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Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
25.11.2012 Ebraismo laico: la sua storia. Ma il titolo chi l'ha fatto ? Tramballi o Negri ?
Commento di Giulio Busi

Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 25 novembre 2012
Pagina: 28
Autore: Giulio Busi
Titolo: «Il Talmud in soffitta»

Sul SOLE24ORE di oggi, 25/11/2012, a pag. 28, con il titolo "Il Talmud in soffitta", Giulio Busi recensisce il libro:  Irene Kajon, Ebraismo laico. La sua storia e il suo senso oggi, Cittadella, Assisi, pagg. 182, € 16,50.
Non si capisce perchè titolarlo " Il Talmud in soffitta", a meno che nella redazione del Domenicale cultura non si siano intrufolati Ugo Tramballi o Alberto Negri...
Ecco l'articolo:

in alto Giulio Busi, in basso la copertina del libro

Dove comincia l'ebraismo laico? Probabilmente nel deserto, tra i preparativi febbrili di una carovana che sta per mettersi in moto. "Poi Abramo partì, proseguendo da un accampamento all'altro" (Gen. 12. 9). Nomade non per scelta propria ma su preciso ordine divino, il patriarca accetta questa continua dislocazione come un fato e una misteriosa opportunità: «Il Signore disse ad Abramo: vattene dal tuo paese, dai tuoi parenti, dalla casa di tuo padre». E lui, ubbidiente, lascia tutto e porta con sé la propria identità, si direbbe che l'avvolga assieme alle masserizie e ai beni che gli appartengono. Abramo non è certo un sacerdote. È un mercante, e – diremmo oggi – è un laico e un apolide. Dialoga però con Dio, anzi questi lo cerca, lo istruisce e lo mette alla prova, e gli affida compiti religiosi, a volte terribili, come quello di sacrificare Isacco.
La figura di Abramo, con il suo carico di inquietudine e di estraneità, è cifra di un ebraismo a un tempo arcaico e modernissimo. È lui l'antesignano della diaspora, vissuta con partecipazione e intelligenza. Il suo esempio, iscritto del cuore della Bibbia, serve anche a sfatare il cliché semplicistico di un esilio sempre lacrimevole e sventurato. Abramo vive nella distanza e nella diversità, e sa trarne vantaggio, tanto per cercare nuove possibilità economiche quanto per crescere interiormente. La sua non-appartenenza gli permette di reagire più velocemente alle avversità: "Venne una carestia nel paese, e Abramo scese in Egitto per soggiornarvi, perché la fame era grande nel paese". La mobilità è per lui anche dinamismo intellettuale. Non a caso, nella qabbalah, il "Vattene", che gli è stato ingiunto dal Signore, viene interpretato come una discesa nell'anima. In ebraico, "vattene" è "lek leka", letteralmente "vai a te stesso", invito perentorio a lasciare, assieme ai luoghi familiari, anche i pregiudizi e la rigidità mentale, per aprirsi alla novità e alla sfida dell'ignoto. Certo, un perenne migrante è anche esposto all'insicurezza e alla precarietà. Abramo, per quanto prospero, rimane sempre uno straniero, costretto a difendersi da soprusi e minacce giocando d'astuzia, spesso in maniera spregiudicata. Il ciclo di Abramo può essere preso a simbolo di un modo di concepire e vivere l'ebraismo. Da laici, irregolari e outsider. Lo scarto metaforico è d'obbligo (gli autori biblici non avrebbero certo usato – né potuto comprendere – il nostro aggettivo "laico") ma ben si capisce come il giudaismo impersonato dal patriarca sia duttile, portatile, e - per concederci un anacronismo - "globalizzato".
A ben guardare, proprio questa marginalità abramitica è fermento vitale dell'avventura giudaica. Nel 1919 una rivista americana chiese al sociologo Thorstein Veblen di scrivere un saggio su come la "produttività giudaica" sarebbe cambiata qualora gli ebrei avessero avuto un loro Stato. Era l'epoca in cui il sionismo cominciava ad affermarsi, e sembrava naturale che, nel nuovo Paese, la creatività ebraica si sarebbe sviluppata in maniera rigogliosa. Ma Veblen, che era un anticonformista incallito, avanzò una tesi provocatoria. La forza degli ebrei – scrisse – deriva dalla loro precarietà. Se dalle fila ebraiche escono molti dei protagonisti più innovativi dell'età moderna, è proprio perché manca loro il sostegno della normalità. Situato in una terra di confine, privo di garanzie sul proprio futuro, l'ebreo è "libero dal quietismo intellettuale". Desideroso di lasciarsi alle spalle il proprio retaggio religioso, incline al laicismo, e allo stesso tempo insofferente dei valori della società maggioritaria, l'intellettuale di provenienza ebraica usa il proprio scetticismo per scuotere le acque della cultura, per innovare e muoversi controcorrente. Senza marginalità, sostiene Veblen, non c'è vera forza creativa, e il giudaismo è il miglior esempio di come incertezza esistenziale e capacità critica vadano assieme. Non occorre dire che l'articolo fu rifiutato dalla rivista che lo aveva commissionato, e Veblen fu tacciato di antisemitismo, per aver sostenuto che uno Stato indipendente avrebbe soffocato la cultura giudaica, segregandola in una sorta di ghetto autoimposto. A parte le polemiche di allora, la genesi e l'effettiva natura dell'ebraismo laico rimangono un tema fondamentale del dibattito sulla modernità. Irene Kajon, che ripercorre in un libro recente le tappe storiche del problema, è convinta che la vocazione della laicità sia quella di "evitare i due opposti rischi del totalitarismo di una trascendenza che annulla l'indipendenza dell'umano e del totalitarismo di un'immanenza che assorbe in sé ogni traccia del divino". Il contrasto con l'interpretazione di Veblen è evidente. Mentre questi poneva l'accento sulla decostruzione del sistema di certezza religiose, Kajon vuol riportare l'esperienza laica nell'alveo della tradizione, con un sostanziale concordismo, in cui "ebraico" viene prima, e conta di più, di "laico". La chiave ermeneutica è in questo caso, offerta dalla morale, e si percepisce chiaramente l'eredità del giudaismo kantiano di Hermann Cohen, secondo cui "il monoteismo crea con la divinità una anche la moralità una". Non c'è dubbio che una simile lettura del giudaismo, come etica che si fonda sul divino e si esplica nel qui e ora dell'umano, abbia una sua legittimità storica. Restano però in secondo piano, o vengono addirittura rimossi, il retaggio di nomadismo intellettuale, l'energia dissacrante dello scetticismo, l'essere altrove che hanno fatto dell'esperienza giudaica uno straordinario motore di innovazione. Si dirà che questi ebrei ai margini, o proprio al di fuori di ogni appartenenza - basti tra tutti Baruch Spinoza - sono stati negatori della loro origine, ed esulano quindi da una storia intellettuale propriamente ebraica. Ma come sapeva Abramo, tra una tappa e l'altra, nell'arsura, è facile smarrire la via, per poi ritrovarsi in un luogo nuovo e inatteso, ben lontani dalla meta.

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