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Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
18.02.2011 Turchia, un modello da non imitare
Ma per Manlio Graziano è vero il contrario

Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 18 febbraio 2011
Pagina: 14
Autore: Manlio Graziano
Titolo: «Modello turco per il Nordafrica»

Riportiamo dal SOLE 24 ORE di oggi, 18/02/2011, a pag. 14, l'articolo di Manlio Graziano dal titolo "Modello turco per il Nordafrica".

Manlio Graziano crede che in Egitto il modello vincente non sarà quello dei Fratelli Musulmani, ma quello della Turchia di Erdogan. Questo dovrebbe rassicurare i lettori  del SOLE24ORE? Per quanto riguarda i rapporti con Israele e il Medio Oriente, è a causa di Erdogan se la Turchia è entrata a far parte dell'orbita iraniana diventando ostile a Israele. Per quanto riguarda l'aspetto islam, non si può sostenere che il modello turco sia democratico. Alcuni scrittori sono sotto processo per aver scritto frasi considerate offensive da un punto di vista islamico. Certo, in Turchia non c'è ancora la sharia, ma è solo questione di tempo. La Turchia è il volto 'accettabile' dell'islamismo fondamentalista.
Ecco l'articolo:


Manlio Graziano

Nei dibattiti che accompagnano le crisi tunisina ed egiziana, molto si parla di Islam, e troppo poco di relazioni internazionali. O piuttosto, si direbbe che le preoccupazioni di politica internazionale riguardino solo le cancellerie, e che l'Islam, al contrario, ci riguardi tutti di persona.

È una rappresentazione che snatura lo stato delle cose, ma che, contrariamente a quel che potrebbe sembrare, tende a rassicurarci: l'islamismo è una minaccia - per quanto vaga - con cui ci siamo abituati a convivere. Con lo stravolgimento delle relazioni internazionali, invece, no.

Non sarà facile, ma bisogna mettersi il cuore in pace: gli anni a venire porteranno con sé cambiamenti radicali nei rapporti tra le potenze. Gli istituti specializzati (da ultimo PwC e Hsbc) fanno a gara per indovinare la data esatta in cui la Cina sorpasserà gli Stati Uniti, e in cui l'E7 (le economie emergenti: Cina, India, Brasile, Russia, Messico, Indonesia e Turchia) prenderà lo spazio oggi occupato dal G7. Nessuno si chiede "se"; tutti si chiedono, semplicemente, "quando".

Questa è la vera ragione per cui, da noi, gli avvenimenti egiziani sono vissuti più con sentimenti d'inquietudine che di solidarietà. La crisi finanziaria del 2008 ha infatti dimostrato a chiunque che, nella nostra società, il "Butterfly effect" esiste per davvero: se i prestiti immobiliari facili delle banche del Wisconsin hanno portato a un aumento della disoccupazione in Grecia o in Irlanda, che cosa può succedere con una rivoluzione popolare in un paese dirimpettaio come l'Egitto?

Da alcuni anni la Cina si sta stabilmente impiantando in Africa, e non è difficile immaginare che il suo enorme potenziale finisca prima o poi per avere delle conseguenze politiche. Non è detto che sia già il caso oggi in Tunisia e in Egitto. Sarebbe invece il caso, oggi, di considerare quali possano essere le conseguenze politiche su questa regione della crescita turca, di cui invece quasi nessuno parla.

Nel cercare d'individuare un core state per la sua immaginaria "civiltà musulmana", e dopo aver scartato per varie ragioni pretendenti titolati come Arabia Saudita, Indonesia, Pakistan, Iran e lo stesso Egitto, Samuel Huntington puntava il dito sulla Turchia: stanca di essere «eterno postulante alle porte dell'Occidente», scriveva Huntington nel 1996, Ankara potrebbe alla fine riprendere almeno in parte quel ruolo «d'interlocutore principale dell'Islam» dismesso all'atto dell'abolizione del califfato nel 1924. Un'potesi non poi così lontana dalla "profondità strategica" di cui parla (e su cui agisce) Ahmet Davutoglu, ministro degli Esteri turco.

Naturalmente Davutoglu si guarda bene dal fare dell'Islam il perno della sua politica, e non crede alla "civiltà musulmana" à la Huntington: neppure nei suoi giorni più fausti, l'impero ottomano soccorse i correligionari attaccati in Spagna come a Sumatra.

Ma due cose son fuor di dubbio: la prima è che nel vicinato su cui Ankara aspira a estendere la sua influenza "pacificatrice", il Medio Oriente occupa un ruolo precipuo; la seconda, che nel Medio Oriente in ebollizione l'originale mix turco di sviluppo, laicità e islamismo è sempre più attraente.

In realtà, è questa la connessione decisiva tra Islam e gli avvenimenti in Africa del Nord. L'Islam che potrebbe avere una maggiore influenza sull'Egitto, a medio e lungo termine, è più quello - in sordina, ma non troppo - di Erdogan e Davutoglu che quello dei Fratelli musulmani, o di Ahmadinejad e Khatami.

Questo rimescolamento di carte nella politica internazionale è, agli occhi degli occidentali, tanto più inquietante quanto più è volubile e inafferrabile. È comprensibile quindi che, come oggetto di preoccupazione, il senso comune ne preferisca un altro, i cui contorni gli sembrano più delineati: l'Islam.

In realtà, se solo ci si dà la pena di grattare un poco l'etichetta, ci si rende conto che l'oggetto in questione è ancora più sfuggente. Dal VII secolo, la pratica sociale e i "dottori della legge" hanno dato origine a centinaia di forme diverse d'Islam. Gli stessi Fratelli musulmani sono, dagli anni 60, divisi in almeno tre gruppi: quelli che condannano l'intera società come apostata; quelli che lanciano l'anatema solo sui dirigenti "occidentalizzanti"; e quelli che predicano pacificamente un rispetto più integrale della religione.

Ciò che li accomunava era il rifiuto del nazionalismo arabo, in nome dell'universalismo musulmano, e della democrazia occidentale, in nome della legge islamica. I loro rappresentanti alle trattative col governo hanno accettato di discutere di riforme costituzionali per il "bene supremo della patria": una quarta tendenza che, però, non ha più nulla a che fare con le altre tre.

Mettersi il cuore in pace significa anche fare i conti con una realtà che si trasforma sotto i nostri occhi e che di continuo svuota e riempie di nuovi contenuti realtà che ci parevano immutabili. Come, ad esempio, Stato, religione, e loro eventuale separazione.

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