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Avvenire Rassegna Stampa
03.11.2018 Ad AVVENIRE il 'premio Goebbels' per la disinformazione. Quattro articoli di menzogne contro Israele in un solo giorno
Nessun quotidiano è mai arrivato a tanto.

Testata: Avvenire
Data: 03 novembre 2018
Pagina: 20
Autore: Redazione, Claudio Monici
Titolo: «Israele arresta la scrittrice Susan Abulhawa in transito verso la Palestina. Era senza un visto-Ramallah, il fuoco oltre il muro dove la vita resta tagliata a metà- La scuola a Hebron con i carri armati»

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AVVENIRE "Premio Goebbles" per la disinformazione

Riprendiamo da AVVENIRE di oggi, 03/11/2018, tre articoli (dovrebbero essere 4, ma uno l'abbiamo escluso, la solita velina palestinista sulle manifestazioni del venerdì di Hamas lungo il confine con Israele). Quattro articoli in un solo giorno è un record che merita un riconoscimento, dedichiamo al quotidiano dei vescovi italiani il "Premio Goebbels"   per la disinformazione su Israele. Impallidiscono, malgrado la puntuale disinformazione, i vari Manifesto,Fatto quotidiano,Osservatore Romano,Internazionale,Espresso e scusate se ne dimentichiamo qualcuno.
Eccoli:

1.  Israele arresta la scrittrice Susan Abulhawa in transito verso la Palestina. Era senza un visto (redazionale, ma con tanto di foto)

Israele non ha "arrestato" nessuno, mancando il visto, ha apllicato una comune norma, senza non si entra dopo esserne stati espulsi. E' vero che i palestinesi sono abituati a trasgredire le leggi internazionali a loro convenienza, ma con Israele il gioco non funziona.
La notizia è talmente irrilevante da non essere uscita su nessun altro giornale.

La scrittrice palestinese-americana Susan Abulhawa è stata arrestata il l° novembre all'aeroporto Ben Gurion mentre entrava in Israele di passaggio perla Palestina Le autorità israeliane hanno cercato di espellerla perché non aveva un visto. Abulhawa deve partecipare al Festival della letteratura palestinese, che si tiene da oggi al 7 novembre. La scrittrice è ospite del British Council. Non le sono state contestate questioni politiche: le autorità hanno notato che era stata espulsa da Israele tre anni fa e hanno detto che doveva ottenere un visto Susan Abulhawa prima di rientrare nel Paese. Susan Abulhawa ha scritto un romanzo di successo, Ogni mattina a Jenin (Feltrinelli). La scrittrice è comparsa ieri davanti a un giudice che ha chiesto al suo avvocato se la sua presenza al Festival fosse indispensabile. L'avvocato ha risposto che il Festival «dipende in gran parte dalla sua presenza». Non è il primo caso di espulsione attuato dagli israeliani, in seguito alla campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni. In estate venne espulsa Katherine Franke, docente della Columbia e membro di Jewish Voice for Peace.

2. Ramallah, il fuoco oltre il muro dove la vita resta tagliata a metà
di Claudio Monici, inviato a Ramallah

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Claudio Monici

Adesso Avvenire ha anche un inviato speciale, il suo servizio è preceduto da questa introduzione: "Sette volte quello di Berlino e divide solo i palestinesi» II reportage Il problema di fondo della Cisgiordania è sempre il ritorno dei profughi, sparsi in Giordania, Libano, Siria. A 23 anni dalla morte di Rabin e a 16 dall'inizio della costruzione della barriera, poco è cambiato: è cresciuta solo la rabbia, come nella Striscia" parole che si commentano da sole, con il richiamo al muro di Berlino, ai profughi, Rabin, Hamas.
Nel pezzo, tutta la retorica a cui ci hanno abituati gli odiatori, questo Monici è nuovo, ma inizia subito seguendo gli insegnamenti di Goebbels 'mentite, mentite, alla fine le menzogne diventano realtà' nel raccontare come è andata veramente con i profughi. La storia poi si riempie di tutti i temi indispensabili alla propaganda palestinista.

Nella sala si accendono le luci e il regista Mohammed Alatar si concede al pubblico: «Israele ha solo chiuso il fuoco dentro un muro, sette volte più grande di quello di Berlino». E una delle ultime serate della rassegna de «I giorni del cinema Palestinese». La quinta edizione. La modernissima sala cinematografica della City hall, dalle eleganti poltrone di velluto rosso, accoglie un pubblico per lo più giovane, moderno, funzionari diplomatici europei, e molte donne musulmane senza velo, accanto alle coetanee cristiane palestinesi. Mohammed Matar racconta la storia del suo documentario che parla del «muro» e puntualizza: «Il problema, oggi, non è più la questione dei Territori occupati dagli insediamenti israeliani. La terra oramai se la sono presa quasi tutta, e continueranno a farlo nel silenzio totale. La questione vera è: che cosa fare dei palestinesi profughi, rifugiati, della diaspora dispersi tra Giordania, Libano, Siria, West Bank e Striscia di Gaza, con in tasca ancora le chiavi delle loro case che hanno dovuto abbandonare decenni fa sperando, un giorno, di farci ritorno, mentre oggi ci vivono gli israeliani?». Ramallah, anima e cuore della Palestina, sede dell'Autorità palestinese, del Parlamento e dei ministeri, è anche questo: strade affollate di auto coreane, vita notturna, ristoranti eleganti, feste, concerti e rassegne culturali. La sua modernità e la sua convivenza pacifica per il momento sembrano in grado di tenere lontano, almeno qui, lo spettro di un conflitto sanguinoso e ancora vivo (si veda la Striscia di Gaza, ndr) che da più di mezzo secolo oppone Israele e i Territori palestinesi. E poi c'è il muro a rendere la vita complicata, difficile. Anche dolorosa, quando per spostarsi da un punto all'altro, anche solo per farsi ricoverare in un ospedale, bisogna avere in mano un permesso israeliano per attraversare settori vietati ai palestinesi. E non è detto che venga sempre rilasciato. «In Cisgiordania, solo il 6 per cento dei posti di controllo che gli israeliani hanno istituito per difendersi da noi, separano gli israeliani dai palestinesi — spiega il regista —, perché il restante 94 per cento, di fatto, divide palestinesi dai palestinesi». "Broken", il documentario di Mohammed Matar, è un viaggio attraverso tre continenti per «capire il muro». Parlano esperti, gente comune, diplomatici e giudici. Ma anche chi lo ha realizzato questo muro che spezza la vita e il dialogo: il colonnello israeliano Danny Tirza. L'architetto che ha costruito la barriera di 700 chilometri, di cui l'80 per cento eretta illegalmente in territorio cisgiordano, ben dentro la «linea verde» del cessate il fuoco del 1949, per «impedire ai terroristi arabi palestinesi di raggiungere le città israeliane». Eppure anche muratori palestinesi hanno contribuito alla realizzazione della divisione di cemento armato, con la loro manodopera. Ma come non comprendere questa contraddizione, quando il tasso di disoccupazione affligge più del 60 per cento della Palestina. Nel 2004, la Corte internazionale di giustizia dell'Aja, su richiesta dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, aveva vagliato il «caso-muro», per esprimere una ferma condanna «perché contrario al diritto internazionale». Aveva anche invitato Israele a fermare i lavori, iniziati due anni prima, e a rifondere i danni. Quattordici anni dopo il muro è in via di ultimazione e nessun palestinese che si è visto sottrarre la propria terra, spesso unica fonte di reddito agricolo, è stato rimborsato. Nel silenzio totale della comunità internazionale, tranne rare eccezioni, il muro cammina e gli insediamenti si moltiplicano. Adesso anche a Gerusalemme est. Il pomeriggio è già buio quando gli ultimi pendolari s'affrettano battendo svelti passi in direzione del posto di controllo militare. Un percorso di gabbie che sembrano quegli zoo di un tempo lontano e ormai dimenticato. Lungo il tragitto obbligato, lampioni e grandi fari accesi gettano fasci di luce gialla che si impasta con il nero del cielo, il ferro dei reticolati, l'asfalto bagnato, l'acciaio del tunnel a gabbia, e tutto si ammanta di arancio ruggine rendendo quel percorso un luogo cupo che richiama l'immagine sofferente di un futuro claustrofobico. La sera è tutto più semplice per un palestinese che toma a casa dopo il lavoro. Il check point, in genere, è aperto, senza soldati israeliani, e si passa via che è un piacere. Ma è al mattino che bisogna alzarsi presto, prima delle quattro, per attraversare svelti la barriera, e raggiungere il proprio lavoro in tempo. Cisgiordania, o Giudea e Samaria, o West Bank, «sponda occidentale» del fiume Giordano. Arcipelago Palestina, o anche territori occupati, «parzialmente», da Israele, o territori israeliani sotto amministrazione palestinese. Dipenderà sempre da quale parte verrà letta e raccontata questa storia. Sta di fatto che quella tra israeliani e palestinesi è una storia infinita. Un contorto groviglio di odi, torti, ragioni, rivendicazioni e vendette. Che nel tempo hanno solo allargato la frattura e fatto crescere muri, ampliare i fossati, ed esplodere le guerre. C'è stato un tempo che sembrava d'essere arrivati a un approdo, a una pace definitiva, dopo la storica stretta di mano tra due ex nemici, Arafat e Rabin. Ma quel sogno si spezza quando il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin viene assassinato da un giovane colono ebreo contrario agli accordi di pace di Oslo con i palestinesi dell'Organizzaione per la liberazione della Palestina di Yasser Arafat. Da quella fatale sera a Tel Aviv, era il 14 novembre 1995, sono trascorsi ventitré anni, una serie di rivolte palestinesi, molti attentati dinamitardi che hanno fatto strage di israeliani dentro agli autobus, e guerre di carri armati e aviazione in risposta ai missili lanciati dai miliziani di Hamas contro Israele. Quello che accora succede nella Striscia di Gaza, prigione a cielo aperto senza speranze per i suoi giovani, cresciuti nella guerra, se non il martirizzarsi. Ma anche simbolo della separazione, non solo fisica, anche politica, che da 10 anni esiste tra il movimento di Hamas e l'Autorità palestinese. E che rende tutto ancora più complicato. La Cisgiordania, in base agli accordi di pace di Oslo del 1993, è evidenziata in tre corpi «A», «B» e «C». Il settore «A», più che altro rappresentato dalle città palestinesi di Ramallah, Nablus, Tubas, Gerico, Hebron (tranne la città vecchia), Tulkarem, Qalqilya, Jenin, è sotto amministrazione e sicurezza dell'Autorità palestinese. In «B» l'amministrazione civile è sempre palestinese, ma il controllo e la sicurezza è israeliana. La «C», invece, è sotto l'esclusiva giurisdizione dell'esercito israeliano. Il fatto è che la maggior parte del territorio della West Bank si trova nel settore «C» e questo aspetto rende i settori «A» e «B» delle isole senza alcun ponte di contatto diretto tra di loro, ma soltanto insediamenti dei coloni israeliani che fanno da cuscinetto. Nei 5.600 chilometri quadrati di Cisgiordania, vivono circa tre milioni di Palestinesi: i settori «A» e «B», il 40 per cento della West Bank, ospitano l'80 per cento della popolazione palestinese; nel restante 60%, nell'area «C», (circa 300mila palestinesi), ricca di risorse naturali, minerali, agricole e poi pregiata risorsa turistica per via del Mar morto, vent'anni fa i coloni israeliani erano 100 mila, oggi superano il mezzo milione e continuano ad aumentare. L'ambasciatrice palestinese Amal Jadau, a capo del Dipartimento Europa per il ministero degli Esteri della Palestina spiega: «Vivere sotto occupazione sta diventando sempre più difficile per noi palestinesi. Da quando il presidente americano Donald Trump è alla Casa Bianca, gli insediamenti dei coloni israeliani si sono quadruplicati. Trump ha anche deciso di tagliare i finanziamenti americani diretti all'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione (Unrwa), il 40 per cento del totale dei donatori internazionali. Erano risorse fondamentali per 5 milioni di rifugiati palestinesi che si nutrono, studiano e si possono curare, solo grazie ai progetti umanitari dell'Unrwa»

3. La scuola a Hebron con i carri armati
dall'inviato Claudio Monici

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Non un singolo ebrei potrà vivere nello Stato palestinese

Il secondo pezzo - quanta generosità, direttore Tarquinio - non differisce la primo e merita un secondo ' Premio Goebbels', se non altro per aver definito la Tomba dei Patriarchi " luogo sacro a musulmani ed ebrei ", ci vuole una notevole dose di facciatosta. A Hebron i buoni palestinisti la vorrebbero 'Judenrein', come ha dichiarato molte volte Abu Mazen ' sulla terra musulmana non metterà piede nessun ebreo', citazione che il goebbelsiano inviato dai vescovi italiani ha prudentemente ignorato, meglio condire il suo articolo con le abituali menzogne.

Ecco il pezzo:

« L'altro giorno, un carro armato israeliano s'è piantato sulla strada, all'inizio della salita. Proprio sul percorso che le ragazze devono compiere per raggiungere la scuola. Provate a immaginare che cosa vuol dire per le nostre studentesse vivere la quotidianità di una occupazione militare aggressiva. Un continuo logorio, tensione, ansia, un sovraffaticamento psicologico e fisico». Somaya Zaitari è la preside del complesso scolastico «Wasaya al-Rassol» dove dall'età dell'asilo, fino ai 10 anni, l'istituto garantisce la formazione scolastica a più di 800 bambine palestinesi. «Wasaya al-Rassol» si trova nella parte di Hebron denominata «H2», in Mafraq al-Sahep, proprio dove è posto il check-point dei soldati israeliani di «Sadet al-Fash». E dove spesso si verificano scontri tra palestinesi e israeliani «con proiettili e gas lacrimogeni che piovono nel cortile della scuola, seminando il panico». Hebron, che è nel sud della Cisgiordania, custodisce la tomba dei Patriarchi, luogo sacro a musulmani ed ebrei. La città vecchia è divisa e chiusa. Con l'insediarsi dei coloni israeliani, e l'occupazione delle forze di difesa israeliane, il centro è stato abbandonato dal 60 per cento dei palestinesi. Hebron è divisa in due settori: «H1», sotto controllo dell'Autorità palestinese; «H2», un'area poco più grande di 4 chilometri quadrati, sotto il pieno controllo dei militari. Perché qui circa 500 coloni, buona parte armati, vivono blindati e protetti da 1500 soldati della brigata di fanteria «Golani». Di conseguenza in «H 1» 200mi1a palestinesi sono soggetti a strette misure coercitive nella libertà di movimento e al coprifuoco, attivo solo per loro. Per questo hanno subito la chiusura del 67 per cento delle attività commerciali, e sono anche tagliati fuori dal loro cimitero musulmano. «Oltre a subire la violenza dei coloni, subiscono una discriminazione religiosa - denuncia l'ex militare israeliano Nadan Weiman, dell'organizzazione "Rompere il silenzio" contro l'occupazione israeliana dei Territori -. Perché a loro è proibito percorrere gli 80 metri di strada che portano alla tomba dei patriarchi». «Andare a scuola in queste condizioni è un trauma, causa di stress e tensioni. Nei più giovani registriamo difficoltà di attenzione e concentrazione che hanno bisogno di tempo per essere curate», spiega una operatrice del "Norwegian refugee council" che con "Echo", l'agenzia per l'aiuto umanitario dell'Unione Europea, è attiva in un progetto per l'assistenza psicologia ai minori: «Da gennaio a giugno 2018, in Palestina, sono stati registrati più di 13mila casi di bambini palestinesi che hanno patito gli effetti del conflitto: traumatizzati, feriti, arrestati, picchiati, uccisi».

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