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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Edith Pearlman, Visione binoculare 12/11/2012

Visione binoculare                           Edith Pearlman
Traduzione di Alberto Cristofori
Bompiani                                            Euro 19,50


La fama per Edith Pearlman è arrivata decisamente tardi, a 74 anni, nel 2011: entrata tra i cinque finalisti del National Book Award con la raccolta di racconti brevi Visione Binoculare (Bompiani) - non c' è critico americano che non si sia stupito di non averla mai sentita nominare, primo perché la signora aveva alle spalle ben 250 storie già pubblicate e diversi premi letterari, e soprattutto perché la sua scrittura è «intelligente, acuta, divertente, ottima» come ha scritto il New York Times, anzi «la grande scoperta letteraria dell' anno» ha decretato il Boston Globe. Anche i temi e le chiavi scelti da questa lady dai tratti delicati nata a Rhode Island nel 1936 da immigrati ebrei dell' Europa orientale, sono particolari: inusuali come le sue brevi storie oblique, piene di non detti, mai banali, comunque avvolte intorno a strani, ironici, inattesi o difficili frangenti in cui si trovano protagonisti in genere sofisticati, colti, benestanti, pieni di principi, ebrei, spesso abitanti in un luogo immaginario chiamato Godolphin vicino a Boston, situazioni non calcolate in cui impercettibilmente si fa strada un' emozione spiazzante. Due genitori perdono una bambina mentre camminano: lei non si spaventa, sogna il suo futuro ( Inbound ); in una comunità superarmonica di psichiatri e psicoterapeuti viene isolato l' unico non sposato tra loro, il più generoso ( Zia telefono ); una ragazzina si diverte a spiare i vicini con un binocolo, poi un fatto tragico gli fa capire di non aver intuito affatto come stavano le cose ( Visione binoculare ). Molte storie parlano del senso di dislocazione, spaesamento - e anche dell' assurdo -, che investe la diaspora ebraica nel dopoguerra: un gruppo di ebrei più o meno religiosi (c' è anche un rabbino) hanno un appuntamento settimanale per studiare la Torah: in realtà giocano accanitamente a poker ( Caso ); tre racconti stupendi seguono un' ebrea americana di 50 anni che durante la guerra ' 40-' 45 va volontaria a Londra per occuparsi dei profughi ( Se l' amore fosse tutto e seguenti); un' immigrata ebrea polacca ministro della sanità in un paese sudamericano ( Vaquita ); un signore di mezz' età che non è mai stato religioso va a trovare in Sud America il figlio gay che sta adottando un bambino: ma è Kippur e lui non fa che chiedersi dove troverà altri ebrei per celebrarlo ( Giorno terribile ). Bastano questi esempi per dire che Edith Pearlman ha uno sguardo ruotato, sghembo, dubbioso? Sempre, anche quando parla di morte, di figli, di coppie. Qualcuno la paragona a Updike, qualcun' altro alla Munro, a William Trevor. E allora perché no a Cynthia Ozick? Il suo successo è arrivato tardi: pensa che le sue storie si siano rivelate più adatte al XXI secolo? «Questo mio libro ha avuto tanta pubblicità. Io però ho sempre avuto un pubblico, piccolo ma fedele. Ora è un po' più grande». Perché scrive solo racconti brevi? Non ha mai avuto voglia di scrivere un romanzo? «È una domanda che mi fanno spesso. Nessuno però mi chiede perché non scriva poesie. Sembra si sia capito che la compressione dei versi si distingue da una short story nello scopo e nello stile. Direi qualcosa di simile anche per il romanzo e il racconto breve. Il primo racconta. Il secondo suggerisce. La poesia nasconde». Un suo tema portante è il destino ebraico: qual è la domanda sugli ebrei a cui desidera rispondere, l' aspetto che ne vuole mostrare? «Amo così tante cose degli ebrei - il coraggio, lo humor, la lealtà, la perseveranza. Deploro i fasti. Sono imparziale col tribalismo e il nazionalismo. Insomma, mi piace mostrare come tutti questi aspetti confliggano gli uni con gli altri». Nelle sue storie gli ebrei appaiono sempre senza una vera casa, con un' eterna sensazione di esilio e nostalgia. Anche lei si sente così? Quando a fine anni ' 90 ha passato un anno in Israele era in cerca di un luogo davvero suo? «Penso che tutti gli scrittori, e forse tutta la gente, siano in un certo senso esuli, nostalgici, in cerca di un proprio posto. Gli ebrei lo sono letteralmente, come molti altri. E no, in Israele non stavo cercando una patria: al di là del mio senso di esilio, la mia casa è Brookline, Massachusetts». Tuttavia su di lei c' è sempre l' ombra del nazismo, della Seconda Guerra Mondiale. Pensa che gli ebrei ancora scioccati, o come scrive, "terrorizzati" dalla Shoah? «Sì, lo penso, molto profondamente». Le relazioni tra uomini e donne che descrive non sono mai grandi passioni, piuttosto storie in cui uno impara faticosamente ad accettare l' altro. Parla anche di persone che invece scelgono una tranquilla solitudine. Come vede l' amore? «L' amore romanticoè incantevole. Ma sono la tolleranza e l' accettazione che fanno funzionare le cose. Poi ci sono quelli che danno al sesso poca o nessuna importanza - e stanno da soli -, non è un brutto modo di vivere la vita. Eppure la letteratura se ne disinteressa. A me invece piace dargli lo spazio dovuto». Spesso tocca i temi del cancro, della malattia, della morte. A volte con ironia, altre con infinita tristezza. Qual è la vera Edith? «Ambedue, e molte altre».

Susanna Nirenstein
La Repubblica


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