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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Jaan Kross - La congiura - 23/02/2015

La congiura
Jaan Kross
Traduzione di G. Pieretto
Iperborea euro 15,00

Si chiude La congiura di Jaan Kross, tradotto con molta eleganza da Giorgio Pieretto che per Iperborea nella nuova veste grafica firma anche la Postfazione, e ci si domanda per quale imperscrutabile ragione questo autore sia pressoché sconosciuto nel nostro paese. D’altra parte, è così bello avere ancora l’occasione di scoprire uno scrittore di questo calibro, nato a Tallin nel 1920 e morto nel 2007 dopo una lunga carriera come autore e docente universitario, più volte candidato al Nobel.

In fondo, il destino di questo grande autore è parallelo a quello del suo piccolo paese natale, l’Estonia. Che sta nel cuore dell’Europa, che è oggi una nazione in potente espansione economica, a sorprendenti livelli in fatto di tecnologia e connessione, che è entrata nell’euro ormai da qualche anno. Ma di cui si sa poco o nulla, tanto del presente quanto soprattutto di un passato ricco di traversie e paradossi. Che Kross racconta mirabilmente nei tre lunghi racconti di cui è composta La congiura, tutti fondati sull’esperienza personale dell’autore.

C’è un che di collettivamente kafkiano nelle vicissitudini dell’Estonia nel corso del XX secolo: un’alternanza beffarda di dominazione tedesca e sovietica, con tanto di transfer di massa di popolazione, da un giorno all’altro. Un susseguirsi di passeggeri regimi di occupazione fondati sul sospetto, la delazione, il capovolgimento dei principi di giustizia. La popolazione tedesca costretta dal nazismo a fare i bagagli da un giorno all’altro per andare a popolare germanicamente altre regioni occupate, più ad ovest. I gulag sovietici come spettro che si materializza per colpe mai commesse e nemmeno immaginate. Destini sovvertiti nello spazio di un giorno, di un colpo su una porta chiusa.

Kross è il perfetto cantore di questa storica kafkiana. Lo è per la sua scrittura incredibilmente lieve, malgrado i temi. Lo è per la sua biografia da cui si dipartono questi tre gioielli narrativi. Sorprendenti anche per la loro varietà, nonostante il comune dettato autobiografico e il contesto storico geografico che è sempre lo stesso. Il primo, forse il più bello, narra la storia di un amore giovanile sullo sfondo della repentina deportazione dei tedeschi: in rada davanti al porto di Tallinn staziona infatti con le sue «quattordicimila tonnellate» di stazza la nave Der Deutsche, in attesa di imbarcare tutti i tedeschi d’Estonia «che su invito di Hitler si preparavano al rimpatrio in Germania». Fra essi, la giovane Flora che però a bordo non salirà mai. «La ferita» è infatti la cronaca, ironica e struggente, di una perdita irreparabile. Una cronaca piena di dolcezza e disincanto, così come di quell’autoironia amara che è anche il filo conduttore dei racconti successivi. Dove Kross entra nel vivo dell’ingiustizia, prima con un tentativo di fuga, «una fuga disordinata nella previsione di una nuova dominazione estranea a venire, ma fuga priva di illusioni, su un mare ‘nero’ come una tomba, verso un destino tenebroso».

E poi con il racconto che dà il titolo al libro, tutto dipanato fra le mura di una cella abitata da personaggi disparati che hanno in comune soltanto l’insensatezza della loro detenzione. Kross li descrive scrupolosamente ad uno ad uno, secondo la disposizione delle brande. Al ritratto fisico segue una puntuale rappresentazione della colpa, per lo più presunta o assurda, che li ha condotti fra le grinfie della giustizia sovietica. E qui emergono le vite, i paesaggi che sono descritti con pennellate d’acquerello, ma per nulla sbiadite, anzi: «Nel corso delle decine di anni trascorsi da allora – scrive Kross nell’epilogo – sono più o meno riuscito a liberarmi da quel malessere che mi prendeva nelle foreste a foglie caduche, contro il piacere che provo in quelle di conifere. Ma quando l’estate scorsa, ad Autaguse, ho visto uno scoiattolo volante, un letun, lanciarsi nel cielo blu fra i rami forcuti di un vecchio tiglio, ho provato come una stretta al cuore, un inatteso senso di colpa per il destino di quell’animaletto in via d’estinzione. E solo dopo averci pensato a lungo ho capito il perché». Il lettore non avrà difficoltà a capire quel perché, se avrà seguito fino in fondo le vicende dei compagni di cella di quell’io narrante che molte pagine prima si presenta così: «Ventisette anni ancora da compiere. Un giovane che si è cimentato un po’ in tutto nella vita: scrivere poesie, raccontare frottole, cercare la verità, cospirare, e alla fine perfino insegnare all’università».

Elena Loewenthal - La Stampa


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