mercoledi` 15 maggio 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


Clicca qui






Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
08.06.2014 I Fratelli Oppermann, di Lion Feuchtwanger, un capolavoro da riscoprire
Recensione di Sergio Luzzatto

Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 08 giugno 2014
Pagina: 25
Autore: Sergio Luzzatto
Titolo: «Il dolore dei fratelli Oppermann»

Riprendiamo da DOMENICA/ILSOLE24ORE di oggi 08/06/2014, a pag.25, con il titolo "Il dolore dei fratelli Oppermann", la recensione di Sergio Luzzatto al libro  "I fratelli Oppermann" di Lion Feuchtwanger, ed.Skira.


Lion Feuchtwanger  la copertina    Sergio Luzzatto

<simultaneamente; ma non si vuol perdere neanche una pagina, da tutte le parti contemporaneamente si vorrebbe continuare, si riempie il volume di segnalibri». Recensione a suo modo entusiastica, quella uscita sulla «Rassegna mensile di Israel» - il maggiore periodico dell'ebraismo italiano - nell'autunno del 1934. E recensione imperativa («leggerlo è un dovere»), nonostante il volume in questione fosse «un libro di dolore». «La prosa di Lion Feuchtwanger costringe a leggerlo, tutto, prima di ogni altra urgente attività, quando lo si ha cominciato». il libro era un romanzo, I fratelli Oppenheim, pubblicato dalla casa editrice Querido di Amsterdam l'anno prima, cioè nello stesso 1933 che aveva segnato l'avvento di Hitler al potere in Germania. Di origini israelite, l'autore figurava tra i campioni più riconosciuti dell'incipiente diaspora intellettuale tedesca, di una cultura di Weimar che volente o nolente si disponeva all'esilio. E per quanto superasse le quattrocento pagine, il romanzo era un instant-book. Rappresentando la drammatica caduta di una famiglia di ebrei berlinesi, Feuchtwanger voleva rendere conto presso l'opinione pubblica occidentale dell'enormità - enormità morale prima ancora che politica - di quanto andava succedendo nella Germania delle camicie brune. Il libro di dolore era un grido di dolore. Grido immediatamente raccolto dagli editori d'Europa e d'America. Entro pochi mesi dall'uscita in tedesco nella Amsterdam del novembre '33, I fratelli Oppenheim (originariamente, I fratelli Oppermann) all'ultimo momento Feuchtwanger aveva dovuto cambiare titolo, per le minacce di un nazista tedesco di nome Oppermann) veniva tradotto e pubblicato in una decina di lingue. In francese, inglese, danese, norvegese, svedese, finlandese, polacco, boemo, ungherese, ebraico... Quanto al recensore italiano della «Rassegna mensile di Israel», l'antifascista milanese Guido Lodovico Luzzatto, il libro gli sembrava un «prodigio» soprattutto per la «rapidità» del gesto artistico di Feuchtwanger: per la capacità di fare letteratura con la più contemporanea e la più bruciante delle realtà. Fin dal titolo il romanzo alludeva al genere della saga familiare, nel quale aveva eccelso colui che nel 1933 si apprestava a divenire, da premio Nobel della letteratura, l'incarnazione di una libera Germania in esilio: il Thomas Mann dei Buddenbrook. Con la non trascurabile differenza che la dinastia di borghesi tedeschi è qui una dinastia di ebrei borghesi tedeschi, che la decadenza della famiglia si consuma qui nello spazio di mesi anziché di anni o decenni, e che la caduta di una singola famiglia coincide qui con l'annientamento di un'intera civiltà. I fratelli Oppermann sta agli ebrei d'Europa centrale come un altro capolavoro dell'epoca - I Fratelli Ashkenazi, pubblicato da Israel J. Singer nel 1936 - sta agli ebrei d'Europa orientale: il primo in tedesco, il secondo in yiddish, i due romanzi partecipano di un'unica, tragica profezia. II nonno dei fratelli Oppermann, Immanuel, aveva inaugurato le fortune familiari da fornitore dell'esercito tedesco durante la guerra franco-prussiana del 1870. Aveva poi fondato un'azienda, un mobilificio cresciuto nel tempo fino a diventare un autentico brand: modulari ed economici, gli arredi Oppermann avevano riempito le case della piccola borghesia guglielmina come quelli di un'Ikea ante litteram. Mezzo secolo più tardi, i suoi nipoti possono permettersi di fare anche altro che gestire l'azienda di famiglia. Si occupa della ditta soltanto uno dei fratelli, Martin, cercando abilmente di sottrarla ai rovesci della Grande Crisi. Il maggiore degli Oppermann, Gustav, coltiva sia i vezzi del dandy sia gli scrupoli dell'intellettuale (prepara, da anni, un'eruditissima biografia di Lessing). Quanto al minore, Edgar, fa l'otorinolaringoiatra a Berlino, e ha fama internazionale. I fratelli Oppermann è un grido di dolore sulla disintegrazione dell'umanesimo tedesco. Disintegrazione rapida, quasi fulminea nella percezione di tanti contemporanei, ebrei e non ebrei. All'inizio del libro - e siamo già al novembre 1932 - ancora il dottor Oppermann può farsi beffe di qualunque teoria delle razze: «"Non ho mai osservato", concluse sorridendo, "che la laringe di un cosiddetto ariano abbia reagito a certi stimoli diversamente da quella d'un semita"». Ancora suo fratello Martin può illudersi che l'azienda di famiglia verrà preservata grazie a qualche astuzia da commercialista, una riorganizzazione delle filiali e una ridenominazione societaria (Mobilificio Germanico). E ancora Gustav Oppermann può avere fiducia nell'interesse delle case editrici di cultura per una biografia di Lessing, l'autore filosemita di Nathan il Saggio. Ma a metà del libro - siamo al 28 febbraio 1933, all'indomani dell'incendio del Reichstag - il figlio di Martin, studente liceale, preferisce suicidarsi piuttosto che abiurare il contenuto della tesina, L'umanesimo e il secolo XX, che ha cercato di sostenere davanti a quel nazista del suo professore di tedesco. Mentre il preside del liceo, un galantuomo di lontane origini francesi, non trova più riparo neppure simbolico presso il busto di Voltaire che troneggia nel suo studio. L'autore del Mein Kampf non è forse divenuto, nel frattempo, il Cancelliere del Reich? E Markus Wolfsohn, il commesso più fidato della ditta Oppermann alla filiale della Potsdamerstraße, non deve forse levare il braccio e rispondere «Heil Hitler!» quando la sera, rientrando nel condominio popolare della FriedrichKarl-Straße, incontra sulle scale il suo vicino di pianerottolo, il signor Rüdiger Zarnke sottufficiale delle Sa? Consulente legale degli Oppermann, Arthur Mülheim vede più lontano dei suoi clienti ebrei: dopo lo scatenarsi dei proletari, al tempo della rivoluzione spartachista, e dopo lo scatenarsi dei grandi borghesi, che contro gli spartachisti avevano seminato il terrore, la Germania nazista avrebbe conosciuto lo scatenarsi dei piccolo borghesi, in confronto al quale tutto il resto sarebbe sembrato un paradiso! Tanto meno colto del professor Mülheim, anche il cognato del commesso Wolfsohn - Moritz Ehrenreich, compositore alle Grandi Tipografie Riunite - è lucido abbastanza da reagire in tempo: il 3 marzo 1933 s'imbarca da Marsiglia per la Palestina, dove conta di lavorare a un giornale sportivo ebraico di Tel Aviv. Perfino quella goffa ragazza che è Ruth, la figlia di Edgar Oppermann, dimostra una vista migliore del padre e degli zii nel momento in cui compie, a sua volta, la scelta sionista. Alla fine del romanzo, la rovina degli Oppermann è la condanna alla diaspora: «Martin va a Londra, Edgar a Parigi, Ruth è a Tel Aviv, Gustav, Jacques, Heinrich andranno chissà dove: sparpagliati sui mari del mondo, ai quattro venti». In altre parole, neppure un visionario come il Lion Feuchtwanger del 1933 era capace di immaginare sino in fondo quanto attendeva gli ebrei d'Europa, la Soluzione finale (o forse sì, in un singolo passo. Ma di sfuggita, terribilmente di sfuggita: «Gli Oppermann erano destinati a subire tutte le persecuzioni, a essere sterminati, era fatale e inutile opporsi»). In ogni caso, Feuchtwanger riusciva straordinariamente acuto nel rappresentare quanto il suo recensore italiano del 1934, Guido Lodovico Luzzatto, definiva come il «decadimento della dignità» nella Germania del nazismo. E forse anche per questo - perché era un libro di dolore sulla perdita dell'umana dignità - entro il giro di qualche anno la versione francese de I fratelli Oppenheim avrebbe trovato un lettore particolarmente attento, a Torino, nel giovane Primo Levi.
Lion Feuchtwanger, I fratelli Oppermann, traduzione di Ervino Pocar, Skira, Milano, pagg. 348, 20,00

Per inviare al Sole24Ore la propria opinione, cliccare sulla e-mail sottostante


letterealsole@ilsole24ore.com

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT