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Avvenire Rassegna Stampa
08.03.2019 La 'Pietà in terracotta' e i segreti del Talmud
Commento di Roberto Zanini

Testata: Avvenire
Data: 08 marzo 2019
Pagina: 11
Autore: Roberto Zanini
Titolo: «I segreti 'talmudici' dell'attribuzione di Doliner»

Riprendiamo da AVVENIRE di oggi, 08/03/2019, a pag. 11, con i titolo "I segreti 'talmudici' dell'attribuzione di Doliner", il commento di Roberto Zanini.

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Roy Doliner con la Pietà in terracotta

Per prima cosa non si tratta di una novità. In attesa di una a quanto pare prossima esposizione (ci si sta lavorando) a Bologna, città dove è segretamente conservata nel caveau di una banca, la Pietà in terracotta attribuita a Michelangelo è già stata esposta a Parigi nel 2014 in una grande mostra dedicata a "I Borgia e il loro tempo", curata da Claudio Strinati e Patrizia Nitti. Dopo tante titubanze, come racconta la stessa Nitti, venne disposta in una sala in perfetta solitudine, con la definizione di «attribuita a Michelangelo Buonarroti» e datata 1496. In realtà all'epoca, come ha ben spiegato qui sopra Marco Bussagli, l'attribuzione era contesa con studi contrastanti. Da una parte il citato Enrico Guidoni che in Andrea Bregno. Il senso della forma nella cultura artistica del Rinascimento sosteneva che «deve essere necessariamente attribuita a Michelangelo»; dall'altra Giuliana Gardelli che nel 2006 l'aveva attribuita a Bregno e poi nel 2010 aveva ribadito la sua teoria con ulteriori precisazioni in risposta a Guidoni. E però proprio da quella mostra parigina che la terracotta, michelangiolesca o no, ha tratto la grande visibilità odierna. Visibilità che in questi giorni è culminata con l'uscita del volume curato dal critico Claudio Crescentini e scritto a più mani, fra le quali quelle di Patrizia Nitti, della restauratrice Loredana Di Marzio e del critico e divulgatore israeliano, esperto di Talmud, Roy Doliner. Secondo la ricostruzione della Nitti, fu proprio l'incontro con quest'ultimo a convincere lei e Strinati che la terracotta aveva la dignità per essere esposta a Parigi con l'attribuzione al grande artista fiorentino. Ieri il libro è stato presentato a Roma nella sede dell'associazione Civitas, in piazza Venezia, in prossimità del palazzo e della piazza del Campidoglio, uno dei capolavori architettonici di Michelangelo. Per l'occasione Crescentini si è a lungo soffermato sullo stato dell'arte degli studi sulla terracotta, sia scientifici che storico-artistici: dalla lunga opera di pulitura dai ben nove strati di pittura sovrapposti nei secoli fino alla scoperta, sul retro della statua, di quella che potrebbe essere la firma del Buonarroti (una M seguita da due ali d'angelo). Quindi Doliner ha potuto ampiamente soffermarsi sul suo punto di vista. Lo studioso ha spiegato di aver potuto vedere la statua nel 2009, poiché il collezionista che ne è il proprietario dal 2002 aveva chiesto il suo parere. Quel giorno, ha detto Doliner, ebreo osservante, «ho capito il significato della parola "mozzafiato". La scena del dolore di Maria sul Cristo morto mi commuoveva anche se non sono cristiano. Ho capito che doveva essere stata realizzata da un grande e che certamente non poteva essere Bregno». Da quel momento ha indagato a partire dalla datazione con la fluoroluminescenza che, a precisa domanda, è stata confermata da Crescentini escludendo una "ricottura" della statua in seguito alla sua colorazione. Doliner ha spiegato di aver seguito un'indagine secondo le regole del Talmud che per l'attribuzione di qualcosa a qualcuno pretende di dare risposte a precisi quesiti. Un passaggio, questo, che il volume spiega nel dettaglio. Intanto le misure dell'opera che corrispondono a quelle del "braccio fiorentino" che è di 58,3 centimetri: unità di misura che nella Roma del tempo poteva essere usata solo da chi veniva da Firenze. All'epoca Buonarroti era giovanissimo e per aggiudicarsi la commissione della Pietà vaticana doveva stupire: da qui le raffinate fattezze della terracotta e l'uso di polvere di marmo con tracce di "dolomite" che può provenire solo dalle Apuane, dove erano le cave a lui care. A questo proposito Doliner ha detto di aver cercato tracce dello stesso materiale (che rende la terracotta lucida e con i riflessi del marmo) in altre terrecotte dell'epoca usate come bozzetti e di averlo trovato solo nel modello del Lottatore di Michelangelo conservato a casa Buonarroti. Poi il putto posto ai piedi del Cristo morto che per Doliner è un cupido (lo testimonierebbe la fascia trasversale sul busto a sostegno di una faretra che non c'è più) in rappresentanza dell'amore divino, come anche sosteneva Guidoni, e della filosofia neoplatonica fiorita alla corte dei Medici ma avversata a Roma: per questo il cupido è stato soppresso nella reali azione della Piet* vaticana. Poi il titolo della terracotta, conosciuta da subito come Madonna della febbre dal nome della cappella romana dove la Pietà vaticana venne collocata fino al 1607. Sappiamo infatti che il testamento di Michelangelo sigillato dal notaio nel 1561 stabiliva che la terracotta fosse lasciata al suo allievo e aiutante Antonio Basoja. Lo stesso Basoja, dopo la morte del maestro pretende e ottiene quella terracotta definendola «il Modello della Madonna della febbre». E ancora la suggestione delle tre mani sinistre intrecciate, quella del putto, quella del Cristo e quella della Madonna, considerata come una firma di Michelangelo che era mancino...

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