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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Yoram Kaniuk, 1948 16/07/2012

1948                                                  Yoram Kaniuk
Traduzione di Elena Loewenthal
Giuntina                                              Euro 15


Un popolo che cercava finalmente di vivere in un luogo che gli appartenesse: questo era il senso comune dei giovanissimi soldati ebrei del Palmach, tutti quanti nativi, i quali combatterono nel 1948 la battaglia di Gerusalemme persuasi di battersi soltanto per l’indipendenza di Israele appena proclamata da David Ben Gurion ma convinti viceversa, al cessare delle ostilità, di avere creato uno stato per i sopravvissuti ai campi di concentramento in Europa. È il tema che pervade da oltre mezzo secolo le partiture narrative e saggistiche di una delle grandi voci di Israele, Yoram Kaniuk, nato a Tel Aviv nel 1930, già noto in Italia per alcuni titoli presenti nel catalogo Einaiudi, come i romanzi Post mortem e Abramo risorto (infatti l’uno riferibile all’epopea familiare del nativo, l’altro alla terribile ipoteca di uno scampato alla Shoah) o come il comandante dell’Exodus, che è tanto la biografia del leggendario Yossi Harel quanto l’epopea dei pionieri sionisti che nel nostro immaginario si associano alle fotografie di Robert Capa e ai dipinti di Ben Shan. Ora, la vicenda biografica di Kaniuk (che fu un milite del Palmach – la forza regolare degli insediamenti – e agli ordini nientemeno di Ytzhak Rabin) torna in prima persona con 1948 (Giuntina), bellissimo romanzo per una voce sola che gode in italiano della traduzione di Elena Loewenthal, capace di restituirne con straordinario mimetismo da un lato le escursioni polifoniche e dall’altro la ritmica che si affida ad uno stile orale e anzi pulsionale. Stavolta, per Kaniuk, si tratta di un’epica del grottesco e persino dell’assurdo, perché chi dice «io» (quasi allestendo il memoriale per una cosiddetta auto fiction) è proprio l’ex combattente, un anziano i cui ricordi sono di continuo passibili di smemoratezza, assimilati dal dubbio, più spesso naufragati in zone di perplessità e di resipiscenza. Colui che ricorda è costretto a farsi ogni momento domande essenziali e talvolta crudeli ma, nel frattempo, costui non prova nostalgia di niente e di nessuno, né rivendica nulla se non il timore che, al presente, la memoria divenga nel discorso pubblico una sospetta gestione dell’oblio: «Ricordare, e ben presto non ci saranno più quelli che erano laggiù con me, anche se vedo che oggi ce ne sono più di quanti non ce ne fossero allora. Si sono moltiplicati da morti, insomma». Perciò la voce in soggettiva risale con sgomento all’età più incosciente della vita e a quel gesto impulsivo, mai rinnegato né vanitosamente esibito, del prendere le armi. Un gesto che assomiglia al sommo paradosso che determina la nascita di Israele (materia prima dei suoi storici maggiori, da Tom Sagev e Edith Zertal) e ritorna nel romanzo con la domanda più perplessa fra le tante che si pone, a cadenza, l’ex soldato Kaniuk: «Fondare uno stato per dei morti che non ci avrebbero mai vissuto?». Dall’andirivieni della memoria, satura del suo passato, si profila tuttavia un’immagine residua che coincide con l’unica possibile risposta: nel momento in cui tacciono le armi, quando i luoghi sono disertati e anche il campo di battaglia è una tabula rasa, arrivano uomini e donne che sembrano fantasmi, che hanno abiti esotici e scarso bagaglio. Costoro non hanno mai visto il deserto ma città recluse in ghetti, sono ebrei che non conoscono la lingua in cui è scritta la Bibbia ma soltanto un ispido idioma dell’Europa orientale.  Prima che uomini e donne sono sopravvissuti e, pertanto, testimoni a lungo espropriati di parola e destino: «quei bambini nati nei campi tedeschi o inglesi non sapevano che cosa fosse una casa senza filo spinato intorno. Nessuno aveva dato loro delle case, e loro avevano fatto irruzione con la forza – erano più forti degli israeliani. Noi invece eravamo delle battute di spirito ambulanti, pieni di noi stessi perché avevamo vinto una guerra da Topolino e Pippo». È lì, nell’ultimo spettrale fermo immagine, che il sabra nativo, l’ex soldato ormai ottuagenario riconosce per intero l’infamia della guerra ma anche la necessità, per troppo tempo inconsapevole, di averla combattuta.


Massimo Raffaeli
TTL


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