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Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
22.06.2014 A.B.Yehoshua si racconta
nell'inervista a Luigi Sampietro

Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 22 giugno 2014
Pagina: 25
Autore: Luigi Sampietro
Titolo: «Il rigore della letteratura»

Riprendiamo da DOMENICA/ILSOLE24ORE di oggi, 22/06/2014, a pag.25, con il titolo "Il rigore della letteratura", l'intervista di Luigi Sampietro a A.B.Yehoshua, in Italia la prossima settimana per ricevere il Premio Hemingway.


A.B.Yehoshua

La riluttanza da parte dei critici ad addentrarsi nelle aspre ragioni dell'etica non giova né alla letteratura né alla morale, poiché, nonostante il loro successo e la loro importanza, né i media né tantomeno i tribunali riusciranno mai a suscitare nel nostro animo un fenomenodi immedesimazione profondo come quello provocato dalla letteratura». Così scriveva Abraham B. Yehoshua nell'introduzione a una raccolta di saggi, n potere terribile di una piccola colpa (Einaudi, 2000), che, se a prima vista e in tempi di imperante politically correctness, poteva apparire poco convincente, conteneva tuttavia una grande verità. E doè che la letteratura è finita in un angolo perché tradita in una delle sue motivazioni più importanti. Da insostituibile guida morale che era al tempo in cui Tolstoj scriveva Anna Karenina, ha finito per cedere a certi agenti che sono tanto impropri quanto incompetenti: i media, appunto, e i tribunali: entrambi incapaci di quella «suspension of disbelief»" di cui parla Coleridge e che porta il lettore a riconoscere dentro di sé - attraverso un atto di co-inherence o "co-inerenza" con il testo - certe verità profonde altrimenti indimostrabili. I media, sempre così sensibili a questioni di equità e correttezza politica, che si avvalgono soprattutto di interviste e sondaggi, e che ci espongono al rischio di confondere lo studio dei dilemmi morali sollevati da un testo con le conclusioni che ciascuno di noi può trarre misurandoli con le proprie piccole nevrosi; e i tribunali a cui sempre più si tende a delegare il giudizio su ciò che è giusto o ingiusto, laddove la loro funzione - e il loro ambito! - è invece solo quella di stabilire la legalità o illegalità delle azioni umane. Devo dire che quando lessi per la prima volta il libro di Yehoshua rimasi un po' perplesso. Ero nel mezzo di una battaglia campale contro i burocrati della critica, ovvero quel modo fin troppo facile di insegnare allo studente a valutare un'opera d'arte sulla base di convinzioni esterne all'opera stessa: sulla base, cioè, di una causa che si aveva in mente e che poteva essere politica, economica, religiosa o sociale, e che divideva fadlmente larealtàtrabuoni e cattivi, e gli artisti tra "quelli che stanno con noi" e "quelli che sono contro di noi". Non che avere un'opinione decisa in qualsiasi campo lo ritenessi un male, ma nell'ambito della letteratura era mia convinzione che per rispondere alle domande dello studente desideroso di imparare il mestiere bisognava prima di tutto riflettere su quella frase di Oscar Wilde che tagliava la testa al toro: «Non esistono libri morali o immorali. Ci sono libri scritti bene o scritti male, e questo è tutto». Sapevo benissimo che "non era tutto", ma quella doveva essere la nostra priorità. Il legittimismo applicato alla critica, da ideologico che era ancora cinquant'anni addietro - e anche cento o duecento o cinquecento anni prima, quando le opere d'arte erano commissionate e patrocinate in base al credo di cui si pensava fossero al servizio -, negli ultimi decenni aveva preso una via che aveva semplificato fino alla beceraggine qualsiasi giudizio. Lo studio della letteratura, che un tempo era nutrimento dello spirito, era diventata una sorta di caccia alle streghe diretta da burocrati con tanto di liste di proscrizione. E il giochino, tanto facile quanto pericoloso, aveva trasformato la critica letteraria in qualcosa in cui non c'era nulla di critico. Mentre il nostro compito era, per il momento, cercar di capire, non a che cosa servisse, ma come funzionasse un libro: entrarvi come se a spiegarcelo fosse chi l'aveva scritto. Rileggendo Yehoshua, anni dopo, mi sono però accorto che la parola "morale" applicata alla riflessione critica, lungi dall'introdurre una qualsiasi censura di carattere ideologico non aveva nulla di allarmante. Riguardava - riguarda -, piuttosto, la necessaria complessità dei dilemmi che la letteratura deve essere capace di presentare e il lettore di affrontare, inoltrandosi in territori estremi dove difficilmente avrebbe occasione di avventurarsi da solo. In altre parole, mi sono convinto che, dopo averne soppesato l'efficacia formale e dopo averne ravvisato le tecniche e i trucchi, la letteratura - la grande letteratura -, la si deve poter leggere e valutare vedendola al centro anche di un discorso di carattere etico. Un testo è importante se è in grado non solo di farsi ammirare ma di coinvolgere la nostra intera umanità. «Cosa che oggi non si fa più», mi dice al telefono lo stesso Yehoshua quando lo chiamo per dargli il benvenuto in vista del Premio Hemingway che gli sarà assegnato la prossima settimana a Lignano Sabbiadoro. «Oggi il dilemma che pone un libro come Anna Karenina finirebbe in fumo. Lo scrittore - e, peggio ancora, il critico - indagherebbe sulla sua infanzia, non sul problema della responsabilità degli individui». Israeliano ed ebreo sefardita, Yehoshua ha fatto della moderna Gerusalemme, dove è nato e dove la sua famiglia risiedeva da cinque generazioni, quel che sono Praga per Kafka e Dublino per Joyce. Ma a Gerusalemme non vive più da decenni. Il suo modo di scrivere, aderente alla realtà e allo stesso tempo capace di trasfigurarla sul piano simbolico, lo ha reso famoso nel mondo. Ha pubblicato i primi racconti in un periodo, gli anni Sessanta, in cui una generazione di giovani scrittori appartenenti al cosiddetto 'Nuovo Movimento" sostituirono il realismo ideologico - centralizzato -, che aveva celebratola storia del sionismo, con una narrativa attenta alla complessità dei rapporti personali all'interno della famiglia e soprattutto della coppia. I suoi primi romanzi - L'amante (1977) e Un divorzio tardivo (1982), entrambi pubblicati in Italia da Einaudi rispettivamente nel 1990 e 1996 - sono costruiti in forma di monologo interiore, mentre nel Il signor Mani (199o) i dialoghi sono ridotti a monologhi in quanto possiamo leggere solo quel che dice una delle voci parlanti, ed è come ascoltare qualcuno che parla al telefono senza sentire chi sta all'altrocapo del filo. Una tecnica, questa, che costringe il lettore a usare la propria immaginazione. Ma non provate a chiedere a Yehoshua, come invece ho fatto io, che cosa dica l'interlocutore che non possiamo sentire. Vi risponderà che non lo sa nemmeno lui. II signor Mani, pure pubblicato da Einaudi (1994), è ritenuto il suo capolavoro ed è un viaggio all'indietro nel tempo. Iniziato dopo la morte il funerale del padre, non è però un romanzo dettato dalla nostalgia, quanto piuttosto dalla convinzione che «il passato non è morto: non è nemmeno passato», come diceva Faulkner, e che solo contando su questo principio si possa cogliere la complessità del reale e conoscere la propria identità. Che per Yehoshua vuole dire porre al centro di ogni cosa - come mito e come motore della storia ebraica - quella akedah, o minaccia sventata del sacrificio di Isacco, che trova la sua succinta espressione, come lui stesso ha scritto, nella frase: «In ogni generazione, ognuno deve guardare a se stesso come se fosse personalmente uscito dalla schiavitù dell'Egitto». Yehoshua ha più volte dichiarato che The Sound and the Fury è il grande romanzo americano del Ventesimo secolo, e che il suo punto di riferimento artistico, oltre a Franz Kafka e Shmuel Yosef Agnon, è proprio Faulkner. Gli chiedo pertanto se l'assegnazione di un premio intitolato a Hemingway non lo ritenga inappropriato: sia fuori luogo. «Oh, no, no, no! La mia affinità con Faulkner nulla toglie al rispetto che ho per l'opera di Hemingway, che ho sempre induso nei miei corsi quando insegnavo a Haifa e poi anche a Chicago. E, in fin dei conti, in Italia, dove vengo sempre volentieri, ho ricevuto altri premi intitolati a scrittori diversi come il "Flaiano" e il "Giovanni Boccaccio". Gli scrittori non si escludono mai a vicenda».

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