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Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
19.09.2010 Bibbia di Aleppo, intricata spy-story
Nel racconto di Giulio Busi

Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 19 settembre 2010
Pagina: 32
Autore: Giulio Busi
Titolo: «Bibbia di Aleppo, intricata spy-story»

Sul SOLE24ORE (Domenicale) di oggi, 19/09/2010, a pag.32, Giulio Busi racconta in un articolo dal titolo " Bibbia di Aleppo, intricata spy-story " la storia di un prezioso manoscritto, sparito, custodito in una sinagoga, scampato all'incendio e trafugato con i formaggi per mano di Israele.
Il libro che ne racconta la storia è " Crown of Aleppo, the mistery of the oldest Hebrew Bible " di Hayim Tawill e Bernard Schneider, Jewish Pubblication Society, Philadelphia, $ 45.
Ecco il pezzo:


Giulio Busi            Pagina dal Codex Aleppo

Per un popolo disperso ai quattro angoli del mondo, un libro può valere quanto il più prezioso dei tesori, e quello era un codice davvero speciale. Secondo la leggenda, era stato scritto da Ezra in persona, ed era senz'altro il più accurato manoscritto biblico che si conoscesse. In verità, il codice non era antico come si diceva, ma era pur sempre il più autorevole testimone di tutta la Bibbia ebraica. Lo avevano confezionato, con cura quasi sovrumana, due famosi maestri del X secolo, probabilmente a Tiberiade: il copista Shelomoh ben Buya'a e Aharon ben Mosheh ben Asher, un sommo esperto di grammatica, che ne aveva corretto la vocalizzazione.

Per qualche anno sembrò fosse andato perduto per sempre, ma nel 1957-58 Murad Faham, un commerciante di formaggi di Aleppo, riuscì a trafugarlo dalla Siria per consegnarlo a Itzhak Ben Zvi, presidente di Israele ed esperto della diaspora orientale, che per ritrovare il rarissimo manoscritto aveva mobilitato i servizi segreti e la rete diplomatica dello Stato ebraico, nato da appena una decina d'anni.

Quando era stato contattato dall'addetto militare israeliano a Teheran, Murad aveva intuito che il rischio era grande, ma non aveva pensato neppure per un attimo di rifiutare. Era sempre stato pronto a rischiare per il bene della comunità, e certo non si sarebbe tirato indietro nemmeno quella volta. Del resto, da giovane si era mescolato ai beduini per comprare e vendere il latte dei nomadi e molti lo avevano ritenuto uno sconsiderato, lui un ebreo di città che si era messo in testa di fare da intermediario tra i commercianti musulmani e quei pastori fieri e intrattabili. Ma aveva avuto successo ed era diventato, a poco a poco, un facoltoso imprenditore.

A quell'epoca gli ebrei erano ancora rispettati e la vita nel quartiere di Bahasita era serena. Poi erano scoppiati ad Aleppo i primi torbidi antisemiti. Anche questa passerà – dicevano i vecchi ebrei, che ne avevano viste molte – e invece la situazione era andata peggiorando, fino al '47. Il 30 novembre di quell'anno, la notizia della spartizione della Palestina, decisa dalle Nazioni Unite, si era diffusa in un baleno e una folla di scalmanati s'era riversata nelle strade abitate dagli ebrei. Per quattro giorni erano dovuti restare nascosti in casa. Molti edifici ebraici erano stati saccheggiati e dati alle fiamme e il rogo aveva distrutto anche la Grande sinagoga, antica di millecinquecento anni.

Dopo la tempesta Murad era voluto restare. Sebbene le autorità si fossero fatte ostili verso gli ebrei, per via della creazione dello Stato d'Israele, il suo passaporto iraniano gli garantiva una certa protezione persino lì, in Siria. Anzi si era dato da fare per procurare documenti falsi a quelli che volevano emigrare, finché un informatore lo aveva denunciato, e la polizia lo era venuto a prendere. Lo avevano picchiato per una settimana e per fortuna si era messo in mezzo il console dello Scià a Damasco. Sarina, la moglie, se lo era visto tornare a casa malconcio ma vivo, e aveva sperato in cuor suo che almeno gli fosse servito di lezione. E invece no, non si era messo tranquillo.

Nel 1955 lo avevano espulso, ed era stato costretto a rifugiarsi con la famiglia a Teheran, senza un soldo e solo con i vestiti che aveva addosso. Eppure Murad aveva cominciato a tempestare di richieste il Governo iraniano, perché voleva tornare nella sua Aleppo, almeno quel tanto che bastava per sistemare gli affari, pagare i debiti e farsi dare quello che gli spettava.

Chissà come, i diplomatici israeliani erano venuti a saperlo. Qualcuno doveva avere esaminato il suo profilo e deciso che Murad Faham era l'uomo adatto per quella missione. L'attaché gli aveva lasciato capire che la faccenda premeva molto alle alte sfere. Sapeva chi era Ben Zvi, il presidente d'Israele? Murad aveva annuito. Certo, un politico ma anche uno studioso famoso, uno storico della diaspora nei paesi arabi. Ecco, gli avevano detto che il presidente in persona seguiva il caso, e lo considerava di grande importanza per il nuovo Stato. Era però indispensabile che Murad non ne facesse parola con nessuno a Teheran, e anche una volta arrivato a destinazione si muovesse con cautela. E se lo avessero scoperto, avrebbe dovuto prendersi la responsabilità per intero.

Ad Aleppo era potuto restare solo tre mesi, e proprio alla vigilia della partenza il rabbi glielo aveva consegnato. Per centinaia d'anni era stato il simbolo degli ebrei della città. Custodito gelosamente e anzi rinchiuso in uno scrigno di ferro, al riparo da occhi estranei. Il forziere aveva due chiavi, affidate a due membri influenti della comunità e si trovava nella cosiddetta "grotta di Elia", nella Grande sinagoga. Le donne incinte andavano a pregare davanti allo scrigno e a chiedere la grazia di un parto senza complicazioni, e chi era in lite prestava giuramento al suo cospetto, mentre i lumi rischiaravano appena l'oscurità umida di mistero.

I pochissimi che avevano avuto il privilegio di vederlo assicuravano che anche la scrittura con cui era vergato aveva proprietà straordinarie. A fissarlo con attenzione, sembrava che le lettere si staccassero dalla pagina per danzare nell'aria, come fiamme che volessero ritornare verso il fuoco divino da cui erano discese. Forse per questo, per preservare le proprietà mistiche del volume, era strettamente proibito fotografarlo. Nel 1943 lo studioso italiano Umberto Cassuto si presentò ad Aleppo per esaminarlo e fu addirittura perquisito, per evitare che portasse con sé, di nascosto, una macchina fotografica.

Al-Taj, la Corona – così chiamavano in arabo il manoscritto, per esprimere la sua somma autorità, rimasta inalterata nel tempo –, era sfuggito alle distruzioni dei Crociati nel 1099, quando un ricco mercante lo aveva riscattato a suon di monete d'oro, per portarlo a Fustat, la vecchia Cairo. Da lì, per una via misteriosa, era approdato ad Aleppo, e vi era rimasto per secoli, sotto guardia occhiuta. Nel 1947 la Grande sinagoga fu incendiata e si temette che anche il codice fosse andato distrutto. A Gerusalemme però non si erano dati per vinti, ed ecco che il manoscritto era rispuntato, sebbene danneggiato e mutilo.

L'idea era stata di Sarina, che non aveva trovato di meglio del sacco usato per i formaggi, buono per proteggere contro l'umidità. Come lei stessa raccontò più tardi in un'intervista alla televisione israeliana, aveva messo con cura il fagotto nella lavatrice e vi aveva aggiunto un sacchetto di semi di girasole, alcune cipolle e vestiti vecchi. Aveva pensato che molto probabilmente i doganieri non avrebbero avuto voglia di rovistare nel cestello, e aveva visto giusto.

Quando finalmente erano arrivati in Israele, l'involucro era intatto. Gli uomini dell'Agenzia Ebraica aspettavano impazienti e Murad aveva allungato al funzionario il sacco che pareva contenere formaggio. Eccolo, fu tutto quello che disse. Sapeva bene che, secondo la tradizione, se il manoscritto fosse stato portato via da Aleppo, la comunità sarebbe stata distrutta, ma era convinto che la sorte degli ebrei di Siria fosse comunque segnata.

Nell'incendio, o forse negli anni che seguirono, quando la Corona era restata nascosta chissà dove, quasi duecento preziosissimi fogli erano andati dispersi, bruciati o venduti. Ben Zvi non risparmiò gli sforzi per recuperare quanto mancava, e si dice se ne sia occupato anche il Mossad, ma dopo la morte del presidente, nel 1963, la caccia fu abbandonata. Lo Stato Ebraico aveva ormai altre priorità.

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