che cosa sta succedendo. Sono personalità imperfette che vivono nell’ombra e il loro ruolo negli eventi è molto ambiguo. Non sono quegli agenti che effettuano attentati che possono cambiare completamente il corso di una guerra” dice. La sezione araba era composta da “un gran numero di giovani che non erano consapevoli di che cosa stavano facendo”. Secondo Friedman, è una storia di spionaggio più autentica di quanto possano pensare delle menti nutrite di cultura pop . Il che non significa che Friedman non ami i classici del genere: il suo libro preferito è La talpa di John Le Carré – un “romanzo di spionaggio incredibile con una trama complicata e perfettamente assemblata”. Friedman spera che, nel complesso, i lettori saranno in grado di farsi un'idea fondamentale di Spies of No Country : quella che per capire Israele, è necessario considerarlo un Paese del Medio Oriente. “Per capire la sua formazione, si arriva ancora a Israele, con storie molto europee” - come quelle di Theodor Herzl, dei kibbutzim o della Shoah – “ma queste storie non spiegano Israele del 2019. Non si va molto lontano con queste vecchie storie, perché metà degli ebrei provengono dal mondo musulmano. Se vogliamo capire Israele, dobbiamo prendere le distanze dalle storie che arrivano dall'Europa”, conclude l'autore.

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Emily Burack


takinut3@gmail.com

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