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Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
17.11.2013 Il fotografo di Auschwitz
Recensione di Roberto Escobar, che paragona Auschwitz a Abu Graib

Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 17 novembre 2013
Pagina: 44
Autore: Roberto Escobar
Titolo: «Con orrore e con dignità»

Sul SOLE24ORE-DOMENICA, di oggi, 17/11/2013, a pag.44, con il titolo "Con orrore e con dignità ", Roberto Escobar recensisce il libro di Luca Crippa e Maurizio Onnis " Il Fotografo di Auschwitz ", Piemme ed.
La recensione di Escobar ha una caduta, inaccettabile e vergognosa, quando paragona Auschwitz alla prigione di Abu Graib, mai avevamo letto un paragone simile. Quelle righe sporcano la storia che Crippa e Onnis raccontano nel loro libro.

La copertina del libro

C'è più d'un modo di leggere "II fotografo di Auschwitz." II primo è quello della «simpatia» per Wilhelm Brasse, che per quasi cinque anni sopravvisse nel Lager  fotografandone le vittime, e talvolta anche gli aguzzini. Traendola dalle sue memorie, ne raccontano la storia Luca Crippa e Maurizio Onnis.
Nato nel '17 a Zywiec, da padre austriaco, nel '39 Brasse tentò di fuggire in Francia. Catturato nel marzo del'40, per cinque mesi rifiutò di unirsi ai nazisti.Il 31 agosto fu deportato ad Auschwitz, dove rimase fino al gennaio del '45. Trasferito in Austria, nel campo di Ebensee, all'inizio di maggio fu liberato dagli Americani. Quel 31 agosto, dunque, nello stesso trasporto di Brasse c'erano altri 437 deportati, quasi tutti destinati a morire in poche settimane. Identica sorte sarebbe toccata a lui, se una SS, I'Oberscharfiirer (maresciallo) Bernhard Walter, non lo avesse incaricato di fotografare gli internati. Alla burocrazia nazista occorreva certificare i numeri e i volti dello sterminio. Questo è, almeno in parte, il libro di Crippa e Onnis: il racconto del lavoro di Brasse, costretto a documentare per 50.000 volte la degradazione di uomini e donne, prima ebrei e poi polacchi. Qui interviene la nostra simpatia, dando alla parola il significato che indica Adam Smith: capacità di sentire il dolore dell'altro come se fosse nostro, e come se ci trovassimo nella situazione in cui l'altro si trova.
Si tratta però di un'illusione. La sofferenza dell'altro è profondamente dell'altro, chiusa in lui. Noi possiamo solo immaginarla, ingannandoci. E tuttavia la simpatia, la splendida illusione della simpatia, è alla base della nostra sensibilità morale.
Leggendo II fotografo di Auschwitz, proprio su questa base soffriamo la sofferenza di Brasse, come se anche noi puntassimo una Zeiss contro volti e sguardi annichiliti, o magari pieni di sorpresa, ancora increduli. La stessa simpatia prova il fotografo per gli uomini e le donne che ha di fronte. Sa come moriranno. E sa di non poterglielo evitare. Ma qualcosa può fare: può dare loro l'ultima dignità, quella di un ritratto che ne preservi la singolarità, contro la logica omologante della macchina di morte.
Per questo, da ottimo fotografo, utilizza come può la poca luce di cui dispone nella sua baracca, e ritocca le foto con le matite che si procura di nascosto. Lo fa perché un ipotetico «esploratore del futuro» capisca «di avere davanti uomini e donne, non bestie». C'è poi un secondo modo di leggere II fotografo di Auschwitz: inorridendo di fronte alla disumanità fredda di Walter e dei suoi superiori, e alla ferocia dei Kapo.
Tra i committenti di Brasse ci sono anche Josef Mengele, Johann Paul Kremer, Eduard Wirths e Carl Clauberg, tutti e quattro ufficiali e medici. Clauberg costringe Brasse ad atroci foto dei suoi esperimenti ginecologici (dopo la guerra non sarà neppure processato). Wirths, meno direttamente cruento, colleziona ritratti di donne con occhi bicolori (catturato dagli Inglesi, morirà suicida). Kremer vuole le foto dei fegati degli Ebrei che uccide, subito dopo averli uccisi (condannato a morte, la pena gli sarà commutata nell'ergastolo, e nel '60 sarà liberato). Mengele è il più tranquillo e gentile. Lo si direbbe un accademico alle prese con la sua ricerca. Come gli altri, e più degli altri, è certo di lavorare per una nuova umanità. È il Bene assoluto, quello che intende servire quando infierisce su poveri corpi di «razza inferiore» (dopo la guerra, fuggirà in America Latina, e là morirà nel 1979, libero).
Perché i medici, le SS e i Kapo non provano alcuna simpatia per le loro vittime? Sono malati? Sono dei mostri? Nei decenni seguiti allo sterminio, molte risposte sono state date, alcune sensate. Implicitamente, il libro di Crippa e Onnis ne suggerisce una. Walter e gli altri amano far fotografare l'inferno su cui regnano,e anche far fotografare se stessi in quell'inferno.
Ebbene, che cosa li spinge al loro narcisismo fotografico? In questa domanda sta il terzo modo di leggere II fotografo di Auschwitz, meno immediato dei primi due, ma non meno proficuo.
I nazisti, dunque, raccolgono in buona, in ottima coscienza le immagini dei loro crimini, e ne sono orgogliosi. Così capita con le foto degli internati, che Walter pretende siano «belle». Così capita con un film che documenta il primo uso del Zyklon B (molto soddisfatto, Walter lo fa proiettare a Brasse, vietandogli di serrare gli occhi). E così capita con i loro ritratti, che il polacco deve realizzare al meglio, usando ottime matite da ritocco. Le mostreranno, quelle foto, a parenti e amici, a testimonianza della qualitàe del livello del loro «lavoro».
A noi pare che qui stia il senso profondo dell'entusiasmo con cui migliaia di esseri umani hanno infierito su milioni di esseri umani. Per capire, si abbandonino i persecutori nazisti, e si torni con la memoria alle foto prese nella prigione di Abu Ghraib, in particolare a quelle che Charles Graner e Sabrina Harmon si sono scattati a vicenda, chini al di sopra del cadavere dell'iracheno Manadel al-]arcadi, steso a terra in un sacco nero e copertodi ghiaccio. Tutti e due allungano il pollice destro, in segno di vittoria. Sono malati o folli? Sono dei mostri? O più semplicemente sono convinti d'aver fatto a good job, un buon lavoro, degno d'essere mostrato negli anni futuri ai figli e ai nipoti?
Non c'è simpatia, in loro, né ci potrebbe essere. Nel loro mondo, nelle parole e nelle idee del loro mondo, Manadel al-]arcadi non è un essere umano, ma una cosa, o peggio. Non costa loro niente degradarlo. Anzi, se ne sentono in dovere. E tutto avviene in buona coscienza. Proprio come documenta ll fotografo di Auschwitz.

Luca Crippa, Maurizio Onnis- Il Fotografo di Auschwitz, Piemme ed.

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