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Avvenire Rassegna Stampa
19.01.2021 Totale disinformazione contro Israele sul quotidiano dei vescovi
La ricostruzione che Massimo Campanini fa del conflitto arabo-israeliano è parziale, faziosa, omissiva

Testata: Avvenire
Data: 19 gennaio 2021
Pagina: 23
Autore: Massimo Campanini
Titolo: «'Terrasanta', cento anni in cammino»

Riprendiamo da AVVENIRE di oggi, 19/01/2021, a pag.23 con il titolo " 'Terrasanta', cento anni in cammino" il commento di Massimo Campanini.

La storia del conflitto arabo-israeliano raccontata da Massimo Campanini è faziosa, parziale, omissiva. La disinformazione comincia dal titolo - che riflette il contenuto dell'articolo - con la scelta del termine "Terrasanta" al posto di "Israele", una sostituzione tipica sulla stampa cattolica che  IC ha sempre segnalato.

Più in generale, ogni riga dell'articolo è un atto di accusa unilaterale contro Israele. Campanini, per esempio, sostiene che la guerra dei Sei giorni del 1967 vide "l'incancrenirsi del problema palestinese", omettendo che quel conflitto fu di sopravvivenza per lo Stato di Israele, minacciato dall'esercito egiziano - armato dall'Unione Sovietica - via terra e via mare. Israele vinse e così sopravvisse, e anni dopo accettò di restituire l'intero Sinai in cambio della pace con il Cairo: ma queste considerazioni nell'analisi di Campanini mancano. Nello stesso modo Campanini descrive tutti gli altri conflitti, la responsabilità dei quali viene fatta cadere unicamente sullo Stato ebraico. Un altro esempio serve a chiarire il modo di procedere dello "storico": "Nel giugno 1982, Israele scatenò la cosiddetta Operazione pace in Galilea con cui ufficialmente si voleva eliminare il pericolo della guerriglia palestinese annidata nel Libano meridionale". Niente o quasi viene detto del terrorismo tranne una fuggevole citazione della "lotta armata" (questo l'eufemismo scelto da Campanini) di Hamas. La totale disinformazione viene pubblicata in evidenza sul quotidiano dei vescovi.

Indignarsi è giusto, protestare è meglio: invitiamo i nostri lettori a scrivere al direttore di Avvenire (la e-mail è a fondo pagina) se non si vergogna a pubblicare le menzogne che abbondano nell'articolo di Campanini.

Ecco l'articolo:

IN MEMORIA DI UN AMICO: MASSIMO CAMPANINI
Massimo Campanini

Il 1967 e il 1993 sono state due date cruciali per la Terra Santa. Nel 1967 la guerra detta dei Sei giorni vide il consolidamento definitivo di Israele; la crisi mortale del nasserismo e del nazionalismo e socialismo arabo; l'incancrenirsi del problema palestinese che ormai non poteva avere più alcuna soluzione che prevedesse il prevalere definitivo di una parte sull'altra, ma neppure la possibilità della coesistenza di due Stati sullo stesso territorio. Nel 1993 a Oslo sembrava finalmente aprirsi uno spiraglio di pace autentica tra i contendenti, ma si trattò di un'occasione mancata. Tra questi due estremi il conflitto arabo-israeliano conobbe un'inevitabile progressiva radicalizzazione. [...] Nel giugno 1982, Israele scatenò la cosiddetta Operazione pace in Galilea con cui ufficialmente si voleva eliminare il pericolo della guerriglia palestinese annidata nel Libano meridionale dopo il Settembre nero. L'invasione avveniva nel contesto di una guerra civile, scoppiata nel 1975, che vedeva opporsi cristiani, soprattutto maroniti, e musulmani, soprattutto sciiti, appoggiati a loro volta dai palestinesi. La guerra fu complicata dall'attivarsi di schieramenti inediti. Israele chiese e ottenne l'appoggio delle falangi cristianomaronite di Bashir Gemayel e i falangisti, avendo ricevuto l'incarico dal comandante israeliano Ariel Sharon di occuparsi dei «terroristi» palestinesi, si dedicarono a una vendetta privata contro i rifugiati. Così ebbe luogo il massacro di Sabra e Shatila, un campo profughi in cui i falangisti uccisero trai 2.000 e i 2.500 civili inermi. Nel frattempo l'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), al vertice di Rabat del 1974, era stata formalmente riconosciuta dai Paesi arabi come la legittima rappresentante dei palestinesi e come un vero e proprio governo «in esilio». La dirigenza del leader carismatico Yasser Arafat andava trasformandosi e, pur senza rinunciare in linea di principio alla lotta armata, si poneva su un piano sempre più possibilista per quanto riguarda l'opzione diplomatica. Nel 1988, per esempio, proclamò di accettare le risoluzioni Onu 242 e 355, il che implicava il riconoscimento di Israele; ma sia quest'ultimo sia l'opinione pubblica internazionale ignorarono la profferta palestinese. Le condizioni della popolazione palestinese erano tuttavia progressivamente peggiorate. L'agricoltura conobbe una grave crisi a causa della difficoltà di accedere all'approvvigionamento idrico. I molti operai palestinesi che lavoravano in Israele erano sempre soggetti al timore del licenziamento. Inoltre, il governo israeliano aveva lanciato tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta una campagna di espropriazione e di colonizzazione delle terre arabe soprattutto della Cisgiordania. La prima intifada (sollevazione) scoppiò nei Territori palestinesi nel dicembre 1987 senza pianificazione. Essa venne denominata «intifada delle pietre» poiché ne furono protagonisti soprattutto giovani, addirittura bambini, che si opponevano ai carri armati israeliani con armamenti di fortuna, tra cui appunto anche le pietre. La rivolta, che presto divenne un consapevole movimento per l'indipendenza, creò però il terreno favorevole perla nascita di organizzazioni estremiste votate alla lotta armata, la più importante delle quali fu il gruppo islamista di Hamas. La novità era che queste organizzazioni facevano esplicito riferimento proprio all'islam che veniva brandito per lottare contro il nemico assoluto, Israele. Esse andavano a occupare gli spazi lasciati liberi dall'Olp che sembrava incapace di arrivare a conquistare l'indipendenza e che era sempre più minata dalla corruzione interna e dalle lotte di fazione. Quando scoppiò la prima intifada il governo israeliano era ancora presieduto da Yitzhak Shamir. Nonostante questi avesse parzialmente ammorbidito le sue posizioni sulla necessità di trattative, era rimasto adamantino nel rifiutarsi di congelare le colonie e gli insediamenti israeliani in territorio arabo e contrario a effettuare concessioni realmente significative. La durezza della rivolta palestinese e lo scoppio della prima guerra del Golfo (1991, innescata dall'invasione irachena del Kuwait) convinsero l'opinione pubblica internazionale che fosse necessario accelerare il processo di pace. Nell'ottobre 1991 il nuovo presidente americano George Bush senior, con l'appoggio del leader sovietico Michail Gorbaciov, riuscì a raccogliere attorno a un tavolo a Madrid i contendenti, ma l'incontro non sorti risultati positivi. Il Likud, però, perse le elezioni del 1992 e le redini del governo in Israele tornarono ai laburisti con Yitzhak Rabin come premier e Shimon Peres come ministro degli Esteri. Il concomitante arrivo alla Casa Bianca di Bill Clinton fece aumentare le speranze di una svolta positiva. Di fatto nel settembre 1993 si ebbe a Oslo, in Norvegia, una fitta serie di colloqui il cui primo risultato fu che Israele ammise in linea di principio che la questione palestinese non poteva essere risolta senza concessioni sul piano territoriale. Yasser Arafat, che pur riconobbe nella sostanza la legittimità dello Stato di Israele, difese strenuamente il principio della pace in cambio della terra, il che implicava nel medio o lungo periodo anche la nascita di uno Stato autonomo palestinese. Il clima favorevole prodotto dal riconoscimento reciproco di Israele e Olp condusse addirittura a un accordo di pace tra lo Stato ebraico e la Giordania, firmato nel 1994. Se il futuro si costruisce sul passato, il percorso appena tracciato non lasciava spazio a ottimismi - come l'evoluzione successiva avrebbe tristemente confermato. L'occasione di Oslo fu perduta perché non vi erano le condizioni di un avvicinamento tra le parti che implicasse rinunce dolorose ma inevitabili: per i palestinesi la rinuncia alla distruzione di Israele e al ritorno in patria di tutti i profughi; per Israele la rinuncia all'idea, speculare, che i palestinesi e i loro diritti potessero essere cancellati o ignorati soprattutto attraverso l'occupazione delle terre. L'equivoco pesa ancora oggi.

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