mercoledi` 15 maggio 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


Clicca qui






Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
02.03.2014 Quel che insegna il 'caso' Brasillach
Commento di Sergio Luzzatto

Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 02 marzo 2014
Pagina: 25
Autore: Sergio Luzzatto
Titolo: «L'antisemita irriducibile»

Anche un orologio guasto due volte al giorno segna l'ora giusta. Ci viene in mente nel riprendere dal SOLE24ORE- DOMENICA di oggi, 02/03/2014, a pag.25, con il titolo " L'antisemita irriducibile", l'articolo di Sergio Luzzatto, che spesso critichiamo su IC. Rievocare la vicenda di Robert Brasillach - come lui ha fatto - ci pare invece una operazione corretta, per ricordare sì la sua responsabilità intellettuale - e personale- con il nazismo insieme al fanatico antisemitismo che ha permeato tutta la sua opera letteraria. Importante è anche ricordare che Brasillach, fra i nomi famosi del collaborazionismo di Vichy, fu l'unico a pagare con la vita. Céline era fuga, altri trovarono testimoni a difesa, la maggior parte sfuggì alle accuse grazie all'appoggio di coloro che avevano nei propri armadi scheletri imbarazzanti. Ricordare quel periodo è importante, il pezzo di Luzzato è un buon strumento.

Brasillach durante il processo                             Sergio Luzzatto

Ecco l'articolo:

Si può collocare nella Germania del 2006 - nella Germania del caso Günther Grass - la fine simbolica di un "secolo lungo" degli intellettuali. Da giovane mi sono arruolato volontario nelle Waffen-SS, e finora non avevo mai avuto il coraggio di raccontarlo: la scandalosa confessione di colui che per mezzo secolo era sembrato, dentro e fuori i confini tedeschi, l'incarnazione stessa di una coscienza antifascista, quella confessione di Grass ha posto fine al secolo lungo dell'Occidente che era simbolicamente iniziato, nella Francia del i898, non già con un atto di contrizione ma con atto di denuncia: il «J'accuse» di Émile Zola nell'affare Dreyfus. In mezzo, cent'anni e passa di qualcosa che resta difficile da definire, ma che pure risulta oggi evidente in absentia: salta agli occhi perché non c'è più. In mezzo un mondo che abbiamo perduto (purtroppo o per fortuna) nel quale gli intellettuali ritenevano di avere, e si vedevano riconoscere, un mandato peculiare nella società. In mezzo il mondo di Max Weber e dell'intellettuale di professione, di Julien Benda e del tradimento dei chierici. In mezzo un mondo di cui la Francia del Novecento parrebbe avere posseduto la chiave, e che unicamente oltralpe si prolunga ancora oggi nelle figure dei Bernard-Henri Lévy o degli Alain Finkelkraut, epigoni insostenibilmente leggeri di Sartre o di Camus, di Aron o di Foucault. Il suicidio morale di Günther Grass va considerato tanto più rappresentativo della fine di un'epoca, in quanto il secolo lungo degli intellettuali ha compreso fra i suoi ingredienti essenziali proprio la confessione dei peccati politici. Come nel libro feticcio dell'anticomunismo da guerra fredda, "l Dio che ha fallito". Dove il fior fiore occidentale degli intellettuali di partito e dei «compagni di strada», da Gide a Koestler e da Silone a Spender, si stracciava le vesti per avere creduto nel comunismo. O come in quell'altro libro che fece epoca nell'Italia del miracolo economico," La coda di paglia" di Guido Piovene. Dove lo scrittore vicentino indugiava diffusamente sui propri trascorsi di intellettuale fascista, senza tacere neppure del ruolo di «propagandista del male» antisemita: al momento delle leggi razziali, nel 1938, aveva incensato il libello "Contra Judaeos" di Telesio Interlandi, fondatore e direttore del periodico «La difesa della razza». Dopo la sconfitta dei fascismi e la scoperta della Soluzione finale, moneta assai meno corrente della palinodia rugiadosa è stata la rivendicazione orgogliosa di un passato da intelletmale fascista e antisemita. Come stupirsene? Non potevano essere molti gli scrittori di riconosciuto talento che dopo il 1945 osassero ribadire, insieme al loro credo filo-mussoliniano o filo-hitleriano, la convinzione che l'aria d'Europa riuscisse tanto più pulita quanto meno venisse inquinata dal fiato e dall'olezzo dei giudei. Ma almeno uno se n'è contato, di scrittori di tal genere. Ed è quanto fa l'interesse retrospettivo del suo caso anche adesso che il secolo lungo degli intellettuali si è concluso. Quello scrittore è stato il francese Robert Brasillach. Un carneade, Brasillach, nell'Italia di oggi. E in Francia pure, o quasi. Mentre il suo nome era sulla bocca di tutti nella Parigi liberata del 19 gennaio 1945, quando una corte straordinaria di giustizia lo sottopose a processo - la guerra non era finita, Hitler governava ancora a Berlino e la Francia dell'est restava occupata dait edeschi - per«intelligenza col nemico». Quel giorno, un pubblico ministero che aveva diligentemente lavorato per il regime di Vichy richiese la pena di morte contro Brasillach. E una giuria composta di partigiani della Resistenza lo riconobbe colpevole nel giro di poche ore. La condanna a morte venne applicata entro un paio di settimane: dopo che decine di scrittori francesi tra i maggiori si erano vanamente appellati al generale De Gaulle per un estremo gesto di demenza, e dopo che De Gaulle aveva sdegnosamente respinto la domanda di grazia dello stesso Brasillach.Il 6 febbraio 1945 a Montrouge, davanti al plotone d'esecuzione, lo scrittore trentacinquenne rifiutò di farsi bendare e trovò la voce per gridare: «Viva la Francia, nonostante tutto!». Sotto l'occupazione tedesca Brasillach era stato il direttore di «Je suis partout», il più ambizioso e il più fortunato dei periodici collaborazionisti. All'apogeo del 1942, 250.000 copie di tiratura per paginate di elogi politico-letterari del Führer, del Terzo Reich, della persecuzione e della deportazione degli ebre. In particolare, sulle colonne di«Je suis partout» Brasillach aveva settimanalmente pubblicato una rubrica anonima dove si rivelava il falso nome, l'indirizzo, il nascondiglio dell'uno o dell'altro individuo braccato dalla Gestapo o dalle polizie di Vichy: intellettuali antifascisti, partigiani comunisti o gaullisti, israeliti francesi o stranieri. Una rubrica della delazione. II Memorandum. "La mia autodifesa" che Brasillach scrisse incarcere alla vigilia del processo - e che le edizioni Medusa propongono adesso in traduzione italiana, a cura di Riccardo De Benedetti, con una notevole introduzione di Emanuele Trevi (pagg. 80, 11,00 ) - è un documento quasi unico nel canone delle auto-apologie novecentesche, Brasillach dimostrando appunto il coraggio di assumersi le proprie responsabilità piuttosto che la codardia di negarle. Non che si vantasse di avere precipitato, attraverso la delazione, la disgrazia o lo sterminio degli ebrei (riguardo a questi ultimi Brasillach era arrivato a scrivere, nel 1942, che bisognava «separarsi dagli Ebrei in blocco, e senza conservare i piccoli»). Ma ancora nel gennaio 1945, da imputato di collaborazionismo, Brasillach pensava bene di insistere sulla gravità del problema ebraico nella Francia del suo tempo, iscrivendosi con fierezza in una tradizione antisemita francese che faceva risalire a Voltaire. Impregnato di letterarietà fino al midollo, probabilmente Brasillach non cercava altro che la bella morte. E a suo modo la trovò, diventando - unico grande scrittore di Francia fucilato per «intelligenza col nemico» - una strana specie di eroe nibelungico per i nostalgici esagonali del fascismo. In ogni caso, il suo Memorandum contiene pagine non banale per riflettere alla classica distinzione weberiana fra etica dell'intenzione e etica della responsabilità. Uno scrittore è responsabile delle funeste conseguenze delle sue parole anche se le sue mani delicate di intellettuale restano candide, nette di sangue? SI, uno scrittore è comunque responsabile, sosterrà il pubblico ministero nel processo Brasillach. Si, uno scrittore è sempre responsabile, sosterrà Jean-Paul Sartre rifiutando di firmare l'appello a De Gaulle per un gesto di clemenza. Si, uno scrittore è particolarmente responsabile, sosterrà De Gaulle stesso nelle sue Memorie, «perché il talento è un titolo di responsabilità». No, uno scrittore è responsabile unicamente delle sue opinioni, non degli atti che altri commettono richiamandosi a queste, sostiene il Brasillach del gennaio 1945 nel momento in cui pure rivendica il proprio pensiero di fascista e di antisemita. Da italiani, noi potremmo provare a immaginare un'Italia della Liberazione che avesse avuto la forza di processare e di condannare a morte un intellettuale simbolo del fascismo e dell'antisemitismo esattamente in quanto simbolo: come si sceglie e si sacrifica un capro espiatorio. Telesio Interlandi, per dirne uno. Forse quello che più di tutti l'avrebbe meritato, il Brasillach de noantri. Ma dovremmo accontentarci dell'immaginazione, poiché l'Italia della Liberazione fu anche, com'è noto, quella dell'epurazione mancata. D'altronde, in Italia un capro dell'intellighenzia fascista era stato sacrificato giù durante la Resistenza. Senza neppure il simulacro di un processo politico, e senza neppure che si trattasse di un capro antisemita. Avevano provveduto i partigiani gappisti nella Firenze dell'aprile 1944, freddando a bruciapelo Giovanni Gentile. Colpirne uno per educarne cento.

Per inviare al Sole24ore la propria opinione, cliccare sulla e-mail sottostante 


letterealsole@ilsole24ore.com

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT