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Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
01.11.2020 Stefan Zweig, cittadino d'Europa
Recensione di Tommaso Munari

Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 01 novembre 2020
Pagina: 7
Autore: Tommaso Munari
Titolo: «L'europeista Stefan Zweig»
Riprendiamo dal SOLE24ORE/Domenica di oggi, 01/11/2020 a pag.7, con il titolo "L'europeista Stefan Zweig" il commento di Tommaso Munari.

S. Zweig, L'esprit européen en exil. Essais, discours, entretiens  (1933-1942)
La copertina


Ebreo d'origine, viennese di nascita, europeo di spirito, Stefan Zweig morì suicida in Brasile nel 1942. La sua vita di scrittore di successo, spesa girovagando per l'Europa tra salotti letterari, teatri lirici e alberghi di lusso, è rievocata in una delle autobiografie più dolenti del ventesimo secolo: Il mondo di ieri. Memorie di un europeo (1942). La capitale di questo mondo perduto era Vienna, ma i suoi confini si estendevano ben oltre quelli dell'impero asburgico e abbracciavano Parigi, Berlino, Roma, Londra, dove Zweig strinse amicizia con il gotha della cultura europea: Hofmannsthal, Rilke, Herzl, Verhaeren, Rodin, Rolland, Pirandello e Joyce, per citare solo alcuni nomi. La sua Europa coincideva infatti con la repubblica delle lettere, in cui frontiere e lingue servivano non a separare, ma a unire. Lo scoppio della Prima guerra mondiale non intaccò il suo cosmopolitismo umanistico, ma lo mutò in un europeismo pacifista che nutri profondamente le sue opere, almeno fino alla proclamazione del Terzo Reich. La sua vita cominciò a vacillare quando i suoi libri finirono al rogo, ma fu l'Anschluss a spezzarla in due: da cosmopolita, Zweig si trasformò in apolide; da viaggiatore, in esule. Il suo esilio iniziò a Londra, proseguì a New York e finì, tragicamente, a Petrópolis, sette mesi prima che l'editore Bermann Fischer pubblicasse a Stoccolma Il mondo di ieri. Quest'opera, che oggi prosegue nella sua parabola di classico e continua a conquistare lettori entusiasti (tra cui il regista Wes Anderson, che ne ha tratto ispirazione per Grand Budapest Hotel, 2014), fu aspramente criticata, al suo apparire, da Hannah Arendt. Dalle pagine del «Menorah Journal», a cui nel corso degli anni Quaranta la filosofa tedesca affidò numerose e acute riflessioni sull'ebraismo, si scagliò con crudele lucidità contro un autore che riteneva accecato dalla propria fama e avulso dalla realtà sociale. Il suo Mondo di ieri era per lei una costruzione di cartapesta: falso che la Vienna fin de siècle fosse stata immune dall'antisemitismo; falso che il nazismo fosse caduto sulla Germania come un fulmine a ciel sereno; falso che l'Europa fosse mai stata una culla di fratellanza e di pace. E anche quando l'illusione in cui Zweig era vissuto per tutta la vita si sgretolò davanti ai suoi occhi, «invece di lottare, preferi tacere». Su quest'ultimo punto, però, Arendt aveva torto. Come dimostrano i saggi, i discorsi e le interviste che i germanisti Jacques Le Rider e Klemens Renoldner hanno appena raccolto sotto il titolo di L'esprit européen en exil, Zweig non tacque affatto. Parlò, scrisse, rispose, reagì, in particolare nell'ultimo decennio della sua vita. Già all'indomani dell'avvento al potere di Hitler, per esempio, si era fatto promotore di un manifesto degli intellettuali ebrei contro la sua politica antisemita, nel quale si legge - mai scelta delle parole fu più profetica - che il popolo ebraico era pronto «a scomparire piuttosto che riconoscere il minimo briciolo di verità in questa follia». E quando, nel 1938, la macchia nazista si allargò sull'Austria, non esitò a lanciare un appello a tutti i popoli affinché si preparassero a soccorrere e accogliere mezzo milione di nuovi profughi. Non tacque neppure quando le discriminazioni si trasformarono in persecuzioni: «Il primo dovere di tutti coloro che hanno la libertà di parlare è parlare a nome dei milioni e milioni di individui che non possono più farlo, perché questo diritto inalienabile è stato loro tolto», tuonò col vigore di un navigato comiziante alla Radio francese il 24 aprile 1940. Il popolo al quale Zweig sentiva di appartenere davvero era tuttavia quello europeo. Sono noti da tempo, anche in Italia, molti dei suoi saggi europeisti (Appello agli europei, Skira, 2015), ma le ricerche d'archivio di Le Rider e Renoldner ne hanno riportati alla luce altri, che confermano una fede profonda non tanto nell'unificazione europea quanto nello «spirito europeo»: uno spirito in attesa d'incarnarsi in un progetto, «una forza latente in attesa di divenire dinamica». Perché, sosteneva Zweig, l'idea d'Europa «non è originale e istintiva, ma nasce dalla riflessione; non è il prodotto di una passione spontanea, ma il frutto lentamente maturato di un pensiero elevato». Certo Arendt non sbagliava a giudicare l'europeismo di Zweig querulo ed elitario e a interpretare la sua presa di coscienza politica come una reazione all'umiliazione personale inflittagli dal regime nazista. Negli stessi anni in cui lui percorreva l'Europa sotto lo scudo della Sua fama letteraria, tenendo conferenze al Pen Club e concedendo interviste al «New York Times», lei lavorava nella sede parigina di un'organizzazione di soccorso ebraica, rivivendo quotidianamente la propria esperienza di profuga. E mentre il disgusto di Zweig perla politica si trasformava lentamente in disgusto per la vita, lei cominciava a elaborare le sue celebri riflessioni sulle origini del totalitarismo, sulla crisi dello Stato nazionale e sul futuro della democrazia europea. Difficile sfuggire all'impressione di trovarsi di fronte alla contrapposizione fra una vita orientata al passato e una immersa nel presente. E ancor più difficile negare, specialmente di fronte alla crisi di legittimità che l'Unione Europea sta attraversando, la concretezza politica del pensiero di Arendt rispetto all'astrattezza delle parole di Zweig. Eppure la sua vita e le sue opere continuano a esercitare un fascino che oltrepassa le nazioni, le lingue e le generazioni... «Spesso nei miei sogni cosmopoliti - si legge in una delle ultime pagine del Mondo di ieri - avevo fantasticato in segreto quanto dovesse esser bello, ed in fondo confacente al mio più intimo sentimento, essere senza cittadinanza, non legato ad alcun paese e perciò ugualmente appartenente a tutti». Siamo proprio sicuri che l'Europa non abbia ancora bisogno di un pizzico dell'utopia universalista di Stefan Zweig?

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