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Informazione Corretta Rassegna Stampa
05.03.2018 IC7 - Il commento di Daniele Scalise
Dal 25 febbraio al 3 marzo 2018

Testata: Informazione Corretta
Data: 05 marzo 2018
Pagina: 1
Autore: Daniele Scalise
Titolo: «IC7 - Il commento di Daniele Scalise»

IC7 - Il commento di Daniele Scalise
Dal 25 febbraio al 3 marzo 2018

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"Dio benedica Hitler"

Premessa: questo non è un commento, come mi è stato chiesto dagli amici di Informazione Corretta. Non è un commento perché quel che mi premeva di più era dar conto di un incontro che ho avuto con un giovane israeliano che vive in Italia, ha trascorso gli ultimi tre anni in Europa e ora se ne sta tornando a casa con uno idee e spirito ben differenti da quelli che aveva quand’era partito. Quando gli ho chiesto se potevo registrare la nostra conversazione mi ha gelato: “Non se ne parla nemmeno”. Niente, non ne ha voluto sapere. “Sono spaventato ma ancora di più disgustato da tutto ciò che ho visto e vissuto. Mi preparo a tornare in Israele e non voglio lasciare dietro di me nessuna traccia”, mi ha spiegato accompagnandosi con una smorfia spazientita. Gli ho chiesto se almeno potevo usare il suo primo nome. “Inventatene uno. Anzi, te lo invento io: chiamami Moshè, che è poi un nome che mi è sempre piaciuto per la sua lunga storia e la sua sinteticità letterale”.

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Alle soglie della trentina, nato in un moshav dell’Alta Galilea, Moshè ha occhialini sostenuti da una montatura pressoché invisibile. Piccolo di statura dagli occhi traspare un’asprezza che non dovrebbe esserci. Gli chiedo se s’è svegliato male. “Mi sono svegliato benissimo. Accanto alla mia ragazza”. Da dove viene allora tanta rabbia? “E me lo chiedi?”. Certo, te lo chiedo. Toglie gli occhiali, li lascia riposare sul tavolino del bar dove siamo seduti in attesa che arrivi la sua ragazza. “Ero partito da Israele con la voglia di scoprire l’Europa. Dopo il militare, dopo il consueto viaggio in Oriente, dopo la laurea in economia, nel mio Paese mi pareva di soffocare. Cercavo l’avventura senza immaginare nemmeno lontanamente che si sarebbe manifestata con queste caratteristiche”. Penso che una delle bellezze dell’essere giovani sia davvero questa, l’avidità per le peripezie e la mitizzazione di posti di cui si è tanto sentito parlare e che si vuole conoscere costi quel che costi.

“All’inizio mi pareva che tutto luccicasse di energia. Giravo ubriaco e insaziabile. Tutti parlano della sindrome di Gerusalemme ma io ho provato la sindrome Parigi, la sindrome di Berlino, la sindrome di Roma. I miei genitori sono nati in Israele ma i miei nonni erano di Berlino da cui sono riusciti a fuggire appena i nazisti sono arrivati al potere. Nonostante tutto, a distanza di anni, parlavano ancora di quella città con una nostalgia struggente e mio nonno, sia benedetta la sua memoria, non riusciva mai a finire il racconto perché gli si strozzava la voce in gola. Toccava allora alla nonna consolarlo carezzandogli lentamente la mano”. Anche le pupille scure di Moshè mi sembrano improvvisamente accendersi e luccicare ma forse la colpa è dell’insolito freddo che ghiaccia Roma. “A Berlino ho cercato gli indirizzi dove avevano abitato ma ho trovato un quartiere elegante senza alcuna traccia del passato. Anche l’eco delle loro voci era fuggito”. Poi che hai fatto? “Ho girato molto, più che ho potuto. Alla fine mi sono trasferito in Francia perché la famiglia originaria di mia madre è da lì che viene. Ho passato qualche mese a Parigi arrangiandomi in mille modi. Mi sarebbe piaciuto occuparmi di finanza. Il lavoro non l’ho trovato ma in compenso ho conosciuto la mia fidanzata. E’ una ebrea. Se non ritarda troppo te la presento”. Interroga il cellulare. Controlla i messaggi. Scrolla la testa. “Un giorno tornavo a casa in metrò, dopo essere stato al Bar Mitzva del figlio di alcuni conoscenti. Due ragazzotti mi vengono vicino e uno di loro mi dice: ‘O ti togli quel pezzo di stoffa dalla testa o ti togliamo la testa’. All’inizio non capivo a cosa si riferisse. Solo quando mi ha fatto un segno col dito indicando la cima della testa mi sono accorto che indossavo ancora la kippà. Vedi, io non sono religioso in senso stretto e in sinagoga ci andrò al massimo due, tre volte l’anno, giusto per le feste grandi. Ho fissato quel ragazzo. Poi il suo amico. Avevano un’aria sicura, come di chi compie il proprio dovere. Chessò? Due poliziotti che ti rimproverano perché hai messo i piedi sul sedile. Gli altri passeggeri hanno fatto finta di niente. Ho guardato anche loro, uno per uno. Voltavano lo sguardo, si ispezionavano le mani, smanettavano i cellulari. Mi pareva tutto irreale”.

Cosa hai fatto? “Ho tolto la kippà e abbassato lo sguardo”. Tace. “Non me lo perdonerò mai”. Non hai nulla di cui perdonarti. “Puoi dire quel che vuoi, ma sono stato un vile”. Riprende la tazzina del caffè che finge di finire anche se non c’è niente da finire. “I due se ne sono andati. Chi mi stava vicino ha continuato a sentire musica dagli auricolari, a leggere il giornale, a fissare il buio delle gallerie. Più dei due teppisti mi ha colpito l’indifferenza generale. Nessuno che si sia alzato a dire ma-che-cazzo-fate? Nessuno che abbia mostrato un minimo di simpatia, di solidarietà. Ho detto alla mia ragazza che me ne sarei andato, che sarei venuto in Italia. Se voleva, poteva seguirmi”. Mi pare di capire che l’abbia fatto. “L’ha fatto, anche se con riluttanza. Diceva che me l’ero presa per niente, che la gente è fatta così, che non bisogna far capire che sei ebreo perché altrimenti le reazioni rischiano di diventare pericolose. Non riuscivo a crederci. Non-bisogna-far-capire-che-sei ebreo??? Ma dici sul serio?, le chiedevo e mi veniva da piangere. Ho impiegato settimane, anzi mesi per farle capire qual era il punto”. Alla fine, però, ha capito. “Alla fine ha capito e mi ha raggiunto a Roma”. Come hai trovato gli italiani? “Grazie all’aiuto dei miei genitori, ho cominciato a frequentare un corso di specializzazione in un’università privata frequentata dai figli della buona borghesia. Uno mi ha chiesto se la mia lingua era l’israeliano. Nemmeno sanno che l’israeliano non è una lingua. Che noi parliamo l’ebraico. Un altro ha cominciato a inveire contro Israele dicendo che noi facciamo ai palestinesi quello che i nazisti hanno fatto a noi. Non credevo alle mie orecchie. Bada bene che sono di sinistra. Non fare quella faccia! Sì, sono di sinistra, ti piaccia o no. Considero Netanyhau un pagliaccio e non vedo l’ora che si tolga dai piedi. Resta il fatto che è schifoso paragonarci ai nazisti. Ho cominciato a fare domande ad altri israeliani che vivono qui da tempo e ad ebrei italiani. Mi hanno raccontato che le mezuzot è meglio fissarle nello stipite interno della porta di casa, che se hai un cognome ebraico riconoscibile molti evitano di scriverlo sul citofono, che mai e poi mai andrebbero in giro con la kippà in testa, che in ufficio o in palestra evitano il discorso, insomma non dicono di essere ebrei e se si parla di Israele sorvolano… Mi sono chiesto se è davvero questo il punto a cui siete arrivati. In ogni caso non fa per me. Ho lasciato il corso e ho deciso di tornarmene a casa. Quest’Europa mi spaventa e dovrebbe spaventare anche voi. Forse esagero, forse è perché non sono abituato a tutto questo. Ma ti dico di più: non ho nessuna intenzione di abituarmici. E non vorrei mai che i miei figli crescano in un ambiente così appestato. No, mi spiace. Roma sarà pure magnifica ma io me ne torno a casa dove il governo attuale farà pure schifo ma di sicuro non devo nascondermi. Ho sempre odiato la retorica nazionalista, lo sventolio delle bandiere, ma non vedo l’ora di tornare e parlare di nuovo la mia lingua”. L’israeliano, giusto? Ride. Per la prima volta dopo più di un’ora di conversazione ride. Alle sue spalle è intanto arrivata la sua ragazza, una giovane francese bella secondo il più classico e piacevole degli stereotipi. Le domando se è contenta di seguire Moshè in Israele. Allarga gli occhi, sta per dire qualcosa. Ci ripensa. Riflette. Alla fine confessa: “Sì, sono contenta. Non so quel che trovo ma so quel che lascio. Anche se ho faticato ad ammetterlo adesso so che Moshè ha ragione. Mi spiace perché questo significa il mondo in cui sono cresciuta e in cui ho sempre creduto è stato sconfitto o è destinato ad esserlo. Sono spiace per chi resta. Oh, sì. Sono mi spiace molto. Per i miei genitori, per i miei fratelli, per i miei amici”. Moshè e la sua ragazza si alzano e con passo leggero e incauto se ne vanno sotto la pioggia fitta e irritante. Mi vengono in mente le parole di una vecchia canzone che parla dei ragazzi e delle ragazze “de mon âge se promènent dans la rue deux par deux” e “s'en vont amoureux sans peur du lendemain”. Con una differenza rispetto ciò che cantava Françoise Hardy in quell’epoca remota: del domani questi giovani ebrei hanno paura. E hanno tutte le ragioni per averla.


Daniele Scalise


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