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Informazione Corretta Rassegna Stampa
09.10.2014 Guerra di Gaza: sul campo Israele ha vinto
Analisi di Omri Ceren

Testata: Informazione Corretta
Data: 09 ottobre 2014
Pagina: 1
Autore: Omri Ceren
Titolo: «Sì, a Gaza ha vinto Israele»

Sì, a Gaza ha vinto Israele
di Omri Ceren

Articolo pubblicato originalmente sul mensile americano "Commentary"

(Traduzione di Valentina Viglione)


Omri Ceren


Soldati israeliani vicino alla Striscia di Gaza

La storia della guerra combattuta quest’estate a Gaza tra Israele e Hamas non è complicata. Nel mese di giugno uomini di Hamas hanno messo in atto piani studiati da tempo per intensificare le operazioni terroristiche in Cisgiordania e gli attacchi militari da Gaza. Israele ha risposto con le operazioni Brother’s Keeper e Protective Edge, volte rispettivamente a colpire le infrastrutture terroristiche di Hamas nella Cisgiordania e quelle militari a Gaza.
Entro la metà di agosto, Gerusalemme ha annunciato che l’esercito israeliano aveva raggiunto gli obiettivi strategici di entrambe le operazioni. Ecco ciò che è accaduto.

Eppure molti sono infastiditi dalla semplicità di questo resoconto, permangono divergenze sull’origine della violenza e ancora si dibatte sull’esito del conflitto. Ma c’è ben poco da discutere: 1) è stato Hamas a dare inizio alle violenze; 2) nel conflitto militare Israele ha avuto la meglio. Fare queste affermazioni non significa sostenere che questa situazione sia definitiva, né che tutto sia risolto dopo quest’estate: Hamas rappresenta ancora una minaccia e la politica israeliana nei confronti dei Palestinesi resta controversa. Ma, se guardiamo ai fatti, Israele non è mai stata in una situazione strategica migliore – dato che in Medio Oriente non esiste un esercito che possa sostenere un’invasione su larga scala e che il leader palestinese è in grado al massimo di affermare che lo Stato Ebraico non sta andando da nessuna parte. Il paese è emerso dalle violenze dell’estate più sicuro, non meno sicuro. Le cose sarebbero potute andare diversamente e probabilmente sarebbe successo, se non fosse stato per la decisione di Hamas di trascinare le forze di sicurezza israeliane nei territori palestinesi.

Ora sappiamo che gli uomini di Hamas in Cisgiordania si stavano preparando a creare un’ondata di violenza volta a radicalizzare la politica dell’intera area, per impedire la cooperazione tra Israele e Palestina nell’ambito della sicurezza e privare l’Autorità Palestinese − controllata da Fatah, rivale di Hamas – dell’apporto dell’intelligence israeliana e della forza delle armi. Con il denaro proveniente dalla leadership di Hamas a Gaza e con la benedizione del leader Saleh al-Arouri, che attualmente opera dalla Turchia, gli uomini di Hamas in Cisgiordania si sono preparati per anni alla loro guerra terroristica, costruendo infrastrutture e accumulando armi. Hamas avrebbe usato la violenza e l’isolamento dell’Autorità Palestinese per sottrarle il potere nei territori così come quasi un decennio fa era successo a Gaza.

Intanto, a Gaza, i leader di Hamas avevano preparato una serie di “sorprese” strategiche (questo il loro linguaggio) in attesa di un vero e proprio confronto militare con le Forze di Difesa Israeliane. Armamenti e tattiche erano pronte per attacchi contro i civili israeliani in grado di causare enormi perdite. Durante l’anno al potere in Egitto, dal 2012 al 2013, il governo dei Fratelli Musulmani ha lasciato proliferare le operazioni di contrabbando all’interno e all’esterno del territorio egiziano e Hamas ha potuto importare attraverso i suoi tunnel dozzine di razzi M-302 abbastanza potenti da raggiungere i confini settentrionali di Israele. I terroristi sono entrati e usciti da Gaza per addestramenti col deltaplano ed erano pronti a riproporre tattiche che erano state adottate in alcuni tra i più devastanti attacchi terroristici palestinesi. Sono stati acquistati dei droni e i leader di Hamas si sono vantati di aver caricato alcuni di essi di esplosivo per compiere attacchi suicidi. Contemporaneamente, Hamas ha sottratto centinaia di migliaia di tonnellate di cemento ricevute come aiuti umanitari per la costruzione di 32 tunnel sotterranei sotto il confine tra Israele e Gaza. Interi commando erano pronti a entrare in Israele attraverso questi passaggi, che li avrebbero portati a pochi minuti da comunità israeliane poco popolate e scarsamente difese.

Tutto ciò è accaduto entro metà agosto. In Cisgiordania i terroristi sono stati presi, le armi sono state sequestrate e i leader di Hamas sono stati catturati. A Gaza i missili a lunga gittata sono stati fatti saltare in aria o sono andati persi, il piano dei deltaplani è stato interrotto, i droni si sono dimostrati inutili e i tunnel sono stati distrutti. La domanda che ancora non ha una risposta ora è: perché il gruppo terroristico ha deciso di indurre Israele alla guerra prima che i suoi uomini potessero portare a compimento il loro spettacolare piano? È opinione diffusa che un anno di pressioni esercitate su Hamas dal governo egiziano seguito a quello dei Fratelli Musulmani e la risolutezza di Israele abbiano portato il gruppo terroristico sull’orlo del collasso. L’esercito egiziano ha distrutto i tunnel che erano i principali canali attraverso i quali ricevere beni e una grande fonte di reddito per Hamas. Hamas non aveva risorse per pagare i suoi uomini, che sono più di 40000. Gli stava sfuggendo di mano il controllo di Gaza. I governi autoritari sono quasi sempre più deboli di quanto appaia dal di fuori, ma più forti di quanto i loro paranoici leader percepiscano dall’interno. I capi di Hamas devono aver pensato di non aver alternative all’impiego dei tunnel – che altrimenti sarebbero stati distrutti − e hanno attaccato con la speranza di poter combattere in condizioni migliori una volta giunti dall’altra parte. Secondo un’altra teoria, i leader di Hamas temevano che attraverso l’operazione Brother’s Keeper – lanciata contro Hamas in Cisgiordania a seguito del rapimento di tre ragazzi israeliani – Israele fosse venuto a conoscenza degli attacchi progettati da Gaza e, pensando di non aver più frecce al loro arco, hanno deciso di colpire per disperazione. Ancora una volta, ci può essere una spiegazione più semplice: spesso i terroristi non sono molto brillanti, i fanatici di solito mancano di prudenza e si può spiegare quanto successo anche come una serie di abbagli. O forse Hamas era davvero in grande difficoltà.


La minaccia dei missili di Hamas

Qualunque sia la ragione, l’escalation da parte di Hamas c’è stata. A Gaza, Hamas ha notevolmente intensificato quello che è stato, sin dall’inizio dell’anno, un lancio di razzi che è cresciuto costantemente. Il Ministro della Difesa israeliano Moshe Yaalon ha dichiarato a gennaio che Gerusalemme “non avrebbe tollerato il lancio di razzi” e che le “Forze di Difesa Israeliane e altre forze di sicurezza avrebbero continuato a dare la caccia a coloro che colpivano Israele”. Il mese di febbraio ha visto l’incremento dei lanci di razzi e una grande bomba piazzata sul confine. A marzo Hamas ha sparato la raffica di razzi più pesante dalla conclusione dell’incursione israeliana a Gaza, nel 2012, ma ad aprile e maggio il fuoco è stato costantemente ridotto. Ha raggiunto nuovamente il culmine il primo di giugno, quando un razzo è caduto nella regione israeliana di Eshkol. L’11 giugno è stato lanciato un altro razzo che questa volta ha mancato di poco una delle più importanti vie di trasporto israeliane. Quella notte l’aeronautica israeliana, aiutata dall’agenzia di sicurezza del paese, la Shin Bet, ha colpito un ex ufficiale della polizia di Hamas responsabile degli attacchi. Entro la fine del mese, sono stati lanciati verso Israele almeno 65 razzi e colpi di mortaio. Intanto in Cisgiordania, nel contesto di violenza che già si era prodotto sul confine meridionale di Israele, i terroristi di Hamas hanno rapito e ucciso tre ragazzi israeliani: Naftali Fraenkel, Gilad Shaar e Eyal Yifrach.

Citando informazioni di intelligence abbastanza certe da provocare una condanna immediata e definitiva da parte di Washington e di Ramallah – e che comprendevano anche i dettagli di un piano contro il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas – gli Israeliani hanno subito accusato Hamas. Più tardi hanno individuato in Marwan Kawasmeh e Amar Abu-Isa i sospetti. Con l’aiuto dei membri dell’Autorità Palestinese – che avevano siglato solo pochi giorni prima del rapimento un accordo con i rivali Palestinesi e ora si rendevano conto di esser stati manipolati – gli Israeliani lanciarono immediatamente l’operazione Brother’s Keeper per scovare i responsabili ed estirpare Hamas dalla Cisgiordania. I ragazzi, che secondo gli ufficiali israeliani erano stati uccisi poco dopo il rapimento, furono trovati morti il 30 giugno. Anche dopo questa triste scoperta Israele ha sperato di poter evitare un’escalation della violenza nel sud del paese.

Il 3 luglio il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato che Hamas aveva ancora la possibilità di interrompere i suoi attacchi e di tornare all’accordo “quiet for quiet” che ha regolato il confine per almeno due anni. Israele ha messo in chiaro, attraverso canali pubblici e privati, che Hamas non avrebbe avuto più di un weekend per decidere. Il responsabile delle relazioni internazionali di Hamas, Osama Hamdan, il giorno seguente ha sostenuto che il lancio di razzi e missili sarebbe continuato fino a quando Israele non avesse revocato le restrizioni alle importazioni a Gaza e l’Autorità Palestinese non avesse pagato i salari dei funzionari di Hamas. La precisione delle condizioni poste avrebbe poi alimentato la tesi di coloro che sostenevano che i leader di Hamas sono stati guidati da un atteggiamento da “prendere o lasciare”, volto a giocarsi il tutto per tutto. Lo sforzo egiziano di porre fine alla guerra prima ancora che iniziasse non ha avuto successo. Il 7 luglio centri abitati israeliani sono stati colpiti dozzine di volte; si è giunti anche a 30 razzi in dieci minuti. Quella notte Israele ha dato inizio all’operazione Protection Edge. Hamas ha finito per rompere i cessate-il-fuoco e ha ripreso le ostilità non meno di undici volte durante i cinquanta giorni di durata dell’operazione. Ha sempre scelto di combattere, anche quando la sorti della guerra andavano male e, poi, quando volgevano al disastro. Per mesi non sarà possibile quantificare i danni che Hamas ha provocato a se stesso e a Gaza. I primi rapporti stimano che le infrastrutture di Hamas siano state quasi interamente distrutte. L’80% del suo arsenale missilistico è stato impiegato, molti razzi sono stati distrutti dagli attacchi aerei israeliani e quasi tutti i restanti o sono atterrati in campi vuoti quando sono stati abbattuti dal sistema antimissilistico Iron Dome, o sono caduti a distanza ravvicinata e si trovano a Gaza. I 32 tunnel di Hamas sono stati distrutti dopo che Israele ha dato il via alle operazioni via terra, il 17 luglio. Solo due giorni prima i leader del gruppo avevano rifiutato un cessate-il-fuoco che avrebbe preservato quelle infrastrutture; al contrario, hanno deciso di far attraversare un tunnel da dei commando per fare incursione in un kibbutz. Almeno tre dei comandanti militari più importanti di Hamas sono stati uccisi durante gli ultimi giorni di conflitto; avevano preso l’inspiegabile decisione di lasciare i loro bunker sotterranei dopo aver rotto l’ennesimo cessate-il-fuoco. Nessuno degli attacchi di Hamas contro i civili – con missili a lunga gittata, coi droni, coi deltaplani o attraverso i tunnel − è andato a buon fine. Il bilancio per Israele? 72 vittime israeliane, 66 soldati e 6 civili. L’aeroporto internazionale di Israele è rimasto chiuso per un giorno soltanto e questa è stata una delle azioni di maggior successo di Hamas.


Khaled Meshaal, leader di Hamas

Ma anche la severa realtà dei numeri non riesce a descrivere la portata della débâcle militare di Hamas. La natura del conflitto – i luoghi e le modalità – sono stati scelti esclusivamente da Israele. Hamas ha costretto Israele a combattere, ma il suo impatto sul conflitto non è andato oltre. L’invasione di terra delle Forze di Difesa Israeliane del 17 luglio è durata esattamente quanto era stato deciso dai leader israeliani. Quando Hamas ha fatto fallire l’undicesimo tentativo di cessate-il-fuoco, il 19 agosto gli Israeliani hanno iniziato quella che hanno descritto come una “straordinaria escalation”, colpendo leader militari di alto rango e radendo al suolo almeno tre centri di comando e controllo. Hamas è capitolato nel giro di una settimana, finendo con l’accettare le stesse condizioni sul tavolo da più di un mese e che erano state considerate favorevoli a Israele e umilianti per la fazione palestinese.

A Gaza sono state organizzate delle parate vittoriose che hanno ingannato solo chi voleva lasciarsi ingannare. Abbas ha esortato Hamas ad ammettere di esser stato colpito pesantemente e a regolarsi di conseguenza. Il primo ministro di Hamas Ismail Haniyeh è uscito dal suo bunker e ha fatto ritorno a casa sua, che è stata distrutta durante la guerra. In un’immagine che coglie l’essenza dell’operazione Protective Edge, Haniyeh posava completamente solo con un enorme sorriso sul volto, circondato solo da macerie e mostrando un segno di vittoria. Ciò nonostante, come era prevedibile si è diffusa l’idea che Israele abbia in qualche modo perso la guerra o che perlomeno abbia fallito nel raggiungere alcuni degli obiettivi prefissati. Questo è semplicemente falso. I leader israeliani hanno dichiarato almeno a giugno di non voler rovesciare Hamas. Un obiettivo del genere avrebbe implicato l’invasione della Striscia di Gaza, che avrebbe richiesto molti mesi e sarebbe stata seguita da una rioccupazione del territorio di anni. Invece di trascorrere i prossimi anni a concentrarsi sul confine meridionale, i leader israeliani hanno cercato di ristabilire la strategia del “quiet for quiet”, per potersi occupare di ciò che resta dell’arsenale di Hamas attraverso canali diplomatici. Anche se l’ultima opzione avesse avuto scarse possibilità di successo, era comunque da considerare preferibile alla distruzione totale causata da un conflitto dispersivo e prolungato. Come prova del fatto che il governo di Netanyahu non gradiva l’idea di una guerra contro Hamas, Gerusalemme ha scelto di accettare il cessate-il-fuoco proposto dall’Egitto. Ma Hamas lo ha rifiutato perché non esaudiva nessuna delle condizioni poste dal gruppo e, attraverso i tunnel, ha lanciato un attacco che è stato rapidamente sventato. Israele ha risposto dichiarando esplicitamente che l’obiettivo della campagna restava ristabilire la situazione precedente le tensioni, non la distruzione di Hamas, ma che nel frattempo le Forze di Difesa Israeliane avrebbero dato inizio a operazioni di terra e distrutto la rete di tunnel di Hamas. Il 22 luglio il Ministro della Giustizia israeliano Tzipi Livni spiegò che “non ci sarebbe stato un cessate-il-fuoco prima di aver portato a termine il progetto di distruzione dei tunnel […] e che non sarebbe successo nel caso in cui fossero state assecondate le condizioni completamente inaccettabili poste da Hamas”. L’esercito israeliano si è ritirato dopo aver ultimato la missione di distruzione dei tunnel, Hamas ha rotto svariati cessate-il-fuoco a seguire, Israele ha lanciato la sua “straordinaria escalation” e così la guerra si è protratta. Durante il conflitto Netanyahu è stato bersaglio di critiche da tutte le parti. La sinistra lo ha criticato per aver esteso la campagna militare al di là del semplice blocco degli attacchi missilistici – distruggendo i tunnel, intervenendo via terra e così via − mentre la destra lo ha attaccato per aver rifiutato di intensificare ulteriormente le azioni militari. Ecco un esempio: il 20 agosto il Ministro degli Esteri Avigor Lieberman (più a destra di Netanyahu) ha scritto su Facebook che la strategia del “quiet met with quiet” non avrebbe mai funzionato e che Israele doveva spingersi oltre. Il 22 agosto Yossi Sarid, che per molti anni è stato alla testa della formazione di sinistra Meretz Party, ha invitato coloro che vivono nel sud di Israele a “spiegare ai politici e ai generali che un altro Pillar of Defense, un altro Cast Lead o un altro Protective Edge [tutti nomi di operazioni militari israeliane, ndt] non avrebbero certo posto fine all’inimicizia” con i Palestinesi. Il senso di frustrazione provato da molti Israeliani per la conclusione del conflitto è comprensibile. La capitolazione di Hamas ha lasciato in vita gran parte dei leader del gruppo, e anche molti dei suoi combattenti, pronti a tornare a combattere in un’altra occasione. I civili israeliani vivono ancora al fianco di fanatici di Hamas che vogliono eliminarli. Tuttavia la sostanziale vittoria di Israele è indubbia e talvolta la confusione sembra volta a sostenere posizioni ostili nei confronti di Israele o, più nello specifico, della leadership di Benjamin Netanyahu. Come, per esempio, per quanto riguarda il violento calo di popolarità di Netanyahu una volta conclusa la guerra; il consenso è precipitato dal picco dell’80% raggiunto durante la guerra al valore medio-basso del 30%. Questo calo è stato accolto con compiaciuta soddisfazione da parte dei critici stranieri e come una conferma della loro stessa convinzione del futuro fallimento della strategia di Netanyahu e di Israele. Ma ogni previsione circa un possibile esito elettorale o l’orientamento dell’opinione pubblica israeliana resta incerta. Al momento la popolarità di Netanyahu pare essere un po’ al di sopra di quella abituale e secondo i sondaggi egli sarebbe ancora in grado di battere qualsiasi altro candidato con un ampio margine di vantaggio. È possibile che nel lungo periodo Israele e Netanyahu si rivelino essere gli sconfitti. Il conflitto potrebbe riaccendersi e Israele potrebbe subire perdite consistenti nel tempo che occorre per stabilire un nuovo cessate-il-fuoco. Forse i negoziati prima o poi permetteranno ad Hamas di vedere soddisfatti quei punti su cui insiste da tempo come prerequisiti per una tregua, ma che finirebbero per non esserlo: denaro per gli uomini alle sue dipendenze, fine delle restrizioni israeliane alle importazioni, apertura del confine di Gaza con l’Egitto. (Sin dalla fine della guerra Gerusalemme ha accettato di estendere la zona di pesca di Gaza da tre a sei miglia, un gesto che era già stato preso in considerazione, ma che tecnicamente risulta richiesto da Hamas).

Non sarebbe la prima volta che gli Israeliani si lasciano sfuggire di mano i frutti di una vittoria militare. Ma niente di tutto ciò cambia il dato centrale: Hamas è isolato e indebolito. Dal punto di vista militare non avrebbe potuto continuare a combattere più di un paio di settimane; da quello diplomatico, le sconfitte sul campo di battaglia lo mettono in una posizione difficile. Ora èpiù probabile che si inizi a comprendere la vera portata della vittoria israeliana. Israele ha usato la guerra per costruire nuovi rapporti con i suoi vicini. Il blocco dei paesi cosiddetti arabi pragmatici, tradizionalmente alleati degli Stati Uniti – l’Arabia Saudita, la Giordania, l’esercito egiziano e alcuni elementi dell’Autorità Palestinese – vede Israele schierato contro l’Iran sciita da una parte e un asse di estremisti turchi, del Qatar e dei Fratelli Musulmani dall’altra. Questi ultimi sono i nemici dei pragmatici. Dunque non c’è da meravigliarsi se Israele e il nuovo governo egiziano collaborano così strettamente per isolare Hamas. E non dovrebbe sorprendere se continuassero a trovare un terreno comune in questa battaglia. L’Egitto continuerà a limitare l’arrivo di rifornimenti ad Hamas; dunque, se ci sarà un processo di ricostruzione, sarà l’Autorità Palestinese a doverla gestire. Ma si tratta di una mossa rischiosa: se gestita male, la ricostruzione potrebbe portare a una situazione in cui l’Autorità Palestinese ha il controllo formale delle istituzioni civili, ma il controllo di fatto, esercitato attraverso la forza delle armi, è nella mani di Hamas e in caso di futuro conflitto Israele si ritroverebbe a dover evitare di danneggiare le infrastrutture dell’Autorità Palestinese. Si riprodurrebbe anche per i Palestinesi una sorta di “modello Hezbollah”. Ma si sa che tra Fatah e Hamas non scorre buon sangue e quest’ultimo si sentirebbe umiliato se dovesse permettere al primo di rientrare a Gaza. Fatto ancora più rilevante, l’attenzione di Israele si è rivolta alla minaccia militare costituita dagli attacchi provenienti dai tunnel e questo potrebbe evitare una catastrofe in un’altra guerra. Israele ha una grande capacità di sviluppare soluzioni tecnologiche per rispondere a minacce asimmetriche, ma solo dopo che è stato costretto. Per molto tempo l’intelligence israeliana ha saputo che Yasser Arafat stava preparando una guerra da condurre soprattutto attraverso infiltrazioni terroristiche dalla Cisgiordania; ma solo dopo l’ondata di attacchi suicidi a pizzerie e banchetti pasquali gli Israeliani hanno costruito il loro sistema di sicurezza altamente tecnologico. Allo stesso modo, negli anni 2000 Israele sapeva che Hezbollah stava importando decine di migliaia di razzi e missili. Solo dopo la pioggia di razzi e missili di Hezbollah nel nord di Israele Gerusalemme ha iniziato a lavorare seriamente a una tecnologia antimissilistica. Sicuramente Hezbollah ha scavato la sua rete sotto il confine settentrionale di Israele prima e in preparazione alla guerra. Ora Israele si è messo al lavoro e si sta adoperando per proteggersi sia da sud che da nord. Hezbollah e i suoi sponsor iraniani non ringrazieranno certo Hamas per aver svegliato lo Stato Ebraico.

Ecco come appare una vittoria. Non è una vittoria totale, ma d’altra parte una vittoria totale non è mai stata l’obiettivo della guerra. Nell’estate del 2014 Israele è stato costretto a difendersi e lo ha fatto molto bene.


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