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Avvenire Rassegna Stampa
19.11.2008 Cristianizzazione della Shoah
il contributo delle filosofa marxista Agnes Heller

Testata: Avvenire
Data: 19 novembre 2008
Pagina: 29
Autore: Agnes Heller
Titolo: «Nazismo, la negazione di Cristo»
La Shoah come tentativo di distruggere il cristianesimo per affermare il neopaganesimo nazista.
E' la testi della filosofa marxista Agnes Heller, prontamente ripresa e
pubblicata con evidenza da AVVENIRE del 19 novembre 2008.
Ci sembra si tratti di una interpretazione storica assai debole, perché trascura il ruolo dell'antisemitismo nella preparazione e nell'attuazione dello sterminio antiebraico, e quello dell'antigiudaismo cristiano nel fornire all'antisemitismo razzista della Germania hitleriana temi e mitologie sviluppati nel corso di secoli.
Inoltre, e soprattutto, perché mette in ombra le vittime "fisiche" della Shoah, nascoste da  una "vittima virtuale": il retaggio giudaico-cristiano della cultura europea.

Con questo articolo, Agnes Heller dà il suo contributo a quell'opera di "cristianizzazione della Shoah", che su INFORMAZIONE CORRETTA è stata analizzata da Sergio I. Minerbi nell'articolo che riportiamo più sotto.

Di seguito, l'articolo di Agnes Heller, "Nazismo, la negazione di Cristo":

All’interno del totalitarismo, il terrore, suo componente necessario, rivesta una funzione speciale. Le sue vittime non sono combattenti, ma vengono colpite casualmente; a essere irrazionale è la stessa selezione, anche quando prende di mira un gruppo determinato – l’aristocrazia dell’Ancien Régime, i kulaki. Il terrore come paura generalizzata diventa opprimente, perché nessuno sa chi sarà il prossimo. Ma con Auschwitz smise di esserlo, perché la vittima non fu più colpita casualmente. Per la soluzione finale erano stati selezionati gli ebrei; non alcuni ebrei, ma tutti gli ebrei e soltanto gli ebrei. È per questo che il caso degli zingari è differente, un caso di selezione casuale, di genocidio, ma non di Olocausto. Dal momento in cui gli ebrei, e solo gli ebrei, furono selezionati per Auschwitz, allora la gran parte della popolazione non aveva più nulla da temere: non era ebrea, quindi non doveva aver paura. Di fronte alla costante, crescente persecuzione degli ebrei, una parte significativa dei non ebrei partecipò volontariamente, a volte perfino con gioia ed entusiasmo.
  L’ideologia aveva mobilitato i peggiori istinti umani, come in tutti i casi di Male radicale [...]. Il totalitarismo appartiene alla storia moderna, così come il genocidio. Il Male radicale non è scomparso, ma ha solo assunto nuove forme.
  L’Olocausto è stato un fenomeno completamente unico, tra i moderni genocidi, perché nel modello-Auschwitz le norme fondamentali della modernità, insieme ai valori supremi ereditati dalla tradizione, non furono abbandonati, dimenticati, deformati, ma vennero al contrario apertamente negati. Come ha scritto Thomas Mann nel racconto

 La legge,
i nazisti non hanno soltanto infranto tutti i dieci comandamenti, ma hanno anche proclamato la loro falsità. Non hanno detto che non di doveva uccidere, per poi uccidere lo stesso e spiegare perché il loro omicidio non era omicidio. No: i nazisti hanno detto che si doveva
 uccidere. Perché allora proprio gli ebrei? Perché furono loro l’obiettivo individuale selezionato non casualmente, benché non fossero né combattenti, né nemici, né cospiratori? E perché tutti? La cosiddetta questione ebraica non è nuova. È la più antica delle questioni, che risale all’Impero romano, prima della nascita del cristianesimo, per poi continuare nel Medioevo, e oggi, nell’età contemporanea, è ancora in agenda. Gli ebrei sono stati perseguitati, rinchiusi nei ghetti, uccisi a casaccio nei pogrom, espulsi dalle loro patrie... ma perché nessuno, fino al Novecento, aveva mai avuto l’ambizione di arrivare a una 'soluzione finale'? A questo punto, la mia riflessione ontologica tocca la teologia. I duci dei totalitarismi europei, i 'leader' del XX secolo, hanno covato l’ambizione di diventare divinità, esattamente come gli imperatori romani. Però la religione cristiana non può avallare una simile ambizione, e la religione cristiana
è storicamente radicata nel giudaismo. Secondo la tradizione cristiana, Dio ha conservato in vita la stirpe ebraica perché doveva rimanere una testimonianza dell’esistenza di Cristo. Qualora non fosse più rimasto un solo ebreo sulla faccia della terra, non sarebbe più rimasta nessuna testimonianza dell’esistenza di Cristo e i rinnovati dei pagani germanici avrebbero potuto regnare di nuovo, indiscussi. E allora, ovviamente, il meglio dei valori europei sarebbe stato a sua volta dimenticato, insieme con le norme supreme della modernità.
  Nessuno avrebbe più proclamato che tutti gli uomini nascono liberi e hanno diritto alla vita e alla libertà.
  Questa folle utopia negativa – perché di questo si tratta, di una folle utopia negativa – era per Hitler molto più importante della stessa vittoria sugli Alleati. È per questo che l’Olocausto è stato unico, ed esiste solo al singolare.
  Come ha detto Imre Kertész, fu un evento mitologico. Ma questo
evento mitologico, la sfida al Sinai, è stato anche moderno; l’irrazionale è anche moderno. Un imperatore romano che si proclama dio, appartiene alla sua tradizione politeista. Ma un intraprendente uomo moderno, divenuto per caso dittatore totalitario, è un figlio del suo secolo che coltiva un’ambizione contraria al suo secolo – l’ambizione di rinnovare le divinità pagane germaniche –: e allora parla e agisce irrazionalmente.
  Soltanto i moderni possono negare il proprio secolo: per questo l’Olocausto è stato, e continua a essere, completamente immerso nella modernità. Che cosa possiamo fare, allora, davanti al lato oscuro della modernità?
  Primo, possiamo combattere per istituzioni liberali e democratiche [...]. Secondo, possiamo condannare ogni segnale di totalitarismo, anche
in nuce, che appaia in uno Stato. E infine, possiamo – dobbiamo – ricordare.
 Per fare del Führer il nuovo dio germanico occorreva estirpare la morale europea e le sue fonti giudaico-cristiane

Da La STAMPA del 17 novembre 2008 (pagina 33), riportiamo l'intervista di Bruno Ventavoli alla filosofa, significativamente intitolata "La mia vita con Marx":


Ha scoperto la filosofia grazie all’amore, poi la filosofia è diventata l’amore d’una vita. La ragione per cui mettere in gioco un’intera vita, senza compromessi, con coraggio e dignità. L’ungherese Ágnes Heller, 80 anni, uno dei più importanti pensatori della modernità, sopravvissuta all’Olocausto (suo padre morì), avrebbe voluto fare la scienziata nel suo Paese appena uscito dalla guerra. Il fidanzato la portò a una lezione di Lukács. Lei afferrò poco di quelle parole su Hegel, ma fu una folgorazione, decise di abbandonare numeri e formule per distillare il sapere umano. Ma nell’Ungheria socialista degli Anni 50 e 60, finita dall’altra parte della cortina di ferro, la filosofia era materia da maneggiare con più cura di atomi e materia. Venne espulsa dal partito comunista nel ’49, poi riammessa, quindi espulsa di nuovo nel ’58 («perché c’erano due alternative, o quella del partito o quella della filosofia»). Chi era escluso stentava a vivere, studiare, ricercare, pubblicare. La Heller se la cavò facendo l’insegnante, ricerche sociologiche, subendo, però, la pressione della polizia, le spie, i finti amici. Alla fine degli Anni 70, la scelta di espatriare. Prima l’Australia, poi New York. Adesso fa la spola tra la New School di New York e Budapest.
Professoressa Heller, quanto è stato importante Marx nella sua vita personale?
«Sono stata studentessa di Lukács. Lui si definiva marxista, e così anch’io ho creduto di esserlo. Dopo guerra, morte, Olocausto, il comunismo sembrava offrire soluzioni per superare la sofferenza e l’oppressione, prometteva una redenzione per l’umanità. Ma scoprii ben presto che era un’idea fasulla. Mi consideravo marxista, senza aver mai letto praticamente niente di Marx. Fino ai primi Anni 50, Marx, in Ungheria era una materia chiusa. Era difficile leggerlo, interpretarlo al di fuori dell’ortodossia. In un certo senso cominciai a sentirmi marxista perché ero diventata ostile al partito comunista. Sembra un controsenso. Ma la vita quotidiana di allora era spesso un tragico controsenso».
Quando è avvenuta la vera scoperta di Marx?
«Nel ’53 Nagy fu nominato primo ministro e molte cose cambiarono. Parlava un linguaggio diverso, la gente usciva dalle prigioni. Da quel momento io e altri giovani filosofi abbiamo scoperto un Marx diverso da quello del Capitale. A quel punto sono diventata una “vera” marxista perché ho potuto leggere direttamente i testi, i suoi testi. Intorno a Lukács si formò un gruppo di studio per la “rinascenza” di Marx, significava negare le interpretazioni esistenti e ritornare alle radici di Marx per capire che cosa aveva davvero detto. Molti si innamorarono del giovane Marx, dei Manoscritti di Parigi. Sentivamo che l’essenza del marxismo era buona, anche se l’apparenza era cattiva. Io rigettai però aspetti molto importanti di Marx come il paradigma della produzione, del lavoro, il proletariato come soggetto della rivoluzione. Invece di rivoluzione politica, parlavo di rivoluzione della vita quotidiana. Insomma sono diventata una "new leftist" prima che la "nuova sinistra" si sviluppasse nel ‘68, e ho cominciato ad allontanarmi da Marx, a guardarlo in maniera assolutamente critica».
Si sente ancora marxista?
«Non sono marxista, e forse non lo sono mai stata nel senso ortodosso del termine, come dicevano i dirigenti del partito. In questo il partito aveva ragione… Non sono nessun “ista”, sono semplicemente me stessa. Un giorno a Foucault chiesero se era strutturalista o poststrutturalista, lui rispose io sono Foucault. Io sono Ágnes Heller».
Di fronte alla crisi della società liberale, forse anche per disperazione e pentimento, qualcuno ricomincia a parlare di Marx. E’ possibile riscoprirlo?
«Marx è stato uno dei più significativi pensatori del XIX secolo, può continuare a essere letto, e reinterpretato. E farlo non significa necessariamente essere marxisti. Se leggi Hegel, non per questo sei hegeliano. Può ancora essere utilizzato? La questione è aperta. Ho un atteggiamento ambivalente nei suoi confronti, credo che per certi versi sì, e per altri no. La sua descrizione del capitalismo è ancora molto valida, ma ciò che disse a proposito del collasso del capitalismo, della rivoluzione proletaria, della società comunista, è irrilevante».
E’ stato difficile vivere e fare filosofia lontano dal suo Paese?
«Sono stata lontano dal mio Paese dal ’79 all’89. Dieci anni non sono granché. E’ stato più difficile fare filosofia quando vivevo “nel” mio Paese, perché non ero libera di frequentare biblioteche, discutere. Parlare di “Paese” è comunque più importante dal punto di vista politico che filosofico, la filosofia è qualcosa di molto generale. Se vai a Teheran, in Cina, trovi persone interessate agli stessi problemi che ci sono a New York o Londra. La forma specifica nel “mio Paese” è politica, perché non sono solo una filosofa, sono anche una cittadina. Interagisco con la società civile nella quale vivo, con i miei simili. Amo avere contatti con gli altri. Sono molto presente nei mass media, dove cerco di usare un linguaggio poco filosofico per essere compresa da tutti».
Il filosofo può cambiare il mondo?
«Forse è meglio che non abbia l’ambizione di farlo, nelle società bolsceviche ci sono stati esempi e s’è visto com’è andata a finire».
Nella sua lezione di oggi, a Torino, sul corpo, lei sfiora i temi che la appassionano da decenni, i bisogni emotivi, le relazione tra gli esseri umani…
«Da Aristotele, che ha lodato l’autokephalos, l’uomo che non ha bisogno di altri uomini, fino a Kant, che ci consigliò di abbandonare i nostri sentimenti e di obbedire solamente al comando della “ragion pura pratica” dentro di noi, la perfetta autonomia di ogni singolo essere umano è stata concepita come l’apice della perfezione. Ma lo è? La maggior parte dei filosofi concorda sul fatto che non possa esserlo e che, quand’anche lo fosse, non si potrebbe sapere se essa sia stata veramente raggiunta. Quello che voglio dire è diverso: la perfetta autonomia individuale trasformerebbe gli esseri umani in mostri».
Infine da INFORMAZIONE CORRETTA del 14 novembre 2008 riportiamo l'articolo di Sergio I. Minerbi, "Il tentativo di cristianizzare la Shoah"
 
Chiesa in vittima dei Nazisti. Poi venne il comunismo in Polonia ed entrambi comunisti e cattolici polacchi vollero appropriarsi della memoria della Shoah. Nellenumerazione delle vittime di Auschwitz c’erano tutte le nazionalita` delle vittime. Mancavano solo gli Ebrei.

Il Vescovo di Cracovia, Karol Wojtyla, propose già nel 1971 di erigere una Chiesa o un luogo di culto ad Auschwitz dove erano morti il sacerdote Maximilien Kolbe ed Edith Stein, un’ebrea convertita.

Il 7 Giugno 1979 diventato Papa Giovanni Paolo II, egli visitò Aushwitz e pronunciò l’Omelia di Brzezinka durante la quale disse “Io vengo e mi inginocchio su questo Golgota del mondo moderno”. Si ricorderà che il Golgota è quella collina di Gerusalemme dove un Ebreo fu crocefisso per dar vita al Cristianesimo.Dovremmo quindi dedurne che milioni di Ebrei furono uccisi per rafforzare la Cristianità? Poi il Pontefice continuo:”Sei milioni di Polacchi hanno perso la vita durante la Seconda Guerra Mondiale: un quinto della nazione”. La cifra simbolo della Shoah, sei milioni di Ebrei uccisi, diventa invece il simbolo del martirologio Polacco Cattolico. Il procedimento non è nuovo:basti pensare alla teoria della sostituzione professata per secoli dalla Chiesa, in base alla quale i Cattolici hanno sostituito gli Ebrei e sarebbero divenuti “verus Israel”.

 La lunga Marcia per la Cristianizzazione della Shoah continuò con la beatificazione di Edith Stein il 1 Maggio 1987. Il Papa cercò di convincere che essa fu nello stesso tempo una grande figlia del popolo Ebraico e una grande Cristiana, era la martire ricercata per provare che la Chiesa fu vittima del Nazismo, e soprattutto Auschwitz diventa il luogo del martirologio cristiano..

Secondo Paul Blanquart affermare che uccidendo gli Ebrei , i Nazisti volessero colpire la Cristianità,   è parte della questione che fa beneficiare la Chiesa degli orrori di Auschwitz.. Questo concetto è incluso nell’articolo scritto dall’allora Cardinale Ratzinger sull’Osserrvatore Romano del 29 Dicembre 2000, nel quale è detto”

“Perfino l’esperienza della Shoah, accaduta di recente, fu eseguita in nome di un’ideologia anticristiana che tentò di colpire le radici abramiche della fede cristiana, colpendo il popolo di Israele”.Questo è un concetto inammissibile , come se si trattasse di una partita di biliardo planetaria.

Venne poi la questione del Carmelo di Auschwitz che dopo lunghe discussioni fra Ebrei e Cattolici negli anni 1987-89, fu spostato di circa 500 metri.. Scrive a questo proposito Theo Klein che partecipò attivamente al dialogo: “La Chiesa voleva istallare le sue istituzioni sui luoghi della nostra catastrofe ed includere i nostri morti nella sua liturgia.”                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         

Per completare il processo che farebbe della Shoah un evento cattolico, manca ancora un tassello: la beatificazione di Pio XII. La Chiesa vuole provare al mondo che  non solo fu essa vittima del Nazismo, ma anche fu un santo chi ne era a capo durante la Seconda Guerra Mondiale. Ciò completerebbe il ciclo e mentre ci sono ancora dei superstiti della Shoah viventi, si vuole riscrivere la storia

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