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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Dibattito su un nuovo genere letterario: il "Viaggio in Palestina"

Botta e risposta tra un giornalista del MANIFESTO e l'autore di una critica a un suo pezzo pubblicata da Informazione Corretta.
Di seguito, la lettera del giornalista

Salve.
Sono l’autore della storia che tanto vi ha fatto rabbrividire.
Un amico mi ha segnalato della vostra gentile recensione.
Vi rispondo rapidamente fra le righe, in stampatello per chiarezza.
Cedendo alla struggente nostalgia di un’epoca in cui i mulini erano bianchi ed il sionista sempre invasore, Il manifesto del 4 aprile 2006 ha pubblicato una “storia” ambientata nella Palestina occupata. Cioè nella striscia di Gaza, però prima del ritiro israeliano. Anche se l’autore della “storia” non parla mai né del ritiro dei soldati, né di quello dei coloni.

PREGO?
LA STORIA RACCONTATA PARLA DI PALESTINESI DELLA WEST BANK. E’ CHIARAMENTE SCRITTO CHE VENGONO DA RAMALLAH. IL PULLMAN PARTE DA QUALANDIA. COSA C’ENTRA GAZA?
 
PALESTINA
Una gita al mare, dal nemico
Un gruppo di ragazzi che vogliono andare al mare, a qualche chilometro da casa, in Israele. E' passato solo qualche mese, ma sembra un secolo: oggi sarebbe impossibile
STEFANO COLLIZZOLLI
Questa è una storia di un secolo fa. Di quando aveva senso raccontare l'avventura, straordinaria ma non impossibile, di un gruppo di palestinesi dei Territori Occupati a spasso per Israele. Di quando al check point di Qalandia, dalla strada per Gerusalemme, da quella per Gerico, da quella per Ramallah, confluivano migliaia di persone, ad alimentare un'economia frenetica di taxi collettivi, di scambi e di piccoli commerci. Ora, entro il 2007, Israele conta di poter fare a meno anche del residuo lavoro palestinese. E la nuova «frontiera internazionale» di Qalandia, inaugurata il 22 dicembre scorso, è un non-luogo ipertecnologico di grate e vetri antiproiettile in cui, semplicemente, non si passa.

I toni apocalittici destinati allo Stato ebraico non vengono impiegati per parlare di “Stati amici” ed arabi. Anzi, non si menziona nemmeno il fatto che i palestinesi non trovano lavoro nemmeno nel confinante Egitto, che continua ad importare manodopera dal Pakistan. Il lettore della “storia” deve aver chiaro chi è il responsabile delle sofferenze palestinesi.

IO STO RACCONTANDO LA STORIA DI PALESTINESI IN GITA IN ISRAELE, NON IN GITA IN GIORDANIA O IN EGITTO. 
 
Questa è una storia di sei mesi fa. Una favola.
Qalandia, 6.50 di mattina: ci sono già tutti.
Donne, ragazze, bambini, qualche adolescente in crisi ormonale aggravata dall'Islam: trentotto esseri umani della West Bank, che hanno noleggiato un torpedone per andare in gita al mare. Distante una cinquantina di chilometri. Normale, se non che comporta l'andare per Israele.
L'ulima visita «là»
Tutti, nel pullman, a chiederlo, ricordano con molta precisione la loro ultima visita là.
«E` stato otto anni fa», mi dice Faisal, insegnante di arabo a Ramallah, che ha già fatto lo stesso mestiere negli States, prima di trasferirsi in Giordania e poi nei Territori «prima della seconda intifada, siamo stati con mio marito due giorni a Tel Aviv».

 Teniamo presente questa insegnante, che ha potuto vivere e lavorare negli USA. E proseguiamo la lettura.

“HA POTUTO VIVERE E LAVORARE...”
FANTASTICO
ADESSO E’ UN PRIVILEGIO!
LA FAMIGLIA DI QUESTA INSEGNANTE E’ DOVUTA FUGGIRE DALLA PALESTINA IN SEGUITO ALLA GUERRA DEL ‘67.
MOLTISSIMI DEI FUGGITI NON POSSONO ANCORA TORNARE.
ALCUNI CI SONO RIUSCITI (ED ORA SONO BLOCCATI LA’).
STO PARLANDO DI DIASPORA PALESTINESE... UN FENOMENO NON TROPPO DISSIMILE A QUELLO DELLA DIASPORA EBRAICA... MI STUPISCE ABBASTANZA CHE NON RIUSCIATE A CAPIRE
 
Oggi il marito non c'è, naturalmente. Fino alla seconda intifada, mezza Palestina lavorava in Israele, ed ora è pressoché impossibile per un uomo della West Bank o di Gaza entrarci.
A fianco di Faisal c`è Mahmud, suo allievo. Un dodicenne sveglissimo, con cui chiacchiero a lungo in castigliano: è nato in Spagna e c'è rimasto per dieci anni. Lui, che abita a sei chilometri dal confine, non è mai stato in Israele.

E teniamo presente anche quetso palestinese, figlio di palestinesi, nato in Spagna.
COME SOPRA
 
Partiamo dal lato israeliano del check point; i partecipanti, che vengono in maggioranza da Ramallah, l'hanno già passato a piedi. Prendiamo la superstrada per Tel Aviv. E` larga, sgombra, scorrevole. Nemmeno una buca. Sembra un sogno. A lato, una barriera di griglia di ferro, alta due metri e mezzo, con la punta piegata verso l'esterno. E` una strada riservata; il suo uso è ristretto - vale a dire sostanzialmente proibito - ai palestinesi. Al check point successivo (quello di Beit'unia e oltre sarà Israele) c'è un po' di tensione. Certo, il pullman ha tutti i documenti necessari, la gita è dichiarata ed ha ricevuto uno speciale permesso, nessuno dei partecipanti ha precedenti con Israele, tutti hanno il loro bravo ID a posto e il loro permesso temporaneo - tutti, salvo uno. Fortunatamente, il ragazzino in uniforme al check point è di buon umore: controlla i documenti generali, scherza in arabo, sorride, augura buona giornata e scende. Si va.
L'atmosfera, nel bus, è quella che potrebbe essere in una gita scolastica all'italiana senza professori. La tv spara un videoclip dopo l'altro, a volume altissimo. Sono clip libanesi e, soprattutto, egiziani. La musica egiziana tira di più, mi spiega Faisal: è più ritmata, più ballabile. Tutti, ragazzi, donne e bambini, si batte le mani a ritmo e si canta; qualcuno balla nel corridoio. Mahumd è scatenato. Anch'io vengo coinvolto in una danza che piega in due dalle risate l'intero bus. Torno al mio posto senza nemmeno arrossire per la figura da lavatrice sovraccarica: l'atmosfera è talmente informale e dolce da permettermi d'essere ridicolo senza vergogna.
Con qualche esitazione e dopo incitamenti stile coro da stadio, ballano anche le ragazze - alcune ragazze, quelle senza velo, truccate e tirate come se fosse sabato notte, che convivono con tranquillità con altre, velate, serenamente tradizionaliste, come Hamani, psicologa. Il 60% preso da Hamas alle ultime elezioni, su questo non è indicativo: la società palestinese è solidamente laica.

E teniamo presente che la società palestinese è “solidamente laica” anche se il 60 %  ha votato Hamas. Dopotutto siamo in Terra Santa, e a tutti piace ripetere i dogmi della propria fede. Che non ci venga in mente che alcune ragazze “truccate e tirate” possano far parte del rimanente 40 %.

QUESTO NON E’ UN ARTICOLO DI ANALISI DEL VOTO PALESTINESE. E’ IL RACCONTARE UNA STORIA.
AD OGNI MODO, LA GRANDE MAGGIORANZA DATA AD HAMAS (CON MIA PERSONALE DISPERAZIONE, SE VOLETE SAPERLO) DIPENDE IN PICCOLA PARTE DA MOTIVI RELIGIOSI.
 

Le madri le guardano imparzialmente benevole e continuano a tirar fuori il cibo cucinato per l'occasione: focacce farcite con l'erba za`har, hotdog impastati ed infornati, frutta e mille altre cose.

Un panino con uova e melanzane
Attorno, scorre Israele. Terra nemica, terra proibita. Terra in cui i «nemici» smettono l'uniforme, tornano a casa, al lavoro, a giocare a basket o a farsi un panino con uova e melanzane per strada.
Lo speaker del torpedone annuncia l'aeroporto Ben Gurion. Solo io nel pullman potrò vedere com'è fatto dentro: nessuno degli altri c'entrerà mai: non si fugge da questa terra,

Già, da questa terra non si fugge. Però sappiamo di palestinesi che vivono e lavorano in Spagna, e di altri palestinesi che fanno gli insegnanti (non i manovali) negli USA.

o si fugge da Amman, ma è complesso e nessuno lo desidera. Lo speaker annuncia la città di Tel Aviv, che un tempo era Jafa; alcuni del gruppo provengono da lì, hanno forse in famiglia una nonna che, come nell'iconografia, serba le chiavi di una casa che non vede più dal 1948.

Le chiavi delle case abbandonate nel 1948 sono un elemento ricorrente della retorica dei sostenitori italiani della causa palestinese. Curiosamente si è cominciato a parlarne nel 1992, quando alcune famiglie di ebrei sefarditi mostravano alla stampa le chiavi delle loro case abbandonate cinque secoli prima. Il tanto parlare di ebrei cacciati dalle case ha stimolato in qualcuno il senso di emulazione.

MAH, GUARDA IO LE HO VISTE, LE NONNE CON LE CHIAVI.
FORSE AVEVO LE TRAVEGGOLE.
COMUNQUE PARLARE DI “ICONOGRAFIA” SIGNIFICA PROPRIO PARLARE DEI MITI NAZIONALI DI UN POPOLO.
UNO DEI MITI NAZIONALI DEI PALESTINESI E’ PROPRIO QUESTO.
IO HO SEMPLICEMENTE OSSERVATO UNA TOTALE INDIFFERENZA DI UN GRUPPO DI PALESTINESI A PROPOSITO DI QUESTO MITO
 
Lo speaker annuncia l'area di servizio con il ristorante Maxim, dove ai tempi della prima intifada è esplosa una delle prime bombe umane; e in nessun caso la reazione è paragonabile all'eccitazione causata, non solo nei bambini, dal passaggio di un treno.

Dal ridicolo passiamo al macabro. Non è che “si è fatto esplodere un kamikaze palestinese”, no. Passava di lì una “bomba umana” e, probabilmente per la perfidia dell’occupazione sionista, “è esplosa”. E in ogni caso, che volete che sia: per i bambini palestinesi –e non solo per loro- il passaggio di un treno è molto più eccitante della morte di qualche ebreo. Questo è il popolo pronto alla convivenza fianco a fianco con gli israeliani ?

PER IL GRUPPO DI PALESTINESI CON CUI SONO ANDATO IN GITA, QUALSIASI COSA AVESSE A CHE FARE CON IL CONFLITTO – FOSSE LA RIVENDICAZIONE DI GIAFFA O UN KAMIKAZE ERA MENO INTERESSANTE DI ALTRE, PIU’ QUOTIDIANE COSE. TUTTO QUA.
RIPETO: NON HO SCRITTO UN PEZZO SUI KAMIKAZE, NE’ SUL RITIRO DA GAZA, NE’ SULLE PRETESE SIONISTE, NE’ SU QUELLE PALESTINESI.
HO SEMPLICEMENTE RACCONTATO UNA STORIA.
 
Non si avverte nostalgia, né rivendicazione; solo una vaga tristezza, accettata come faccia parte dell'ordine delle cose. Le emozioni si catalizzano invece verso la fine della giornata: dopo le visite e le grandi mangiate si noleggerà una barca musicale, che porterà lontano da tutto. Lontano dalla contesa sulle colline asciutte di Giudea e Samaria, in un luogo dove attorno ci sia solo acqua e musica, a ballare.
Si fa tre volte il conto dei soldi, si chiama la barca una prima volta alle undici, e prima dell'una di pomeriggio la gita è prenotata: alle sette di sera precise, al molo di Akko.
Dopo varie tappe e la visita di Haifa, c'è una lunga sosta in riva al mare. E` freddo e ventoso e l'acqua, a dire il vero, è un po' sporca. Ma non è per questo che nessuno fa il bagno. Semplicemente è che non hanno un cambio completo con sé. E svestirsi per entrare in acqua, per questa borghesia di Ramallah, è assurdo ed impensabile. Ne parlo con Hamani, che arrossisce e ridacchia. Ventiquattro anni, laureata, ha visto molta più vita e più morte di me ma sembra una tredicenne nelle risatine e nei commenti sottovoce che fa chiacchierando di uomini con le altre ragazze; ed è sempre un discorso un po' clandestino, che provoca un certo vergognoso compiacimento.

Nessuno è in costume
Mi chiede, con il pudore interculturale di chi esplora abitudini un po' ributtanti ma non vuole offendere: ma perché, davvero da voi la gente al mare si toglie i vestiti? Tutti?

Non dimentichiamo quello che è stato scritto poco sopra. I palestinesi lavorano all’estero, in Spagna e negli USA,  ma probabilmente non hanno mai visto una spiaggia. Questa ragazzina considera ributtante, assurdo ed impensabile, togliersi i vestiti per entrare in acqua. Chissà se fa parte del 60 % che ha votato Hamas oppure se è della parte “solidamente laica”

NON “TUTTI I PALESTINESI” LAVORANO ALL’ESTERO, COME SE POTESSERO ANDARE E VENIRE.
ALCUNI SONO DOVUTI FUGGIRE E SONO RITORNATI, ALTRI SONO FUGGITI E STANNO IN ESILIO, ALTRI ANCORA NON SONO MAI USCITI DALLA WB. HAMANI FA PARTE DI QUEST’ULTIMA CATEGORIA.
E UNA COSA E’ LA FEDE ISLAMICA, UN’ALTRA I COSTUMI SOCIALI DI UN PAESE. 
 
In effetti, qua nessuno sulla spiaggia è in costume. Niente a che vedere con gli ettari di splendida carne nuda esposti orgogliosamente ad arrostire sul lungomare di Tel Aviv.

 
Fine retorica: il pudore delle ragazzine palestinesi, contrapposto alla carne di israeliani, esposta ad arrostire. Che magari si lamentano pure se ogni tanto esplode una “bomba umana”

MAH.
RILEGGO LA MIA FRASE E NON LA TROVO ASSOLUTAMENTE VALUTATIVA (SE NON NELL’AGGETTIVO “SPLENDIDA”, CHE NON MI SEMBRA COSì NEGATIVO).
PERSONALMENTE, DA ITALIANO SONO PIU’ VICINO ALLA CARNE NUDA CHE AL BAGNO VESTITI. CHE IN QUESTO CASO COINVOLGE TANTO PALESTINESI QUANTO ISRAELIANI. LA CONTRAPPOSIZIONE E’ FRA ISRAELIANI ED ISRAELIANI, QUA. 
 
Mi spiega Hisham, uno degli organizzatori della gita, che questa spiaggia è stata scelta apposta, ci vengono al mare ebrei religiosi. Neppure loro si spogliano. Qualcuno fa il bagno, vestito e con la kippah. Sarà una buona scelta per il senso del pudore dei palestinesi, ma non ci si sente a proprio agio.

 
I palestinesi, sia chiaro, sono “solidamente laici”. Sarà per questo che la vista di ebrei religiosi li mette a disagio ?

MAH.
IL DISAGIO ERA ASSOLUTAMENTE RECIPROCO.

Per tutta la durata della permanenza in spiaggia - che si risolve in un pantagruelico pic-nic sui tappeti, sotto alle tamerici - abbiamo addosso lo sguardo pesante, diffidente delle altre famiglie al mare.
Akko, la S. Giovanni  d'Acri dei crociati, è deserta, abbandonata. Per le strade povere, con attorno case squadrate, antiche, abbacinate dal sole e da un'antichissima miseria, non c'è nessuno, salvo degli alienati fuori dal tempo.
Un uomo palestinese obeso, a pancia nuda, ci ferma per proclamare che la moschea di Al Aqsa è sua madre, suo padre, sua sorella, suo fratello e il suo migliore amico. Gerusalemme non mi è mai sembrata così remota come dal suo tatuaggio sul ventre, che ansima lento, allucinato.

L’incontro con un palestinese a pancia nuda potrebbe farci rivedere il ritratto un po’ edulcorato delle pudibonde ragazzine, solidamente laiche perché solidamente laica è la cultura palestinese. Ma per evitare questo rischio, l’autore menziona Gerusalemme, in modo che il nostro pensiero si faccia prendere da sentimenti elevati. Attenzione, mica sta dicendo che i palestinesi vogliono cacciare gli ebrei dall’unica città al mondo in cui la popolazione è sempre stata di maggioranza ebraica ! E’ solo un tatuaggio e, in ogni caso, roba lontana

RIPETO, E’ UNA STORIA.
MICA HO L’OBBLIGO PER OGNI FRASE DI SEGNALARE TUTTO IL BACKGROUND STORICO... TRATTANDOSI DI ISRAELE-PALESTINA, CI VORREBBE UN ENCICLOPEDIA, NON SEI COLONNE SU UN GIORNALE.
AD OGNI MODO, SE PROPRIO VOGLIAMO PARLARNE, QUELLO CHE FATTUALMENTE STA ACCADENDO, E’ CHE GLI ISRAELIANI STANNO CACCIANDO I PALESTINESI DA GERUSALEMME.

Oltre, una donna di mezza età col lo sguardo furioso ci chiede dieci shekel. Rifiuta il pane, vuole denaro. Ci maledice a lungo, lamentosamente.

Questa donna avida, che vuole denaro e rifiuta il pane, sarà araba oppure ebrea ? “Palestinese” era il signore obeso di una riga sopra… Comunque, sia chiaro, questa fastidiosa signora vuole denaro israeliano.  

MA GUARDA CHE STRANO!
UNA SIGNORA CHE VIVE IN ISRAELE VUOLE DENARO ISRAELIANO!
COSA DOVEVA CHIEDERMI, DOLLARI AUSTRALIANI?

Vaghiamo a lungo per le rovine di Akko, battute dal sole, puzzolenti come un'acquaforte di Piranesi, bellissime. E finalmente arriva il momento della barca. Tutto il gruppo è al molo, in un tramonto spettacolare e triste, con venti minuti di anticipo. La barca non si vede. C'è solo la luce radente, levantina, meravigliosa del tramonto e un gruppo di ragazzi israeliani, tutti vestiti di blu, che aspettano con noi. Sono sull'alternativo, hanno zaini e chitarre e dreadlocks, ragazzi e ragazze si coccolano sul molo come nessun palestinese, per quanto secolare, oserebbe fare.

E dopo gli ebrei religiosi, ecco l’incontro con gli israeliani laici. Certo, sarebbe meglio se evitassero di pomiciare di fronte alle “solidamente laiche” ragazze palestinesi… 
E CHI LO DICE?
IO DICO SOLO CHE POMICIANO, NON SE FANNO BENE O SE FANNO MALE


Distanza di sicurezza
Fra i due gruppi c'è una specie di distanza di sicurezza, ma nessuna tensione, apparentemente. Prenderemo la stessa barca ed insieme balleremo in mezzo al mare, nel dolce e drogato tramonto del Mediterraneo orientale. Ogni sorta di tono d'azzurro ci circonderà e tutto sarà come una favola.
Chiacchiero lento, con il mio povero arabo e molti gesti, con la madre di Hamani, una figura sottile, fasciata di bianco e d'azzurro.

 
L’autore chiacchera “lento, con il suo povero arabo e molti gesti”. Chissà come ha fatto, con il suo “povero arabo” a comprendere che i bambini sono più eccitati per il passaggio del treno che per il ricordo di un attentato, a penetrare il “pudore interculturale” della ragazzina che, ci si assicura, convive in assoluta tranquillità con la maggioranza delle coetanee, fasciate nel chador. Chissà se il “povero arabo” dell’autore gli ha permesso di comprendere bene quello che diceva su Gerusalemme…

SEGNALO L’ESISTENZA DI UNA LINGUA CHIAMATA INGLESE, CHE FUNGE DA MEDIUM INTERNAZIONALE DI SCAMBI LINGUISTICI.
TALE LINGUA E’ PARLATA COME LINGUA SECONDA DA UN PAIO DI MILIARDI DI PERSONE AL MONDO.
TRAMITE TALE LINGUA E’ POSSIBILE COMUNICARE ANCHE CON PERSONE CHE HANNO UNA PRIMA LINGUA DIVERSA DALL’ITALIANO.
 

In qualche modo, nonostante il continente linguistico e la galassia culturale, riusciamo pure a scherzare assieme: sul matrimonio della figlia con me, naturalmente. Hamani arrossisce e si schermisce. E la barca arriva.
Dolce nel tramonto arriva, circondata da azzurri. Con la colonna sonora della Strada di Fellini, arriva, a volume spiegato sopra le onde, come una visione. Attracca.
La ciurma è araba: palestinesi d'Israele.

E anche questa è una espressione deliziosa. In Israele i lavori pesanti non li fanno gli ebrei, per cui i marinai sono arabi. Inoltre, dal momento che lavorano per il nemico, si tratta di una “ciurma”, non di lavoratori marittimi. 

EMBE’? TRATTAVASI DI MARINAI ARABI. E ALLORA?
LA COSA NON E’ NEMMENO TROPPO STUPEFACENTE, DATO CHE AD AKKO LA MAGGIORANZA DELLA POPOLAZIONE E’ ARABA.
 

La discussione è semplice. Non faranno salire i ragazzi ebrei con i palestinesi. Perché, chiede Hisham. Perché no, rispondono, non vogliamo casini. Non ci saranno casini. Sì, come no, ma non vi faremo salire assieme. Va bene, allora andiamo, dice Hisham. No, venivano prima gli israeliani, risponde la ciurma. Non è possibile, replica Hisham, quando abbiamo prenotato era libero per le sette, quindi è evidente che veniamo prima noi. No, venivano prima loro. I ragazzi salgono, con le loro chitarre e i loro zaini da backpacker ed i loro dreads. Non hanno potuto seguire lo scambio in arabo, salgono pacifici, senza sapere d'essere complici di un piccolo, ordinario gesto di razzismo.

Ecco la parola chiave, presentata nell’ultima riga di questa “favola” (così la definisce l’autore) che come ogni “favola” ha una sua morale. Gli israeliani sono inconsapevoli: non hanno potuto seguire lo scambio in lingua araba - l’arabo è una delle lingue ufficiali di Israele (come sa chi ha mai preso in mano una banconota israeliana), una vasta percentuale di israeliani conosce e parla l’arabo, all’inizio della favola un soldato israeliano addirittura scherzava in arabo. Ma tutto questo nel testo non c’è.

MAH, NONOSTANTE SIA INSEGNATO NELLE SCUOLE, HO TROVATO POCHISSIMI ISRAELIANI CHE PARLASSERO EFFETTIVAMENTE UN PO’ D’ARABO.
AD OGNI MODO, QUA FACCIO AUTOCRITICA: SAREBBE STATO MEGLIO SCRIVERE : “
... E I loro dreads. FORSE Non hanno potuto seguire lo scambio in arabo, salgono pacifici, senza sapere d'essere complici di un piccolo, ordinario gesto di razzismo.

C’è però, proprio nell’ultima riga, la parola “razzismo”. Che però non è quello dei “solidamente laici” palestinesi, i quali non tollerano di mangiare accanto a degli ebrei

CHI è CHE NON TOLLERA COSA? DOVE VIENE SCRITTO QUESTO NELL’ARTICOLO?
 
 E la nave va. Come in un film di Fellini, con la colonna sonora di un film di Fellini, la nave va.
E noi, sul molo.

Terminata la lettura di questa “storia” viene da chiedersi: a meno di una settimana dalle elezioni, come mai Il manifesto, quotidiano comunista, ha deciso di dedicare una pagina intera per raccontare una storia di sei mesi fa ?

MAH, FORSE perché STUFO DI UNA DELLE PIU’ BRUTTE CAMPAGNE ELETTORALI DAL DOPO GUERRA A QUESTA PARTE.
AD OGNI MODO, è DA CHIEDERE ALLA REDAZIONE DEL GIORNALE, IO NON DECIDO RIGUARDO ALLA PUBBLICAZIONE.

PER FINIRE:
TROVEREI CORRETTO CHE VOI PUBBLICASTE LA MIA RISPOSTA, MA NON CI SPERO. MI BASTA APRIRE UN DIBATTITO, CHE E’ SEMPRE COSA SANA.
QUELLO CHE NON CAPISCO E’ QUESTA OSSESSIONE A TROVARE ANTISEMITISMO OVUNQUE, ANCHE DOVE PROPRIO NON C’è.

STEFANO

Di seguito, la risposta di Informazione Corretta:

Il  “viaggio in Palestina” è genere letterario piuttosto popolare nell’area della sinistra che fu extraparlamentare ed in alcuni settori della stampa cattolica. Si tratta tipicamente di un resoconto autobiografico in cui l’autore fornisce una versione di quanto accade “in Palestina”, attraverso scene di vita quotidiana di cui asserisce di essere stato testimone diretto. Gli autori solitamente informano i lettori di aver trovato “in Palestina” proprio quello che loro si apettano di trovare. Questi articoli non mirano ad informare, non forniscono cifre o dati. Solleticano  le emozioni, raccontano episodi esemplari per rafforzare le convinzioni dei lettori, che solitamente hanno già deciso chi ha ragione e chi ha torto. L’articolo, anzi la “storia”, intitolata Una gita al mare, dal nemico pubblicata da Il manifesto del 4 aprile 2006 e firmata da Stefano Collizzolli, è un esempio di questo genere letterario. Chi scrive si è divertito a metterne in risalto le contraddizioni, L’autore se ne è avuto a male ed ha inviato alla redazione di Informazione Corretta una mail che, a suo modo, è anche un segnale di buona volontà – si tratta infatti della prima volta che qualcuno del Manifesto si prende la briga di rispondere a Informazione Corretta. Collizzolli addirittura spiega ai lettori cosa davvero voleva dire; così io mi prenderò la briga di spiegare perché non trovo convincenti le sue puntualizzazioni e come mai la sua “storia” appartiene allo stucchevole genere letterario del “viaggio in Palestina”.

 

 

La “storia” è stucchevole perché è retorica, perché non racconta vicende di vita quotidiana, come vorrebbe, ma ripete degli scontati luoghi comuni retorici. La retorica prende la mano all’autore come in tanti altri “viaggi in palestina”. Persino quando Collizzolli racconta di palestinesi che vivono e lavorano in Europa o negli USA, deve ripetere che i palestinesi non possono mai lasciare quella terra. A chi gli fa notare la contraddizione risponde iracondo: “fantastico - adesso è un privilegio!”. Naturalmente chi scrive non ha parlato di privilegi, e nemmeno di diritti: ha solo fatto notare una contraddizione. Ma l’autore deve ripetere che i palestinesi non possono entrare negli edifici dell’aereoporto Ben Gurion, nemmeno quando devono partire per gli USA. Probabilmente ci vanno a nuoto. Non contento di aver sottomesso la realtà alla retorica, il Collizzolli si picca addirittura di leggere nella mente dei lettori, o perlomeno nella mia. Ma io non parlavo di previlegi; e quand’anche ci fossero di mezzo dei previlegi, sarebbe comunque interessante per i lettori scoprire delle storie individuali che contraddicono le narrazioni collettive. Racconti di questo tipo costituiscono gran parte della migliore letteratura contemporanea da Coetzee a Yehoshua. Ma Collizzolli non riesce a raccontare la realtà, perché è preso dalla sua missione di spiegare il mondo ai lettori. Lui infatti vuole spiegare delle cose sui palestinesi e, nonostante il titolo, ci racconta poco su questa gita.

 

 

Per esempio: sappiamo che tra gli organizzatori c’è un certo Hisham, per il quale probabilmente Israele non è quella “terra nemica, terra proibita”, dal momento che ha saputo trovare una spiaggia priva di “splendida carne nuda”. Collizzolli, per il quale comunque Israele è terra nemica, non ci dice se le simpatie di Hisham inclinano verso la laica Al Fatah, come presumibilmente quelle delle famiglie di “alcune delle ragazze (quelle senza velo)” oppure se le posizioni di questo organizzatore sono più simili a quelle delle “altre, velate, serenamente tradizionaliste” e guarda caso più mature, come una psicologa di nome Hamani che fa parte della comitiva. Noi lettori italiani conosciamo bene alcune vicende tipicamente mediterranee, p. es. le colonie marine organizzate da amministratori democristiani. E quando la gita è stata organizzata (ma da chi ?) si avvicinavano le elezioni, poi vinte da Hamas. Ora,  potrebbe anche darsi che Hisham sia privo di simpatie politiche dichiarate, il che lo renderebbe un imprenditore turistico come ce ne sono tanti nei Paesi mediterranei (toh, guarda, nella West Bank esiste la libertà di impresa…) ma allora perché non dire qualcosa di più  su di lui ? Perché, come in infiniti altri resoconti di “viaggi in Palestina”, le convinzioni dell’autore (e dei lettori) si sostituiscono ai fatti. Invece di raccontare cosa ha visto, Collizzolli ci dice cosa se ne deve pensare. “Il 60% preso da Hamas alle ultime elezioni, su questo non è indicativo: la società palestinese è solidamente laica”. Di fronte ai dubbi dei lettori, l’autore non chiarisce, ripete le sue convinzioni: “la grande maggioranza data ad Hamas dipende in piccola parte da motivi religiosi” e ci aggiunge una considerazione in seconda persona plurale – sta forse pensando di rivolgersi a una moltitudine ?- “con mia personale disperazione, se volete saperlo”.  Io avrei voluto leggere qualcosa di più nella sua “storia” ambientata tra palestinesi poco prima del disperante risultato elettorale. Ma niente, sul bus non si parlava di politica. Sembra di trovarsi in epoca fascista, sotto uno dei famosi cartelli.

 

 

I lettori del Manifesto sanno bene che, quando non si parla di politica, si esprime comunque una posizione. Infatti Collizzolli ci spiega, se non la posizione dei palestinesi, perlomeno la sua. “Lo speaker annuncia l'area di servizio con il ristorante Maxim, dove ai tempi della prima intifada è esplosa una delle prime bombe umane; e in nessun caso la reazione è paragonabile all'eccitazione causata, non solo nei bambini, dal passaggio di un treno.” Quando ho letto questo passaggio sono rabbrividito. Collizzolli descrive un gruppo di palestinesi di tutte le generazioni (psicologi ed organizzatori inclusi), compresi i bambini, che non trova nulla di biasimevole nella pratica delle bombe umane; è come se dicessero che dopo tutto mica sono i loro morti, quindi perché dovrebbero preoccuparsene…  Incredulo, ho chiesto a Collizzolli: questa è la gente pronta a vivere fianco a fianco con gli israeliani ?  E lui non ha risposto, anzi, ha solo ripetuto la sua opinione: questa gente “è interessata ad altre, più quotidiane cose”. Probabilmente qualcuno gli avrà detto nel corso di una conversazione (in arabo stentato oppure in inglese ?): “non ci interessa parlare degli attentati”, ma questo qualcuno chi era ? La psicologa ? L’organizzatore ? L’obeso incontrato tra le rovine ? Personalmente sono curioso di sapere cosa ha visto e sentito Collizzolli, sempre ammesso che abbia posto di queste domande. E, altrimenti, vorrei sapere come mai non le ha poste, ma si è fatto raccontare da “tutti, nel pullman” i dettagli della “loro ultima visita là”, nella “terra nemica”, anche se, beninteso, lui non è interessato a ricostruire “tutto il background storico”.

 

 

Nella sua puntualizzazione, Collizzolli contrappone le pretese palestinesi (ma di chi? dell’organizzatore ? della borghesia di Ramallah ? della tradizionalista tranquillamente velata ?) non a quelle israeliane ma, attenzione, a quelle sioniste. Ricordiamo il contesto storico, che all’autore non piace poi molto: qualche mese dopo questa gita, in cui non si è parlato di politica, i palestinesi hanno votato a grande maggioranza un gruppo terroristico che rifiuta di riconoscere l’esistenza di Israele sostenendo che non di uno Stato si tratta ma di una “pretesa sionista”. Nel sostenere tale delirio il predetto gruppo si trova in compagnia dell’attuale presidente iraniano e di un concittadino di Collizzolli che risponde al nome di Franco Freda. Mai come in questi casi le parole sono pietre.  Nella pubblicistica legata ad Hamas, come nei discorsi del presidente iraniano, come nella propaganda diffusa dal noto editore patavino, non è raro imbattersi in affermazioni che attribuiscono alle “pretese sioniste” anche la fabbricazione delle camere a gas di Auschwitz, luogo che magari Collizzolli ha sentito nominare nel suo soggiorno in Palestina – o forse no, e chissà perché. 

 

 

In molti racconti del genere “viaggio in Palestina”, si parla delle sofferenze e delle morti di parte israeliana -ed ebraica, perché anche in Europa non mancano attentati alle sinagoghe, (anche se Il Manifesto non lo scrive così spesso) solamente per accusare Israele -anche- di questo. Cosa scrive Collizzolli in proposito ? Dei morti israeliani abbiamo già visto. Non scrive un bel nulla: gli interessano altre, più quotidiane vicende. Ma cosa scrive l’autore a proposito degli israeliani vivi ? Come sono rappresentati in questo “viaggio in Palestina”? Ci sono quelli religiosi, la cui presenza in spiaggia è accolta con disagio dai palestinesi. Ora, “sentirsi a disagio” è magari una cosa diversa da “non tollerare”, ma certo non è la premessa per una serena convivenza in un futuro che tutti vorremmo vicino, ma che purtroppo, adesso appare disperatamente lontano. Collizzolli ha così risposto alla mia domanda – “questo è il popolo pronto alla convivenza fianco a fianco con gli israeliani ?”. E ora vediamo come descrive gli israeliani. Inizia con quelli “religiosi”: tutti sanno che la stragrande maggioranza della popolazione israeliana, come in ogni Paese mediterraneo, ha un qualche legame con le pratiche religiose e che pertanto, in lingua italiana, si potrebbero definire “religiosi” anche quegli israeliani, ebrei musulmani e cristiani, che arrostiscono sulla spiaggia aborrita dai pudibondi organizzatori della gita in cui non si parlava di politica. Questi signori che in spiaggia non si spogliano e se devono fare il bagno in mare, lo fanno vestiti e con la kippah sulla testa sono, in lingua ebraica, degli haredim, termine che in italiano si potrebbe tradurre con “devoti” o anche “pii” – ma qualcuno dice “fanatici”. Non conosciamo la traduzione del termine in arabo ma sappiamo (anche se i lettori del Manifesto e di altri “viaggi in Palestina” lo ignorano) che esiste una fiorente propaganda siriana o egiziana in cui ebrei con kippah in testa massacrano a coltellate i bambini arabi per berne il sangue per i loro usi religiosi. Ho la massima comprensione per il disagio di quelle mamme palestinesi – un po’ meno per Collizzolli che, pur sapendo (e lo scrive) che da quelle parti ogni tanto salta in aria “una bomba umana”, non certo per mietere vittime tra i palestinesi, ci tiene ad informare che “in ogni caso il disagio era reciproco”. Chissà a cosa era dovuto il disagio di quegli israeliani “religiosi”. Collizzolli non lo dice: d’altronde, come si è pregiato di spiegare, non ha l’ “obbligo per ogni frase di segnalare tutto il background storico...” però informa che la Diaspora palestinese non è un fenomeno troppo dissimile da quella ebraica, concordando ancora una volta con Freda, e ci aggiunge una considerazione, chissà perché, in seconda persona plurale (“stupisce che non riusciate a capire”). Poi spiega che lui ha visto con i suoi occhi delle anziane signore palestinesi sventolare delle chiavi e dire che erano delle loro case abbandonate nel 1948 - cosa di cui non dubito affatto, lo ho pure scritto che dopo il 1992 c’è una sorta di moda.

 

 

La “storia” insomma spiega che la società palestinese è laica anche se il 60 % dei palestinesi ha votato Hamas, movimento che vuole distruggere Israele ma non c’è nulla da temere –tra i palestinesi che compaiono nel racconto, solo quello un po’ stralunato, incontrato tra le rovine, è l’unico ad urlare che vuole Gerusalemme. Collizzolli scrive cioè sul Manifesto proprio quello che i lettori del Manifesto vogliono leggere: letteratura di genere, prodotta per andare incontro ai gusti di un pubblico che si vuole edificare con racconti esemplari. Roba simile ai libretti clericali degli anni Cinquanta del Novecento, che raccontavano la guerra civile spagnola contrapponendo le gesta crudeli di un esercito malvagio, in cui militavano molte donne e non pochi ebrei, ad un popolo dai costumi semplici e frugali, profondamente religioso (cattolico, in quel caso). La buona fede di questo popolo, o meglio dei suoi autoproclamatisi rappresentanti in armi, non era mai in discussione, nemmeno quando si schierava al fianco delle armate naziste – come ha fatto il Muftì di Gerusalemme, ma Collizzolli non è interessato al background storico. Lo schema è il medesimo: da una parte c’è il Bene, incarnato questa volta dai palestinesi, mentre dall’altra ci sta il Male, satanico, imperialista e giudeo-massonico. Tutto il resto sono stereotipi di sapore esotico o, come direbbe Said, orientalisti.

 

 

Come in ogni “storia” che si rispetti, anche qui alla fine c’è una morale. All’autore non interessa il background storico, cerca di fare una lezione di filosofia. Così una mancata gita in barcam un normale episodio di vita quotidiana, che succede in tutte le località turistiche mediterranee diventa il pretesto per introdurre nientemeno che la parola razzismo. In questa “storia” gli ebrei, religiosi o “alternativi” che siano, sono comunque responsabili di razzismo nei confronti dei palestinesi. Potrebbe essere un esempio di quotidiana “banalità del male”: quanti “viaggi in Palestina” si concludono infatti con la litania sulle vittime che diventano carnefici. E d’altronde conosciamo il sottotesto: quando qualche “bomba umana” salta per aria è “difficile distinguere ragioni e torti” lo scriveva l’ineffabile Vauro, proprio su Il manifesto. Senonché a questo punto Collizzolli dimentica l’ammaestramento morale e, opportunamente sollecitato dalle osservazioni del sottoscritto, ammanisce le sue personali e surreali osservazioni sulla questione della lingua. Sostiene a più riprese che gli ebrei israeliani si mantengono sempre a tanta distanza dagli arabi da rifiutarsi persino di parlarne la lingua. Reagisce puntiglioso alle osservazioni, proclama che l’arabo è una delle lingue insegnate nelle scuole israeliane - e io gli chiedo: in quelle palestinesi si insegna l’ebraico ?. Ma, e se lo dice lui c’è da fidarsi, ha incontrato pochi (anzi: pochissimi)  israeliani che parlano arabo. Nella sua “storia” però ha parlato di lavoratori marittimi arabi (pardòn: “ciurma”) israeliani, ha spiegato che si doveva tenere una gita in “barca musicale” per cui sono stati presi degli accordi per telefono - in arabo ? dunque dall’altra parte del telefono c’era un israeliano che parlava arabo ? ma era ebreo ? sarà mica che in Israele ci sono agenzie turistiche di proprietà di arabi ? Persino i soldati “nemici” israeliani che compaiono nella sua “storia”  parlano arabo, anzi, addirittura scherzano in arabo. Però Collizzolli, è affezionato alla distanza di sicurezza tra israeliani e palestinesi, la vede sul molo e non ne sa il perché, d’altronde mica può ricostruire il background storico. Ma se lo dice lui c’è da fidarsi, ripetiamo, Collizzolli ha incontrato pochissimi israeliani che parlano arabo. Ed è anche stato capace di colmare il divario linguistico, di capire una concitata conversazione in arabo: “Non faranno salire i ragazzi ebrei con i palestinesi. Perché (…) Perché no, rispondono, non vogliamo casini. Non ci saranno casini. Sì, come no, ma non vi faremo salire assieme. Va bene, allora andiamo (…). No, venivano prima gli israeliani, risponde la ciurma. Non è possibile (…) quando abbiamo prenotato era libero per le sette, quindi è evidente che veniamo prima noi. No, venivano prima loro”. Non solo, ha persino partecipato alla divertente contrattazione con cui una madre gli prometteva la figlia in matrimonio. Non possiamo che immaginare la gioia della “velata, serenamente tradizionalista”, giovane donna.

 

 

Collizzolli vuole aprire un dibattito: personalmente non mi sono mai negato, fin da quando supplicavo Il Manifesto di –almeno !- menzionare i profughi mediorientali cacciati con la violenza dalle terre in cui avevano vissuto per generazioni (in Egitto, in Irak, in Siria…), ma che non sono mai stati proclamati palestinesi da alcuno, essendo solo ebrei sefarditi. Il quotidiano comunista non ha mai pubblicato alcuna di quelle lettere. Una volta che sia stato riconosciuto il diritto per quei profughi, e milioni di altri ebrei, di vivere in uno Stato ebraico che si chiama Israele, si può anche aprire un dibattito tra me e Collizzolli, che è comunque pregato di dismettere la seconda persona plurale, e di spiegare il senso della sua bizzarra conclusione: “Quello che non capisco è questa ossessione a trovare antisemitismo ovunque, anche dove proprio non c’è.” Dove diavolo io avrei fatto riferimento ad antisemitismo nelle mie osservazioni ?

 


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