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Avvenire Rassegna Stampa
13.05.2018 Buon compleanno Israele! due pezzi grondanti menzogne e odio dal quotidiano dei Vescovi
scritti da Francesca Ghirardelli e Camille Eid

Testata: Avvenire
Data: 13 maggio 2018
Pagina: 9
Autore: Francesca Ghirardelli-Camille Eid
Titolo: «Mai stati così lontani dalla pace-L'ambasciata Usa a Gerusalemme nel maggio più pericoloso dal 1967»

Riprendiamo da AVVENIRE di oggi, 13/05/2018, a pag.9 due servizi che fanno il paio con quelli di Repubblica, peggiori, anche perchè nella disinformazione si può essere primi o gregari. Questi ultimi sono in questo caso Francesca Ghirardelli e Camille Eid.

Francesca Ghirardelli: " Mai stati così lontani dalla pace "

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Francesca Ghirardelli

Chi è andata a intervistare la Ghirardelli? Gideon Levy, uno dei più scatenati oppositori del governo, scrive su Haaretz, in Italia lo pubblica Internazionale, la versione settimanale dl Manifesto. Se Israele seguisse i consigli di Levy non ci sarebbe più bisogno della bomba nucleare iraniana, si autodistruggerebbe da sola. Per questo Avvenire l'ha fatto intervistare.

« Mai siamo stati così lontani dal raggiungimento della pace»: lucido e inesorabile, è questo il giudizio del giornalista israeliano Gideon Levy, da trent'anni penna (e coscienza) critica d'Israele dalle colonne del quotidiano Haaretz. In Italia per partecipare al Bergamo Festival Fare la Pace, gli abbiamo chiesto quale atmosfera si respiri nel suo Paese, nel Settantesimo anno dalla fondazione, evento che i palestinesi definiscono invece come la loro «catastrofe», la Nakba. In vista del controverso anniversario, da sette settimane gli abitanti di Gaza manifestano rabbia e frustrazione lungo il confine. Quasi cinquanta i morti, fino ad ora. «La maggioranza degli israeliani ha poco interesse per quanto accade a Gaza. Per i miei connazionali chi manifesta laggiù è un terrorista. Non esiste alcuna discussione pubblica sulle uccisioni né sull'uso di munizioni vere da parte dell'esercito israeliano contro manifestanti disarmati. Il lavaggio dei cervelli è così efficiente che temi come questi non sono nemmeno sul tavolo». Se i palestinesi protestano nell'anniversario della loro «catastrofe», lei ha parlato anche di una Nakba israeliana, quella seguita all'occupazione militare del '67: una vittoria-catastrofe che ha minato la vostra identità. Certo, perché quando si fonda un Paese su un terreno problematico dal punto di vista morale, quando lo si costruisce sull'espulsione di centinaia di migliaia di persone, si sa bene che le fondamenta non sono solide, ma precarie. Molti israeliani vivono negando quanto è avvenuto, anche se, nel profondo, credo sappiano che qualcosa è andato (e continua ad andare) storto. L'analista del quotidiano israeliano Haaretz è critico sulla scelta della Casa Bianca: Washington dichiara la morte definitiva dell'opzione dei due Stati La comunità internazionale insiste con la soluzione di due Stati distinti: è ancora realizzabile? Il fatto che ancora si menzioni quest'ipotesi mostra quanto poco interesse esista nel raggiungere un accordo. Sentiamo l'Ue farvi riferimento, malgrado sappia che quella via non è più percorribile. Sono parole vuote che mostrano la mancanza di una vera volontà di porre fine all'occupazione. Ulteriore ostacolo è il trasferimento dell'ambasciata Usa a Gerusalemme: che conseguenze avrà? Con questa decisione gli Stati Uniti dichiarano la morte definitiva proprio dell'opzione dei due Stati: gli americani sanciscono l'appartenenza di Gerusalemme ai soli ebrei, senza nemmeno menzionare i palestinesi. Da trent'anni lei racconta l'occupazione della Palestina: davvero la pace è più lontana che mai? Assolutamente sì. Oggi la situazione si è deteriorata non solo a causa di Israele, ma anche perché i palestinesi sono deboli, divisi e senza leadership come mai era accaduto prima. Il resto del mondo ha perduto interesse nella ricerca di una soluzione e alla Casa Bianca c'è Donald Trump. La combinazione di questi elementi ci conduce al punto più distante mai raggiunto non dico dalla pace, ma da una soluzione qualsiasi. Da dove ripartire, allora? L'unica speranza è nella comunità internazionale, perché il cambiamento non avverrà certo all'interno di Israele. Per gli israeliani non c'è ragione di cambiare: Israele è forte, economicamente prospero e la vita che vi si trascorre, per loro, è meravigliosa. C'è, invece, da chiedere alla comunità internazionale se davvero continuerà a tollerarlo, sostenerlo, finanziarlo.

Camille Eid: "L'ambasciata Usa a Gerusalemme nel maggio più pericoloso dal 1967"

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Camille Eid

 Camille Eid, per festeggiare il 70° compleanno di Israele, descrive l'Iran come un paese sotto la minaccia di Israele, quando è vero il contrario. Manipola poi la dichiarazione di un ex capo del Mossad, dandone una interpretazione che non  corrisponde alle intenzioni di chi le ha pronunciate. La perla:  scrivere "Stato ebraico" con le virgolette! Si dia una calmata il signor Eid, insieme al direttore di Avvenire, perchè non prendete atto della realtà e la piantate lì ?

Alta tensione in vista, domani, del 70esimo anniversario della nascita di Israele e della contemporanea apertura dell'ambasciata Usa a Gerusalemme. In serata si sono registrati anche raid aerei contro un tunnel di Hamas nel nord della Striscia di Gaza dopo gli scontri di venerdì con i palestinesi e la chiusura del valico di Kerem Shalom. Mentre gli Usa stanno rafforzando la sicurezza delle sedi diplomatiche nei Paesi islamici. Tanto più che il trasferimento avverrà a pochi giorni dal ritiro Usa dall'intesa nucleare con l'Iran. Decisione sostenuta da Israele. E proprio da Teheran ieri, è arrivata un'altra minaccia. Il portavoce dell'esercito ha affermato: «Se Israele sarà così irresponsabile da attaccarci, raderemo al suolo Tel Aviv». Questione capitale Gli americani blindano le sedi diplomatiche nell'aerea. Videomessaggio di Donald Trump, che manda Ivanka e Kushner all'inaugurazione. Teheran alza i toni:  Il conto alla rovescia era iniziato qualche settimana fa, quando la stampa internazionale aveva definito maggio «il mese di tutti i rischi» per la sequenza di eventi in programma: le elezioni in Libano con la conferma di Hezbollah come forza ineludihile; il ritiro (poi verificatosi) degli Stati Uniti dall'accordo nucleare con l'Iran; il trasferimento domani dell'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme in occasione del 70esimo anniversario della proclamazione dello Stato di Israele e la commemorazione martedì della Nakha, la «catastrofe» palestinese del 1948. Il tutto su uno sfonIn un primo tempo, si era ventilata la partecipazione di Donald Trump all'apertura della nuova rappresentanza. Due giorni fa, però, Washington ha annunciato che il presidente non andrà.Al suo posto, una delegazione di cui faranno parte anche la figlia, Ivanka, e il genero, Jared Kushner, considerato il principale ispiratore del "trasloco", oltre al vicesegretario di Stato, John Sullivan. Trump, però, invierà un videomessaggio. L'ambasciata sarà provvisoriamente ospitata nei locali di quello che era il consolato americano, in attesa della costruzione di un nuovo edificio. Son continui scontri sui confini con Gaza e di sempre più frequenti raid israeliani contro le postazioni iraniane in Siria. «Quando guardo la sequenza che si annuncia — aveva dichiarato all'inizio del mese il generale di riserva Amos Yadlin, direttore dell'Istituto di studi sulla sicurezza nazionale — mi dico che Israele non ha conosciuto un maggio altrettanto pericoloso dal 1967 o dal 1973». E il paragone, fatto da questo ex dirigente dei servizi segreti israeliani, non è casuale. Come alla vigilia della guerra dei Sei Giorni, il Medio Oriente sembra ancora una volta vicino a un terremoto geopolitico, a una ridefinizione di nuovi equilibri tra i suoi numerosi aspiranti protagonisti. Oltre ad Israele e all'Iran, che competono a suon di minacce reciproche per il primo posto in tribuna, premono con insistenza Turchia e Arabia Saudita seguiti, a debita distanza, da Egitto e Qatar. Lo scacchiere è invece rappresentato da un insieme di Paesi fiaccati o contagiati dai conflitti in corso: in primis la Siria o meglio le "Sirie", in cui ogni attore regionale e internazionale cerca ormai di ritagliarsi, direttamente o per procura, una zona di influenza. E poi il Libano, l'Iraq, lo Yemen (l'Arabia Infelix), i Territori palestinesi e pure il Kurdistan siriano e iracheno il cui soffocamento sul nascere del desiderio di indipendenza incontra il consenso di diversi burattini e burattinai. L'epicentro di questa attesa scossa sarà purtroppo Gerusalemme. La Città Santa, l'"Umbilicus Mundi", si rivela essere ancora un nodo insormontabile, una fonte di disaccordi oltre che di frustrazioni per tutti i mediatori che hanno voluto passare alla Storia come gli artefici della soluzione definitiva del conflitto. Rivendicata, almeno nella sua parte orientale (alQuds), come capitale del loro futuro Stato, "Yerushalayim" è già stata proclamata unilateralmente nel 1980 come «una e indivisibile, capitale eterna di Israele». Laddove i suoi predecessori hanno fallito, il presidente Trump vuole riuscire proponendo quello che egli stesso ha chiamato «the ultimate deal», l'accordo definitivo. L'elaborazione dell'accordo è stata affidata a tre alti consiglieri dell'amministrazione: il genero Jad Kushner, l'inviato Jason Dov Greenblatt e l'ambasciatore Usa in Israele David Friedman, tutti dichiaratamente filo-israeliani che possono minare in partenza la credibilità del ruolo di mediazione americana nel conflitto. Secondo rivelazioni diffuse due settimane fa dal Canale 2 della tv israeliana, il piano americano sarà annunciato poco dopo il trasferimento dell'ambasciata Usa a Gerusalemme e comprenderà dettagliate soluzioni ai nodi del conflitto, dai confini alle colonie in Cisgiordania, e dalla sorte dei profughi palestinesi alla sicurezza. «Il deal del secolo», come viene definito dalla stampa araba, ha ancora dei contorni approssimativi e sembra prevedere un ritiro graduale dell'esercito israeliano dalla Cisgiordania, ma con il mantenimento di Tsahal lungo il Giordano e l'annessione a Israele di una parte degli insediamenti ebraici (si parla di Ariel, Gush Etzion, Maale Adumin), e infine la proclamazione di uno Stato palestinese demilitarizzato e con sovranità limitata, e il riconoscimento di Israele come «Stato ebraico». Obiettivo del piano americano, sostengono gli analisti, è rimuovere il principale ostacolo alla creazione di un'alleanza arabo-israeliana in funzione anti-iraniana. A caldeggiare tale alleanza ci sarebbe l'immancabile Mohammed bin Salman, l'erede al trono dell'Arabia Saudita che ha accolto con entusiasmo la decisione di Trump di ritirarsi dall'accordo nucleare con Teheran. Nessuno intende affermare che il processo di pace stesse procedendo bene tra palestinesi e israeliani (è infatti bloccato da anni), ma con la loro mossa, gli Stati Uniti creano una situazione esplosiva, ben peggiore di quella a cui volevano trovare una soluzione.

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