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Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
20.10.2019 Da Ramallah i lamenti di Ugo Traballi
Qualche riga sull'economia, tutto il resto la solita propaganda

Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 20 ottobre 2019
Pagina: 20
Autore: Ugo Tramballi
Titolo: «Ramallah si affida all'economia»
Riprendiamo dal SOLE24ORE di oggi, 20/10/2019, a pag. 20, con i titolo "Ramallah si affida all'economia" una corrispondenza di Ugo Tramballi


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Ugo Tramballi sorpassa di molte lunghezze Michele Giorgio, che scrivendo sul Manifesto dovrebbe non avere rivali in grado di produrre propaganda a un livello più alto. Invece no, il sorpasso avviene sul quotidiano di Confindustria, quel Sole24Ore che non si vegogna di pubblicare le fake news di Tramballi persino sul supplemento della Domenica, come avviene oggi. Sotto un titolo che vorrebbe ingannare il lettore "Ramallah si affida all'economia",  di economia c'è ben poco, sin dall'inizio alla fine è un coro di propaganda in omaggio all' eroico popolo palestinese occupato dai cattivi israeliani. Inutile chiedersi se all'interno di Confindustria c'è un imprenditore, con un minimo di onestà personale, che chieda conto sull'attività  propagandista del Tramballi, inutile, scriviamo, non c'è. Lontani i tempi della direzione Locatelli, l'unica consolazione è la caduta verticale della tiratura, scesa al 10° posto, con 60.651 copie.


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Ugo Tramballi

Ecco il pezzo:

Ecco Ramallah, capitale di nulla, ormai neanche di un'illusione. Dovrebbe esserlo dello Stato palestinese, in attesa di un accordo di pace e della concessione di qualche quartiere di Gerusalemme Est, dieci chilometri più a Sud. Ma prima la gente ha incominciato a smettere di credere di poter arrivare un giorno a Gerusalemme; e ora della "Capitale Provvisoria" tiene per buona solo la transitorietà della città e dei suoi abitanti. Una condizione politica di questa natura - di forzata e continua attesa - non può che condizionare lo sviluppo urbanistico ed economico, la sociologia, la vita quotidiana degli abitanti di Ramallah e dei villaggi che le stanno attomo: chiusi fra posti di blocco israeliani e colonie ebraiche. Non è una vera gabbia come la striscia di Gaza ma una gabbia con rigorosi e controllati orari di apertura I palestinesi non hanno smesso di sognare l'indipendenza: si sono però adattati alla realtà e alla necessità di vivere nel frattempo nel migliore dei modi possibile.
È così in tutte le città della Cisgiordania occupata, ma in particolare a Ramallah. Camminando per le sue strade ci sono poche tracce del risorgimento politico, della prima e della seconda Intifada: qualche vecchia foto di un martire, la bandiera, l'aquila che è il simbolo dell'Autorità palestinese. Anche il nuovo guarder generale dell'Autorità palestinese sembra la sede ordinata di un'istituzione che ha raggiunto i suoi scopi, non di chi sta lottando contro un'occupazione alla quale nessuno sa come porre fine.
Il nuovo edificio è a ridosso della Mukata, un anonimo fortino coloniale inglese, poi diventato residenza e ufficio di Yasser Arafat. Gli israeliani lo avevano bombardato durante la seconda Intifada. Al suo posto ora c'è il mausoleo nel quale è sepolto Arafat, morto a Parigi nel 2004. Alle sue spalle, inaugurato meno di tre anni fa, si apre il Museo dedicato al vecchio rais. Sono l'unico simbolo di quell'antica lotta. «Ma una tomba e un museo hanno a che fare più col passato che col futuro», dice con scetticismo un amico palestinese che dopo trent'anni di militanza, alcuni dei quali in prigione, oggi ha aperto un ristorante.
Ufficialmente l'Arafat Museum è il museo della storia contemporanea palestinese, in realtà lo è dell'Organizzazione perla Liberazione Palestinese. È vero che senza l'Olp e soprattutto senza Arafat, che ne divenne il leader alla fine degli anni Sessanta, non si sarebbe mai parlato d'indipendenza della Palestina. Ma sommessamente gli abitanti di Ramallah ricordano che l'epica palestinese non erano solo i fedayn: c'erano anche loro, rimasti sotto occupazione per 30 anni, prima che Arafat tornasse a offrire un'illusione e a lasciare un fallimento. il museo è interattivo e la sua narrazione è tutto sommato corretta.
Passa velocemente sul Settembre Nero giordano del 1970, la vera guerra civile fra palestinesi, e quasi ignora le corresponsabilità nella destabilizzazione del Libano nel 1975. Ma ogni impresa nazionale ha i suoi lati oscuri. Anche i musei israeliani tendono a ignorare il capitolo della pulizia etnica palestinese del 1947/48.
Dopo la lunga carrellata storica si scende nel bunker dove Arafat fu assediato dagli israeliani nel 2003. Mobilio spartano e originale. Non puoi coltivare un futuro senza un museo che racconti il tuo passato. Andate a Les Invalides di Parigi e capirete la Francia.
Nel frattempo a Ramallah devono vivere. Non dovrebbe avere un'economia brillante una città che con le municipalità di el-Bireh, Kalandia, alcuni villaggi e due campi profughi - senza soluzione di continuità urbana esteticamente brutta - passa da 27mila abitanti a un'area metropolitana di oltre 100mila.
Invece la città è molto attiva, si costruisce, è piena di locali, di negozi, con supermercati e qualche shopping mall. Non potendo uscire dalla città, la gente fa della città il suo mondo.
La sua ricchezza sono gli aiuti dell'Unione Europea che da Ramallah sovvenzionano i 270mila dipendenti pubblici dell'Autorità Palestinese; sono l'Onu e le 1.100 organizzazioni non governative internazionali. C'è anche una piccola industria locale, nonostante la completa dipendenza dai prodotti di consumo israeliani.
E soprattutto c'è l'immobiliare. Come spiega lo scrittore e avvocato Raja Shehadeh, autore di Going Home: A Walk Through Fifty Years of Occupation (guardianbookshop.com), è con gli accordi di Oslo del 1995 che lo sviluppo economico, limitato dalle restrizioni dell'occupazione, «incominciò a essere incoraggiato e finanziato dai programmi d'aiuto europei e americani. Il cambiamento delle leggi rese possibile agli investitori costruire case e un mercato immobiliare privato». Nel 60%dei Territori interamente controllati da Israele i palestinesi non possono costruire. Qui a Ramallah sì, ma la terra è poca, limitata dalle colonie ebraiche tutte attorno che invece non hanno lo stesso problema:
Ma'ale Adumim, alle spalle di Gerusalemme, si distende in un'area grande quanto Tel Aviv. Quindi si costruisce verso l'alto, si elevano grattacieli. Superato il posto di blocco di Kalandia, la strada che da Gerusalemme porta verso Ramallah è una fila ininterrotta di edifici dai quindici piani in su, appena terminati o in costruzione. Assomiglia alle periferie cinesi da Hong Kong a Wuhan. I prezzi sono bassi ma non sono incluse elettricità, acqua corrente, fogna, raccolta rifiuti.
Nei due campi profughi dell'area metropolitanadi Ramallah - Amari e Kalandia - invece, non c'è nulla: il solito precario sottosviluppo. «I cambiamenti avvenuti nell'ultimo mezzo secolo», dice ancora Raja Shehadeh, interpretando lo spirito degli abitanti di Ramallah, «hanno creato una nuova e opprimente realtà che richiede un approccio diverso e un nuovo genere di leadership. Per noi, invecchiati con la lotta, è tempo di riconoscere la nostra sconfitta, fare un passo indietro e affidare ai giovani le nostre speranze». Il problema è che, a quelle speranze, i giovani di Ramallah preferiscono un futuro altrove.

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