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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Rassegna Stampa
29.12.2005 Progetto per riscrivere la storia del Novecento a uso e consumo dell'ideologia
si incomincia, ovviamente, dalla "questione palestinese"

Testata:
Autore: la redazione
Titolo: «Le origini del sionismo»

II sito Progetto novecento, collegato al sito del liceo intenazionale "Altiero Spinelli" di Torino pubblica un dossier intitolato "La questione palestinese".Fondato sulle tesi degli storici revisionisti israeliani, in particolare da quelle del libro "Il muro di ferro" di Avi Shlaim il dossier è caratterizzato sia dalla sistematica omissione di fatti storici rilevanti (per esempio: le violenze antiebraiche nella Palestina mandataria negli anni 20 e 30, l'allenaza del muftì di Gerusalemme con i nazisti il formale rifiuto arabo della spartizione proposta dall'Onu) sia dalle stesse distorsioni degli venti e manipolazioni delle fonti che storici israeliani come Ephraim Karsh hanno contestato ai revisionisti, costringendoli ad ammettere di aver fatto un uso ideologico dei documenti, volto a difendere tesi precostituite. Così vengono distorte, per esempio, le vere parole di Ben Gurion, che non volle mai attuare un trasferimento dei palestinesi e quelle di Jabotinski, per il quale il "muro di ferro" era reso necessario dall'irriducibile ostilità araba all'autoderteminazione degli ebrei nella loro terra d'origine. Viene riproposta la tesi  di un accordo tra Golda Meir e Abdallah di Giordania per la spartizione della Palestina, tesi smentita da Karh con una dettagliata analisi dei documenti.   L'intera origine della questione dei profughi è ricondotta alle operazioni militari israeliane durante la guerra d'indipendenza, coordinate in un vero e proprio piano: ma persino uno storico revisionista come Morris esclude la presenza di un piano di espulsione dei palestinesi dai territori e, d'altro ca
nto, vi sono documenti che attestano gli appelli dei leader arabi ai palestinesi perché lasciassero le loro case. Una rapida visione del complesso del sito rende chiaro che questa visione distorta del conflirtto israelo-palestinese fa parte di una concezione ideologica coerente, che tende ad attribuire ogni male, 11 settembre compreso, alle democrazie occidentali.



Di seguito riportiamo, come esempio, la prima parte del dossier, dedicata a "Le origini del Sionismo"


«Nel 1907 Yitzhak Epstein, un insegnante di origine russa insediato in Palestina, pubblicò, sul periodico ebraico Ha-Shiloah, un articolo intitolato "A Hidden Question". L'argomento trattato era l'atteggiamento degli ebrei nei confronti degli arabi di Palestina. "Tra gli importanti quesiti sollevati dal concetto della rinascita del nostro popolo nella sua terra", scrisse Epstein, "solo uno è più significativo di tutti gli altri messi insieme e riguarda le nostre relazioni con gli arabi". Tale interrogativo, aggiunse Epstein, "non è stato semplicemente dimenticato, ma piuttosto è stato completamente occultato da parte dei sionisti e non ha trovato spazio nella letteratura del nostro movimento". La preoccupazione di Epstein fu messa da parte dalla maggioranza dei sionisti del tempo. Tuttavia, l'interrogativo nascosto si è riproposto per ossessionare il movimento sionista e lo Stato di Israele nei primi cinquant'anni della sua esistenza». [Avi Shlaim, pag. 25].

Il movimento sionista è un'espressione della cultura e della religione ebraica della Diaspora, e contiene in sé molti elementi dell'ideologia che in Europa nutrì il fenomeno del colonialismo. Gli ebrei europei di fine Ottocento vedevano nella Palestina un territorio "senza storia" (ad eccezione della loro propria, troncata dai Romani nel I secolo d.C.) e un'opportunità economica, a prescindere dagli interessi e dalle convenienze delle popolazioni ivi residenti. In questo senso, il movimento sionista ha sempre espresso una intolleranza di fondo, unita a una non ben celata concezione di "superiorità etcnica", nei confronti del mondo arabo e in particolare degli abitanti della Palestina. La "Questione palestinese" non è dunque il frutto della presenza ebraica in Palestina (da sempre è presente in quei territori una numerosa e antica comunità ebraica), ma delle scelte operate dal movimento sionista dagli anni '20 in poi, e della speculare intransigenza nazionalista del mondo arabo, nutrita da decenni di oppressione colonialista inglese.

Per la storia del movimento sionista, vedi la relativa sitografia.
I caratteri peculiari del colonialismo sionista

Senza entrare nei particolari della storia del movimento sionista, analizziamo brevemente i fondamenti storici della sua "filosofia politica".

A partire dalla sua fondazione, ad opera del giornalista austriaco di origine ebraica Theodor Herzl (1860 - 1904), il programma politico del movimento contempla un'unico scopo: "Lo scopo del sionismo è quello di creare un focolare per il popolo ebraico in Palestina garantito dal diritto" (Congresso di Basilea del 1897). In quest'ottica, il movimento ha sempre volutamente ignorato il problema della popolazione araba residente nella terra palestinese. Scrive Shlaim: «Herzl considerava la popolazione autoctona primitiva e arretrata, e il suo atteggiamento nei confronti di questa era caratterizzato da un senso di superiorità. Egli pensava che, come individui, i nativi arabi dovessero godere di pieni diritti civili all'interno dello Stato ebraico, ma non li considerava come una società con diritti politici collettivi sulla terra in cui costituivano la schiacciante maggioranza. Come molti altri sionisti, Herzl sperava che i benefici economici avrebbero fatto aderire la popolazione araba all'iniziativa sionista in Palestina. In quanto portatori di tutti i vantaggi economici della civiltà occidentale, gli ebrei, pensò Herzl, sarebbero stati ben accolti dagli abitanti dell'arretrato Oriente» [A. Shlaim, cit. pag. 28].
Il movimento cercò sempre di stabilire alleanze con le grandi potenze per il riconoscimento delle sue istanze. Questo riconoscimento giunse infine dalla Gran Bretagna con la famosa lettera d'intenti del Ministro degli esteri britannico Lord Arthur Balfour, del 1917, che tra l'altro recitava: «Il governo di Sua Maestà guarda con favore alla fondazione di un focolare nazionale per il popolo ebraico in Palestina e farà del suo meglio per facilitare il raggiungimento di questo obiettivo, ben inteso che niente debba essere fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina o i diritti e lo status politico degli ebrei in ogni altro paese» [citato in A. Shlaim, pag. 31].
Il futuro nuovo presidente del movimento, Chaim Weizman (1874 - 1952) arrivò a dichiarare, durante la conferenza di pace a Versailles del 1919, che per "focolare ebraico, il sionismo intendeva: «rendere ebraica la Palestina come inglese è l'Inghilterra». Questa alleanza tra sionismo e Inghilterra fu vissuta dagli arabi come una provocazione colonialista, tanto più grave in quanto essa tradiva ulteriormente le promesse di indipendenza fatte dalla Gran Bretagna agli arabi durante la I Guerra mondiale. Immediatamente, sorse un movimento di resistenza arabo all'emigrazione sionista in Palestina che portò a violenti scontri sia tra Arabi ed Ebrei (1920-21), che tra Arabi e Inglesi (negli anni tra il '36 e il '39).
In un certo senso si può dire che la dichiarazione di Balfour ha contribuito a far sorgere , dopo secoli di oppressione turca e poi inglese, una coscienza nazionale in una popolazione che ne era sempre stata priva.
Il padre spirituale del diritto israeliano, Ze'ev Jabotinsky (1880 - 1940), rappresenta a tutti gli effetti il personaggio-chiave per la comprensione dell'attuale "Questione palestinese". Egli fu il più radicale assertore della superiorità etnica degli ebrei, in quanto portatori dei valori occidentali, sulla passiva stagnazione sociale e culturale dell'oriente musulmano. Nella sua attività politica, Jabotinsky giunse a delineare il fulcro del programma politico che avrebbe poi sempre ispirato le scelte del movimento sionista: a) il principio dell'integrità territoriale della "Terra di Israele" - Eretz Israel - su entrambe le rive del Giordano; b) la dichiarazione del diritto ebraico a una sovranità politica sull'intera area.
A sostegno di questa teoria, egli produsse nel 1923 due articoli, intitolati "Il muro di ferro", all'interno dei quali prendeva di petto il problema della risposta da dare ai diritti degli arabi residenti in Palestina. Dopo aver dichiarato la sua "cortese indifferenza" nei confronti di tale questione, egli scriveva: «Non possiamo promettere nessuna ricompensa agli arabi di Palestina o agli arabi al di fuori della Palestina. Un accordo volontario è irraggiungibile. Quindi, coloro che considerano un'intesa con gli arabi come una condizione indispensabile per il sionismo devono oggi ammettere che tale condizione non si avvererà e che perciò dovremmo sciogliere il nostro movimento. Di fatto, o sospendiamo i nostri sforzi volti all'insediamento o dobbiamo andare avanti senza prestare attenzione ai sentimenti dei nativi. L'insediamento potrà quindi svilupparsi sotto la protezione di una forza che non dipende dalla popolazione locale, dietro a un muro di ferro che essi non avranno il potere di distruggere» [citato in a: A. Shlaim, pag. 37].
A tutt'oggi, la teoria del "Muro di ferro" contro gli arabi costituisce un punto di riferimento incrollabile delle politiche israeliane nei confronti della "Questione palestinese".
Leggi gli articoli di Jabotinsky nella versione integrale.
Leggi la loro traduzione (a cura di Emanuele Sorani)
La politica del "Muro di ferro" ha implicato fin dall'inizio dell'emigrazione ebraica in Palestina una chiara opzione militare, sia in funzione difensiva che offensiva. A fronte del nazionalismo arabo-palestinese sorto in contrapposizione agli accordi anglo-sionisti, la scelta del Movimento sionista fu infatti la creazione di un'organizzazione armata clandestina - l'Haganah (Difesa) - che ebbe fin dall'inizio lo scopo di proteggere gli insediamenti ebraici. La scelta del confronto armato, in opposizione a ogni forma di contrattazione basata sul reciproco riconoscimento, fu in gran parte dovuta alla personalità di David Ben Gurion (1886 - 1973), presidente dell'esecutivo dell'Agenzia ebraica per l'emigrazione dal 1935, e fondatore dello Stato di Israele. A fronte della rivolta araba del 1936 egli comprese che l'opposizione araba al sionismo aveva assunto un carattere nazionalista, che gli ebrei immigrati dovevano cioè fare i conti con un'entità politica ben precisa, il popolo palestinese, e non con una massa inerte di semplici contadini, e che perciò si prospettava un "grande conflitto". Così infatti egli si espresse di fronte all'Agenzia da lui presieduta: «entrambi vogliamo la Palestina. Questo è il conflitto fondamentale». Egli riconobbe che gli ebrei erano gli aggressori e che gli arabi cercavano solo di difendersi, ma da ciò trasse la conclusione che non la diplomazia ma le armi avrebbero risolto il conflitto.
Per una storia dell'Haganah
In sintesi. Le origini della "Questione palestinese" coincidono non con la presenza degli ebrei in Palestina, ma con il formarsi di un movimento coloniale sostenuto da un'élite intellettuale ed economica ebraica, che aveva come finalità la realizzazione di un progetto politico-economico con profonde radici religiose (Eretz Israel).
Il "peccato originale" del sionismo fu, fin dall'inizio, l'atteggiamento elusivo e mistificatorio nei confronti dei diritti civili e politici degli arabi palestinesi, la scelta cioè di una contrapposizione aprioristica nei confronti di una comunità considerata giuridicamente e culturalmente inferiore. Questa contrapposizione passò, tra gli anni '20 e '40, dalla semplice negazione di principio, alla ricerca di alleanze con potenze tradizionalmente avverse alla causa araba (Turchia, Germania, Inghilterra), fino alla creazione di un corpo militare organizzato allo scopo di rispondere con la forza alle legittime pretese della popolazione locale.
I "padri fondatori" dello Stato di Israele sono stati tutti assertori, ideatori e attivisti della politica del "Muro di ferro" e della lotta armata contro gli arabi. Le basi del conflitto furono dunque gettate prima dell'Olocausto. Quando questo divenne noto ai dirigenti del Movimento sionista, i piani per l'occupazione della Palestina erano già pronti.

In merito alla questione del nazionalismo israeliano, consigliamo la lettura del saggio di Oren Yiftachel (prof. di geografia e politica pubblica alla Ben Gurion University del Negev) «Etnocrazia». La politica della giudaizzazione di Israele-Palestina.
Le radici del conflitto. La storia della Palestina araba.

Riportiamo alcuni brani del capitolo 1 del saggio di Xavier Baron “ I Palestinesi ”, pp. 19-38, dedicato alle condizioni geopolitiche precedenti la nascita di Israele.

I germi di un conflitto

«1891. Sotto il governo ottomano, ebrei e arabi trascorrono ancora giorni felici in Palestina, o meglio nella provincia ottomana di «Siria». Si parlerà di «Palestina» solo più tardi. Dai monti del Tauro al Sinai, dal Mediterraneo ai confini dell'immenso deserto d'Arabia, Costantinopoli amministra una sola regione sapientemente ritagliata: il vilayet (provincia) di Aleppo, all'estremo nord. Poi, ai bordi del deserto, discendendo da Hama fino ad Aqaba, il vilayet di Siria. Sul litorale, il vilayet di Beirut, attraversato in mezzo dal sandjak (distretto) del Libano, si estende da Latakia fino a nord di Giaffa. A sud-ovest della Siria, un triangolo che si spinge fino ad Aqaba forma il sandjak di Gerusalemme.

Oggi queste regioni si chiamano «Siria», «Giordania», «Libano», «Israele», ma le loro frontiere non hanno più niente in comune con quelle dell'epoca ottomana. Fino alla prima guerra mondiale, per gli arabi come per i turchi non esiste una regione geografica o anche solo amministrativa chiamata «Palestina». Questa sarà creata dopo la guerra, unendo la parte meridionale del vilayet di Beirut al sandjak di Gerusalemme.

Parecchie centinaia di migliaia di arabi, musulmani e cristiani, vivono in Giudea, in Samaria, in Galilea, nella futura Palestina. Hanno in genere rapporti di buon vicinato con gli ebrei, quelli che sono lì da lungo tempo e parlano anche loro arabo, e i nuovi, i «coloni», che si insediano a poco a poco. Ebrei, cristiani e musulmani sono uguali nell'Impero ottomano. Alcuni ebrei hanno influenza a Costantinopoli e possono aspirare alle più alte funzioni. Gerusalemme, la più grande città del Paese, ha un carattere cosmopolita più spiccato di qualsiasi altro posto, con le sue comunità religiose francesi, britanniche, armene, italiane, che mantengono scuole, monasteri, conventi. Quarantamila ebrei vivono nella Città santa accanto a ventimila arabi e chiunque, di qualsiasi razza o religione, può liberamente circolare nei quartieri musulmani, cristiani, ebraici o armeni. Il libero accesso ai Luoghi santi è garantito a tutti.»

Nello stesso periodo, dalla Germania, dall'Austria e dalla Russia si diffonde in tutta Europa il veleno dell'antisemitismo: dai Pogrom russi ai ghetti polacchi alle campagne ideologiche di Edouard Drumont in Francia. Molti ebrei cercano la salvezza nel movimento sionista e nella sua agenzia per l'emigrazione, che dirotta verso “la Terra promessa” decine di migliaia di nuovi “coloni”: essi saranno 24.000 nel 1882, 47.000 nel 1895, 81.000 nel 1910.

Un telegramma alla Sublime Porta

«Gli arabi cominciano allora a guardare in modo diverso questi ebrei pieni di dinamismo, intraprendenti, che comprano le terre dei loro vecchi e sempre meno impiegano lavoratori arabi. Le terre ebraiche rappresentano 2.500 ettari nel 1882, poi 10.710 nel 1890 e 22.000 nel 1900. Nello stesso periodo le colonie passano da cinque a quattordici, poi a ventidue. All'indifferenza segue l'allarme e poi l'agitazione da parte degli arabi. Il primo grido di allarme viene lanciato il 24 giugno 1891. I notabili di Gerusalemme indirizzano alla Sublime Porta un telegramma di protesta con la richiesta di un firman (decreto) che proibisca agli ebrei di entrare in Palestina e di acquistarvi terre. Costantinopoli dà seguito alla richiesta dei notabili ma un intervento britannico rende inefficace il firman.»

Attraverso la stampa militante gli arabi cominciano a creare un movimento di opposizione al sionismo; e a complicare la situazione interviene la scoppio della I Guerra mondiale. Con la sua sconsiderata politica di interessi e false promesse, la Gran Bretagna strumentalizza il nazionalismo arabo per sconfiggere l'Impero ottomano, e conferma la propria vocazione imperialista stringendo patti contradditori di spartizione con la Francia, che seminano nel mondo mediorientale delusione, rancore e odio. Alla fine del conflitto, l'indipendenza e l'unità promesse dall'Inghilterra alle popolazioni della provincia siriana si trasformano in una spezzettamento colonialista mascherato sotto il termine di “mandato”.

«Il discorso è avviato nel 1915 da un carteggio tra l'alto commissario britannico al Cairo sir Henry McMahon e lo sceriffo della Mecca Hussein, che in una conferenza di dirigenti arabi a Damasco, nel maggio 1915, è stato riconosciuto come portavoce di tutta la nazione araba. In una lettera del 24 ottobre 1915 McMahon scrive che «la Gran Bretagna è pronta a riconoscere e sostenere l'indipendenza degli arabi in tutte le regioni poste entro le frontiere definite dallo sceriffo della Mecca, a eccezione dei distretti di Mersin e di Adana [oggi in Turchia] e delle parti della Siria che si estendono a ovest dei distretti di Damasco, Homs, Hama e Aleppo». Così, da Aleppo al Golfo, dall'oceano Indiano al Mediterraneo passando per il Mar Rosso, agli arabi è promessa l'indipendenza. Non essendoci indicazioni contrarie, gli arabi capiscono che la Palestina, che si trova a sud e a sud-ovest della linea definita da McMahon, sarà inclusa nel reame arabo indipendente. Del resto il governo britannico si riconosce «impegnato dalla lettera di sir Henry McMahon allo sceriffo della Mecca, in data 24 ottobre 1915, per la sua [della Palestina] inclusione nelle frontiere dell'indipendenza araba». In cambio di questa promessa britannica, lo sceriffo della Mecca scatena la rivolta contro i turchi il 5 giugno 1916.»

La spartizione franco-britannica

Gli accordi Sykes-Picot pongono sotto l'influenza francese gli odierni Libano e Siria, mentre l'Iraq e la Transgiordania cadono sotto l'influenza britannica. La presenza inglese in Palestina viene concordata con la Russia e assume una forma giuridica ambigua e poco soddisfacente per l'orgoglio arabo. Come se non bastasse, le promesse fatte allo sceriffo Hussein, già compromesse dagli accordi Sykes-Picot, vengono apertamente contraddette dalla «dichiarazione Balfour» del 2 novembre 1917 .

«I governi francese, italiano e americano la riconosceranno a loro volta. In quanto agli arabi, non sono mai stati consultati su questa dichiarazione, che in seguito permetterà ogni interpretazione. Tuttavia nel 1917 gli ebrei rappresentano solo il 7 della popolazione della Palestina. Appresa la notizia, tra gli arabi straripa la collera. Lo sceriffo della Mecca, divenuto re dell'Higiaz, chiede spiegazioni. Gli sono date il 4 gennaio 1918 dal comandante Hogart dell'Ufficio arabo della Gran Bretagna al Cairo, che gli assicura che il governo britannico non si opporrà all'emigrazione ebraica in Palestina purché sia «compatibile con la libertà economica e politica della popolazione esistente».

Precisazioni e rassicurazioni

«Nel giugno 1918 ulteriori precisazioni sono fornite dalle autorità britanniche del Cairo a sette notabili arabi: la popolazione delle regioni occupate dagli Alleati (cioè il Sud della Palestina, compresa Gerusalemme, fino all'allora linea del fronte: Giaffa-Gerico-Salt) deciderà del proprio avvenire. Le regioni ancora sotto controllo turco (nord della Palestina, Siria e Libano) saranno indipendenti, così come le regioni che erano indipendenti prima della guerra e quelle che sono state liberate dagli arabi. Questi ultimi si tranquillizzano. L'indipendenza è nuovamente promessa, salvo che per il Sud della Palestina. Ma poiché si tratta di una regione in cui la popolazione è araba al 90, il risultato dell'autodeterminazione non può essere dubbio.»

Nel 1917 l'impero turco è sconfitto; ma gli arabi non ottengono l'indipendenza sperata, pur avendo combattuto con efficacia al fianco delle truppe inglesi e del colonnello Lawrence. Il principe Feisal, secondo figlio dello sceriffo Hussein, partecipa col colonnello inglese alla conferenza di pace di Parigi nel 1919, senza ottenere nulla di ciò che era stato promesso. Intanto, la popolazione ebraica in Palestina continua a crescere: nel 1919 la terra posseduta dai sionisti sale a 65.000 ettari.

«Con un'amarezza profonda riguardo agli Alleati e con un crescente pericolo sionista in Palestina, gli arabi non si fidano più di nessuno. Eppure il peggio deve ancora arrivare. Non senza ragione il 1920 è stato chiamato dagli arabi «l'anno della catastrofe». L'idea di creare mandati nei territori turchi «liberati» si precisa durante il 1919 e diviene una realtà nel 1920 con l'adozione della Carta della Società delle Nazioni. L'articolo 22 della Carta prevede che «alcune comunità un tempo appartenenti all'Impero ottomano hanno raggiunto un grado di sviluppo tale che la loro esistenza come nazioni indipendenti può essere provvisoriamente riconosciuta a condizione che un mandatario rechi consigli e assistenza alla loro amministrazione fino al momento in cui esse sapranno reggersi da sole. Le aspirazioni di queste comunità devono essere prese in considerazione prima di ogni altra cosa nella scelta del mandatario».
Il 25 aprile 1920 la sorte delle ex province ottomane viene decisa dal Consiglio supremo degli Alleati riunito a Sanremo. La provincia ottomana di Siria viene spezzata: la Palestina (sandjak di Gerusalemme e sud del vilayet di Siria), così come la Mesopotamia (Iraq), spettano alla Gran Bretagna, mentre la Francia ottiene il Libano e la Siria. Per i sionisti è una vittoria, perché il mandato sulla Palestina obbliga la Gran Bretagna ad applicare la dichiarazione Balfour.»

Il mandato e la dichiarazione Balfour

«I termini del mandato sono inequivocabili. Essi stabiliscono che «il mandatario si assumerà la responsabilità di creare nel Paese una situazione politica, amministrativa ed economica tale da assicurare la costituzione di un focolare nazionale per il popolo ebraico» (art. 2), che un «organismo ebraico adeguato sarà ufficialmente riconosciuto e avrà il diritto di fornire pareri all'amministrazione della Palestina e di cooperare con essa in tutte le questioni economiche, sociali o di altro genere che possono danneggiare la costituzione di un Focolare nazionale ebraico» (art. 4), che «pur prestando attenzione a che non sia recato danno ai diritti e alla situazione delle altre parti della popolazione, l'amministrazione della Palestina faciliterà l'immigrazione ebraica in condizioni opportune e d'accordo con l'organismo ebraico, e incoraggerà l'insediamento intensivo degli ebrei nelle terre del Paese, ivi comprese le proprietà dello Stato e le terre incolte» (art. 6), che sarà emanata una legge sulla nazionalità, «tale che faciliti agli ebrei che si stabiliranno in Palestina in modo permanente l'acquisizione della nazionalità palestinese» (art. 7). Le fondamenta dello Stato di Israele sono così gettate. Quindi, col pretesto di assicurare «il benessere e lo sviluppo» di popolazioni che non «sono ancora capaci di reggersi da sole», il mandato codifica l'insediamento «permanente» di nuovi abitanti e giunge persino ad assicurare loro la nazionalità palestinese. Ai palestinesi è negata l'indipendenza proprio mentre si decide di intensificare l'immigrazione in Palestina. Alle contraddittorie promesse si somma la contraddizione dei testi. Per gli arabi è uno schiaffo clamoroso. Tanto più che non può essere loro rimproverato di non avere espresso le loro «aspirazioni». Questo era stato fatto anche prima della conferenza di Sanremo. (…)
Le potenze mandatarie si insediano, rimodellano profondamente il Medio Oriente, stravolgono le frontiere secondo i loro interessi, dividendo la regione in due mondi separati per lingua, legislazione, moneta, sistema educativo ecc. Il limite delle zone d'influenza britannica e francese si concretizza progressivamente sul terreno, dopo un accordo tra i governi di Parigi e di Londra firmato a Beirut il 3 febbraio 1922 e approvato dalla Società delle Nazioni il 6 febbraio 1924.»

Queste frontiere tuttavia non soddisfano i sionisti. L'obiettivo del movimento infatti è tutta la regione che dalle sorgenti del Giordano si estende fino al deserto del Neghev. Gli accordi, infine, mettono in atto la nascita del regno di Transgiordania, una delle regioni promesse agli arabi nel carteggio McMahon-Hussein del 1915. Si tratta in realtà di un tentativo di “occidentalizzare” la Siria, nel pieno disprezzo della sensibilità culturale delle popolazioni locali. Anche questo fatto sarà causa di infiniti problemi politici e militari nel secondo dopoguerra.

Il primo congresso palestinese

I Palestinesi tengono il primo dei loro sette congressi nel febbraio del 1919 a Gerusalemme. Le sue delibere vengono inviate alla conferenza di pace di Parigi, e contengono la richiesta di non prendere nessuna decisione sulla regione “Siriana” senza prima consultare gli abitanti, e il rifiuto di riconoscere ogni autonomia ebraica in Palestina.

«A quest'epoca l'opinione pubblica palestinese comincia a essere informata del «pericolo sionista». In molte città, soprattutto a Gerusalemme e a Giaffa, all'inizio del 1919 vengono distribuiti volantini che chiamano gli arabi a «resistere». Qualche mese dopo scoppia la violenza. È l'inizio di un ciclo cruento che metterà a fuoco la Palestina per anni e che conoscerà terribili accessi febbrili. Sullo sfondo di ogni accesso di violenza si riconosceranno sempre le stesse motivazioni tra la popolazione araba: il rifiuto della dichiarazione Balfour, l'inquietudine, soprattutto tra i fellah, di fronte all'immigrazione sionista e l'ostilità al mandato. Per mancanza di organizzazione, di informazione e di preparazione, gli atti di violenza, diretti contro il sionismo e le sue manifestazioni in Palestina, non colpiranno precisi «obiettivi sionisti» ma la popolazione ebraica, che avrà numerose vittime. (…)
Il 4 aprile tanto i musulmani quanto gli ebrei celebrano a Gerusalemme la festa del profeta Mosè. Ciò da luogo a una processione che, proveniente da fuori le mura, entra in città dalla porta di Giaffa. Nel corso della cerimonia scoppia una piccola disputa. Subito gli arabi cominciano ad attaccare gli ebrei nelle strade. Le forze britanniche intervengono per ristabilire l'ordine ma sei ebrei e sei arabi vengono uccisi.»

Le nuove realtà

Un terzo congresso palestinese, dicembre 1920, segna la nascita di un movimento nazionalista palestinese. In effetti la regione viene staccata, dopo la conferenza di Sanremo, dalla Siria propriamente detta, e passa come regione autonoma sotto amministrazione civile britannica. Il congresso riconosce la nuova realtà, ma reclama la formazione di un governo palestinese indipendente. Questo è un dato di fatto fondamentale e incontrovertibile, a fronte delle ripetute dichiarazioni sioniste circa una presunta assenza di progettualità politica da parte delle popolazioni arabe palestinesi. Inoltre, il congresso elegge un Comitato esecutivo arabo di ventiquattro mèmbri, presieduto da un ex sindaco di Gerusalemme, Mussa Kazem al-Husseini, membro della grande famiglia musulmana palestinese degli Husseini. Ma nulla di tutto ciò è recepito dalle autorità mandatarie inglesi. 10.000 nuovi immigrati ebrei giungono tra il '20 e il '21, mentre le organizzazioni sioniste comprano altri 9.000 ettari di terra .


Un primo maggio a Giaffa

«Basta poco per fare esplodere la violenza. Il primo maggio 1921 a Tel Aviv, allora il quartiere ebraico di Giaffa, sfilano due gruppi di lavoratori ebrei in occasione della festa del Lavoro. La manifestazione maggiore, autorizzata, si scontra improvvisamente col secondo gruppo, composto di comunisti appartenenti a un piccolo partito assai attivo tra gli emigranti, il Miltiagat Poalim Sozialistim (Mopsi). Tra il Mopsi e il partito socialista moderato, Unità del lavoro, che organizza il principale corteo del primo maggio, regna una tenace ostilità. Per evitare scontri fra i due gruppi, la polizia fa deviare i manifestanti comunisti verso la costa, nelle vicinanze dei sobborghi settentrionali di Giaffa. L'arrivo del corteo che lancia slogan comunisti provoca il panico tra gli arabi, che pensano si tratti di un attacco dei «bolscevichi atei»; come sempre in questi casi, voci allarmiste che cominciano a correre tra la popolazione. Contro i manifestanti ebrei dapprima volano pietre, poi dalle case partono colpi di arma da fuoco. Alcuni abitanti di Tel Aviv rispondono. Quello che all'inizio era solo un incidente tra gruppi politici sionisti si trasforma in un tumulto razziale. A Giaffa viene attaccato un albergo per l'immigrazione sionista: tredici ebrei vengono assassinati. Nei giorni seguenti gli attacchi contro le colonie sioniste, a opera principalmente di contadini arabi, si estendono e si moltiplicano, in mezzo a vociferazioni di massacri di arabi a opera degli ebrei. Hadera (a nord di Giaffa) e Petah Tiqwa (a est di Giaffa) subiscono diversi assalti. Il bilancio delle giornate di tumulti è pesante: 47 ebrei e 48 arabi uccisi; 146 ebrei e 73 arabi feriti.»

La Gran Bretagna sospende l'immigrazione ebraica, ed emana una nuova norma con la quale si stabilisce che essa sarà da quel momento commisurata alla capacità economica di assorbimento della Palestina .

La Gran Bretagna e la Palestina

«Oggetto di pressioni contraddittorie da parte degli arabi e degli ebrei, Winston Churchill espone il 30 luglio 1922 la politica del suo governo verso la Palestina. Questo importante documento, conosciuto col nome di Libro bianco del 1922, afferma che, contrariamente ai «timori manifestati dalla delegazione del Comitato esecutivo arabo, il governo britannico non ha mai contemplato la sparizione o la subordinazione della popolazione, della lingua o della cultura arabe in Palestina». E Winston Churchill «attira l'attenzione sul fatto che i termini della dichiarazione [Balfour] non prevedono che l'intera Palestina divenga un Focolare nazionale ebraico ma che un tale focolare sarà fondato in Palestina». Nei confronti degli ebrei il Libro bianco sottolinea che «è essenziale che questa comunità sappia che essa si trova in Palestina per diritto e non per tolleranza». E aggiunge che l'immigrazione ebraica «non può eccedere la capacità economica di assorbimento del Paese». Definendo, in una prospettiva più generale, la politica britannica, Winston Churchill dichiara: «Alla domanda: "Cosa bisogna intendere per sviluppo del Focolare nazionale ebraico in Palestina?", si può rispondere che non si tratta dell'imposizione di una nazionalità ebraica agli abitanti dell'intera Palestina ma di perseguire lo sviluppo della comunità ebraica esistente, con l'aiuto degli ebrei delle altre regioni del mondo, affinché essa divenga un centro al quale l'intero popolo ebraico possa, per quanto riguarda la razza e la religione, interessarsi e del quale possa andare fiero».»

L'entrata in scena del muftì

Grazie anche all'appoggio dell'amministrazione inglese, un nuovo influente membro della famiglia Husseini, Haj Amin, diventa muftì di Gerusalemme. La nomina ha un valore puramente simbolico, ma è carica di un'importanza considerevole per gli equilibri politici all'interno del mondo arabo-palestinese, in quanto rappresenta la massima autorità della comunità mussulmana. Pur essendo ricercato per i fatti del 1920, il nuovo muftì diventa anche presidente dell'appena costituito Consiglio supremo musulmano. Tra il 1920 e il 1920, Husseini si imporrà con autorevolezza non solo a livello locale, ma saprà attirare l'attenzione di tutto il mondo arabo sulla causa palestinese.

Un fallimento

«Alla metà degli anni Venti appare chiaro che il movimento nazionale arabo in Palestina è un fallimento. Né le delegazioni inviate in Europa, né le petizioni rivolte alle autorità, né il boicottaggio delle elezioni, né gli scioperi, né i tumulti sono riusciti ad avere influenza sulla politica britannica e a ostacolare l'insediamento sionista. Anzi, senza provocare particolari reazioni da parte degli arabi, sono stati raggiunti dei record: 12.856 immigranti arrivano nel 1924, 33.801 nel 1925 e 13.081 nel 1926. Le organizzazioni sioniste acquistano 17.612 ettari nel 1925. I censimenti britannici del 1922 e del 1931 manifestano la consistenza dell'immigrazione; in dieci anni la popolazione ebraica raddoppia: 83.790 ebrei su una popolazione totale di 752.000 abitanti nel 1922, poi 174.606 ebrei su una popolazione totale di 1.033.314 abitanti nel 1931. Un analogo incremento si verifica riguardo alle proprietà fondiarie sioniste, che in dieci anni raddoppiano di superficie, passando da 65.000 ettari nel 1920 a 120.000 nel 1931. La superficie totale della Palestina del mandato è di 27.027 chilometri quadrati, dei quali 704 di acque.»

Questo fallimento ha diverse cause, non ultima la troppo lunga indifferenza degli arabi per le ragioni politiche e sentimentali degli ebrei immigrati.

«Ma all'origine del fallimento della «lotta politica» negli anni Venti c'è soprattutto la struttura feudale e patriarcale della società palestinese. Il potere è praticamente nelle mani di una piccola aristocrazia fondiaria, la casta degli effendi, all'interno della quale le grandi famiglie (Husseini, Nasciascibi, Daj'ani, Alami, Nusseibeh, Khalidi ecc.) sono più preoccupate delle loro rivalità e della difesa dei loro interessi che della colonizzazione sionista. Gli effendi traggono immensi profitti dall'usura e dalle loro proprietà (origine della loro potenza) coltivate dai fellah. Per mezzo di un insieme di «protezioni», di favori o di privilegi, le grandi famiglie musulmane esercitano una notevole influenza sulla vita politica, fino nei villaggi, e anche su una certa classe intellettuale che gravita attorno a loro agli inizi del mandato. Ogni partito politico, a eccezione del Partito comunista, è l'emanazione di uno di questi clan.»

I fellah

«In fondo alla scala sociale si trovano i fellah, che sono le prime vittime della colonizzazione sionista e pagano il prezzo dell'atteggiamento delle grandi famiglie. I contadini rappresentano il 71 della popolazione araba nel 1922 e il 68 nel 1931. Fortemente indebitati verso gli effendi, con il mandato i fellah conoscono annate nere. Attratti dalla smisurata speculazione fondiaria provocata dagli acquisti di terre da parte delle organizzazioni sioniste, i proprietari aumentano i canoni o vendono le aziende. I contadini si indebitano ulteriormente oppure si trovano senza lavoro poiché le imprese ebraiche non utilizzano in pratica lavoratori arabi. I fellah espulsi o spossessati vanno allora in genere ad affollare i quartieri miserabili di Haifa.
Tale sorte dei fellah spiega il ruolo preponderante svolto dalle masse contadine arabe durante i tumulti del 1921 e soprattutto durante gli avvenimenti del 1929 e del 1935-1936. Poco informati su ciò che accade ai più alti livelli politici, i contadini si limitano a constatare nella vita quotidiana che le loro disgrazie sono cominciate con l'arrivo di un gran numero di coloni ebrei, che dispongono di notevoli mezzi, creano un'economia ebraica indipendente dall'economia araba tradizionale e vengono a lavorare nelle loro terre al loro posto. Le reazioni cieche e violente che più volte manifestano contro la popolazione ebraica hanno le radici in questa crescente inquietudine che li incalza e nella loro volontà di autopreservazione.»

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