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Avvenire Rassegna Stampa
30.01.2019 Su Avvenire due esempi di menzogna omissiva
Negli articoli di Maurizio Ambrosini, Stefania Falasca

Testata: Avvenire
Data: 30 gennaio 2019
Pagina: 3
Autore: Maurizio Ambrosini - Stefania Falasca
Titolo: «Anche il muro d'America simbolo inutile - Il Papa getta ponti di pace nella terra sacra all'islam»

Riprendiamo da AVVENIRE di oggi, 30/01/2019, a pag.3 gli articoli "Anche il muro d'America simbolo inutile", "Il Papa getta ponti di pace nella terra sacra all'islam" a firma di Maurizio Ambrosini, Stefania Falasca.

Maurizio Ambrosini sostiene che non abbia alcuna utilità il muro di divisione tra Stati Uniti e Messico, che invece è indispensabile per arrestare l'immigrazione clandestina e nello stesso tempo frenare il massiccio traffico di droga. Al quotidiano dei vescovi interessa attaccare i muri soltanto quando si tratta di quelli degli Usa o di Israele, mentre le altre decine di muri presenti in tutto il mondo non interessano minimamente. E poi il papa non interviene su quanto accade in Venezuela perchè - ha dichiarato- " il Vaticano non interviene sulla politica interna di altri Stati": che ipocrisia!

Stefania Falasca si sofferma invece sul viaggio che Papa Bergoglio intraprenderà negli Emirati Arabi, dilungandosi sulle parole di pace del Papa e dimenticando completamente la condizione dei cristiani nei Paesi a maggioranza islamica, che sono disastrose. Perseguitati, cacciati e uccisi: è questa la realtà dei cristiani nei Paesi arabi e islaici, anche se il Papa in nome del politicamente corretto e degli interessi politici preferisce tacere.

Ecco gli articoli:

Maurizio Ambrosini: "Anche il muro d'America simbolo inutile"

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Un tratto del muro tra Stati Uniti e Messico

La contesa sul finanziamento delle opere per il completamento del muro al confine con il Messico sta provocando negli Stati Uniti un conflitto politico di inedita gravità, con diplomatici ed esponenti del Parlamento costretti a rinunciare a viaggi di Stato per mancanza di fondi. Come spesso avviene quando è in questione l'immigrazione, la dimensione simbolica, ideologica e persino emotiva della controversia prende il sopravvento sul contenuto effettivo della materia da regolare. Qualche dato può servire a inquadrare il problema. Un recentissimo rapporto dell'autorevole Center For Migration Studies di New York spiega che negli Stati Uniti (come d'altronde avviene nell'Unione Europea), nel 2016-2017 la maggior parte dei nuovi immigrati irregolari è rappresentata da persone entrate legalmente e rimaste dopo la scadenza del loro permesso, per esempio turistico: esattamente il 62%, contro un 38% che ha attraversato il confine illegalmente. In altri termini: il muro non fermerà il grosso degli ingressi degli immigrati non autorizzati. Servirebbero altre misure, che però colpirebbero settori economici importanti, come appunto il turismo. Il rapporto conferma inoltre che dal 2010 l'immigrazione irregolare negli Usa è in calo, pur sfiorando attualmente la ragguardevole cifra di 10,7 milioni di persone. In particolare, i messicani senza documenti sono sensibilmente diminuiti, di ben 400mila unità nel 2017, e per la prima volta costituiscono meno della metà della popolazione irregolare. La conclusione di Donald Kerwin, direttore esecutivo del Cms, è netta: «Non solo il muro è costoso, ma non serve a raggiungere lo scopo per cui è stato pensato». Vanno aggiunti alcuni altri dati. La Guardia di frontiera degli Stati Uniti impiega circa 20mila effettivi, e forma il corpo armato più numeroso del Paese dopo l'Esercito. Il confine con il Messico è il più militarizzato al mondo tra due Paesi in pace fra loro, e un terzo del muro (650 miglia) è già stato costruito in passato. Non è neppure scontato che i 5,7 miliardi di dollari richiesti da Trump siano sufficienti per completarlo. Anche negli Stati Uniti alla fine le opere pubbliche costano più di quanto inizialmente previsto, e girano stime molto più onerose. Gli investimenti per il controllo fisico della frontiera sono cresciuti di parecchie volte, impegnando un ingente quantità di risorse sottratte ad altri impieghi, ma il principale risultato che hanno raggiunto è stato quello di dirottare gli ingressi verso altri canali e altre provenienze. L'enfasi sul muro non si spiega quindi con ragioni tecniche, come se il confine fosse un colabrodo e se una più rigida sorveglianza bastasse a sconfiggere l'immigrazione irregolare. Le invettive lanciate da Trump contro le carovane di migranti dall'America centrale forse aiutano a comprendere la visione del mondo che emerge dietro la proposta del muro: il presidente statunitense parla di orde di criminali, di fiumi di droga, di minacce terroristiche, persino di malattie in arrivo. Sta dipingendo qualche centinaio di campesinos e altri poveri, inclusi vecchi, donne e bambini, come una minaccia mortale per la sicurezza del suo Paese. Il muro al confine, come vari altri costruiti nel mondo in questi anni, riveste dunque funzioni molto simili a quelle di 2.000 anni fa, del Vallo di Adriano o della Muraglia cinese: intende separare con nettezza i civilizzati dai barbari, i cittadini dagli alieni, la società ordinata dal caos esterno. Persone in cerca di asilo e aspiranti lavoratori diventano simboli di minacce esiziali, al pari delle orde armate di secoli addietro. Come se l'insicurezza seminata da una certa globalizzazione non fosse già ben insediata all'interno dei confini. Sull'altro lato della frontiera il nuovo presidente messicano López Obrador ha invece annunciato la disponibilità del suo governo ad accogliere i migranti centro-americani. Rispetto alla chiusura del potente vicino, è una piccola lezione di umanità da parte di un Paese che certamente dispone di meno risorse e ha grandi problemi interni, ma almeno in questo caso mostra di non voler cedere al vento della paura e dell'odio. Vedremo.

Stefania Falasca: "Il Papa getta ponti di pace nella terra sacra all'islam"

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Papa Bergoglio

Nelle Città invisibili, di Italo Calvino, Marco Polo descrive all'imperatore della Cina, Kublai Khan un ponte come arco di pietre: «Ma qual è la pietra che sostiene il ponte?» chiede l'imperatore. «Il ponte non è sostenuto da questa o da quella pietra- risponde Marco Polo - ma dalla linea dell'arco che esse formano». Kublai Khan rimane in silenzio, poi soggiunge: «Perché mi parli delle pietre? E solo dell'arco che m'importa». «Senza pietre non c'è arco» risponde il viaggiatore. Il 6 giugno del 2015 il Papa incontrando i giovani a Sarajevo ripensa al ponte sul fiume color smeraldo di Miljacka, luogo di innesco della prima guerra mondiale, ricordando Die Brücke, «Il ponte», film del 1959 firmato dall'avanguardia tedesca e ambientato durante l'occupazione nazista. «Ho visto quel film e lì ho visto come il ponte sempre unisce - dice Francesco -. Quando il ponte non si usa per andare uno verso l'altro ma è un ponte vietato diventa la rovina di una civiltà, la rovina di una società, di un'esistenza. Per questo da voi, da questa prima generazione del dopoguerra, mi aspetto che facciate in modo che si possa andare da una parte all'altra. Farsi pietra del ponte è lasciare che si possa andare da una parte all'altra. Questa è fratellanza». Non solo alla Gmg di Panama, Paese-ponte per antonomasia, ma anche in quella precedente di Cracovia ha invitato a realizzare nel crocevia dell'Europa «il ponte primordiale», ripetendo che «vorrebbero farci credere che chiuderci è il miglior modo di proteggerci. Oggi noi adulti abbiamo bisogno di voi, per insegnarci a convivere nella diversità, nel dialogo, nel condividere la multiculturalità non come una minaccia ma come un'opportunità: abbiate il coraggio di insegnarci che è più facile costruire ponti che innalzare muri». Percorrere le strade delle fraternità per la ritessitura dell'unica famiglia umana significa anche farsi ponti in àmbiti prioritari come quello del dialogo con le altre religioni, perché sono ponti per la pace. Come quello che porterà da domenica papa Francesco per la prima volta anche nella Penisola arabica. Fatto questo carico di valenze simboliche che non possono sfuggire, considerato come quella sia la terra del profeta Maometto, dove si trovano Medina e La Mecca, e dunque, per il credente musulmano, terra-santuario. Quella degli Emirati Arabi - che il Papa visiterà fino al 5 febbraio - è anche terra dove per ragioni storiche, sociali ed economiche si è coagulata una comunità cristiana numerosa, multirazziale e quanto mai variegata e dove la convivenza è caratterizzata dalla tolleranza religiosa. Per il Successore di Pietro, del resto, il mandato di farsi ponte è inscritto nel Dna del suo ministero: Pontifex (da pons, "ponte", e facere, "fare") è stato usato fin dall'inizio della storia della Chiesa per indicare i vescovi, in particolare il Vescovo di Roma. Un mandato cristiano dunque che in un tempo che ha visto alzarsi troppi muri tra i popoli è divenuto il suo programma. E un programma che aveva già descritto e prospettato fin dai primi giorni del suo ministero petrino. Nella prima udienza al corpo diplomatico, il 22 marzo 2013, il Papa aveva infatti anticipato con nitida chiarezza su quale arco avrebbe gettato il passo: «Uno dei titoli del Vescovo di Roma è Pontefice, cioè colui che costruisce ponti, con Dio e tra gli uomini. Desidero proprio che il dialogo tra noi aiuti a costruire ponti fra tutti gli uomini, così che ognuno possa trovare nell'altro non un nemico, non un concorrente, ma un fratello da accogliere e abbracciare. Le mie stesse origini poi mi spingono a lavorare per edificare ponti... e così in me è sempre vivo questo dialogo tra luoghi e culture fra loro distanti, tra un capo del mondo e l'altro, oggi sempre più vicini, interdipendenti, bisognosi di incontrarsi e di creare spazi reali di autentica fraternità». E aveva qui messo tra i primi il dialogo interreligioso: «In quest'opera è fondamentale anche il ruolo della religione. Non si possono, infatti, costruire ponti tra gli uomini, dimenticando Dio. Ma vale anche il contrario: non si possono vivere legami veri con Dio ignorando gli altri. Per questo è importante intensificare il dialogo fra le varie religioni, penso anzitutto a quello con l'islam», aveva detto apprezzando la presenza alla Messa d'inizio del suo ministero di molte autorità civili e religiose del mondo islamico. Fin dall'inizio, pertanto, papa Francesco aveva limpidamente prospettato gli archi che avrebbe proiettato e percorso come instancabile costruttore di ponti, svelando la missione alla quale Dio lo ha chiamato in questi tempi convulsi, lacerati e ottenebrati dalla «terza guerra mondiale a pezzi» per edificare l'unica famiglia umana, facendosi anzitutto ponte come Cristo, Principe della pace. E come costruttore di ponti ha infranto lo schema che ha identificato troppo a lungo il cattolicesimo con l'Occidente, stracciato l'idea del ricorso alla guerra giusta di coloro che speculano sulle guerre per vendere armi e soffiano sullo scontro tra culture e religioni per perseguire i propri scopi. «La guerra c'è, ma non è una guerra di religioni» ha detto chiaramente e più volte denunciando gli interessi dei «pianificatori del terrore» e degli «interessi geopolitici che sacrificano l'uomo ai piedi dell'idolo del denaro». La strada è investire sull'educazione alla mutua conoscenza e al dialogo, oggi la più ardua e lunga, ma l'unica efficace e duratura. Un dialogo che è dovere imprescindibile e vitale, e costituisce anche l'antidoto migliore contro ogni forma di fondamentalismo, denunciando tale fenomeno e constatando l'esistenza di atteggiamenti e pratiche antidialogiche e fondamentaliste anche dentro la Chiesa. «Una scuola di umanità e un fattore di unità che aiuta a costruire una società fondata sulla tolleranza e il mutuo rispetto, che non può limitarsi ai soli responsabili delle comunità religiose», come aveva prospettato nel discorso alla Conferenza internazionale sulla pace all'Università di Al-Azhar nella visita al Cairo del 2017. Del dialogo aveva tracciato i tre «orientamenti fondamentali: il dovere dell'identità, il coraggio della verità e la sincerità delle intenzioni». Non si costruisce infatti dialogo autentico sull'ambiguità o sul sacrificare il bene per compiacere l'altro. Inoltre, la sincerità delle intenzioni è un segno necessario per attestare che il dialogo «non è una strategia per realizzare secondi fini, ma una via di verità. C'unica alternativa alla civiltà dell'incontro, rimarcava il Successore di Pietro, «è l'inciviltà dello scontro». Per contrastare veramente la barbarie occorre accompagnare e far maturare generazioni che rispondano alla logica incendiaria del male con la paziente crescita del bene. Il ponte gettato verso gli Emirati Arabi, e poi quello successivo in Marocco a fine marzo, si slanciano così dal Vangelo, sono eredità francescana; passano per la dichiarazione conciliare Nostra Aetate, vengono dalla beatificazione collettiva della martoriata Chiesa in Algeria, nel dicembre 2018, dove i testimoni, nell'ordinarietà di una vita condivisa si sono fatti costruttori di passerelle tra le religioni abramitiche; e arrivano dritti dall'incontro in Egitto nell'aprile 2017. Ponti tangibili, che hanno la supremazia sulle parole nella bussola di un tempo che — immemore — spinge a naufragare nell'ombra oscura di nuovi muri e nuovi orrori, in un mondo dove c'è bisogno di costruttori di pace e non di provocatori di conflitti, di pompieri e non di incendiari. Di riconciliazione, e non di banditori di distruzione.

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