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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Aharon Appelfeld, Il ragazzo che voleva dormire 09/07/2012

Il ragazzo che voleva dormire                 Aharon Appelfeld
traduzione di Elena Loewethal
Guanda                                                           euro 19,00

Come ha scritto tempo fa Philip Roth, il soggetto dei 41 libri di Aharon Appelfeld, nato in Bucovina 80 anni fa, emigrato in Israele nel 1946, non è in fondo la persecuzione, né la Shoah. Appelfeld non appartiene totalmente alla narrativa israeliana, tantomeno a quella europea, nonostante gli echi di Kafka si facciano sentire. È il suo essere profugo, il disorientamento di eterno rifugiato ebreo in una terra di ebrei rifugiati la materia dei suoi romanzi unici. Unici per la sensibilità di un uomo che a otto anni e mezzo, ragazzino della buona borghesia assimilata, si ritrovò orfano, e poi in un ghetto, in un lager, e poi ancora, dopo la fuga dal campo, da solo, solo!, nelle foreste ucraine per tre anni, e infine a inventarsi una vita in Israele.
Questa volta, Il ragazzo che voleva dormire (Guanda, trad. di Elena Loewenthal) come sempre in parte autobiografico, inizia appunto sulle spiagge del napoletano, tra i profughi. Ma il nostro protagonista Erwin dorme, dorme quasi sempre, quasi in narcosi, i rifugiati l’hanno portato fin lì anche a spalla. Dintorno però l’Agenzia ebraica cerca di far diventare i ragazzi “ebrei nuovi”, forti, abbronzati, pronti a creare in Palestina il proprio Stato. Erwin è tra loro, anche se spesso cade addormentato e nei sogni ritrova la madre, il padre, i nonni, la casa. Quei sonni continueranno, mentre Erwin impara a coltivare la terra, a combattere, e decide, con strazio, di accettare di cambiare nome come gli chiede l’Agenzia per cancellare l’età della diaspora e dei ghetti. Si chiamerà Aharon, come l’autore, anche se le ombre e le nostalgie sono infinite. Poi una ferita nella guerra d’Indipendenza lo costringe a lungo all’immobilità: ed Erwin/Aharon troverà l’unica possibilità di rinascita nell’ebraico, non solo quale idioma moderno del nuovo paese, ma lingua antica come il popolo, biblica, recitata per secoli, sola via per diventare
scrittore come avrebbe voluto essere suo padre, senza tradire il passato.
Il sogno è spesso presente nei suoi libri: in questo romanzo è il luogo dove incontrare se stessi e la verità.
«Sì, perché il libro racconta la nascita di un artista, la sua vita, e ciò che forma un artista è la realtà e l’immaginazione che qui diventa sogno, ovvero una concentrazione della realtà interiore, uno specchio che riflette i dettagli più importanti della nostra esperienza».
Erwin è lei evidentemente. Come si chiamava veramente prima di diventare Aharon?
«Erwin, sì, è questo il nome che mi hanno dato mio padre e mia madre. Fino a 8 anni e mezzo mi chiamavano così. Nella foresta invece per gli ucraini ero Janek».
Allora il protagonista è lei. Ma fino a che punto i fatti sono autobiografici?
«Il romanzo non è mai una copia, una cronaca, ma una combinazione di fatti e immaginazione. Non scrivo memoir. La narrazione ha le sue regole, perciò ci sono molti dettagli veri, ma organizzati in modo diverso dalla realtà».
Ma il sonno, gli incontri onirici con i suoi genitori?
«Sì, li incontravo nei sogni. Così come è vero che mi dovevo adattare a Israele, un posto così diverso da casa. Che lavoravo nei campi, che sono stato nell’esercito. Non sono stato ferito però, ma ricoverato sì, malato di tutto quel che mi era accaduto, la guerra, il ghetto, la solitudine nei boschi».
E fu davvero l’ebraico a farla guarire?
«La mia lingua madre era il tedesco, con i nonni dicevo qualche parola in yiddish. Poi sapevo un po’ di ucraino e più tardi di romeno, ma non avevo nessuna formazione, avevo fatto solo il primo grado delle elementari. In Israele studiavo l’ebraico, dopo il lavoro nei campi: ma la sera, tutti i giorni, copiavo un capitolo della Bibbia. Avevo 14 anni e sentivo che solo così me ne sarei appropriato, perché ero convinto, se vuole un po’ bambinescamente, che la Bibbia possedesse l’essenza della lingua».
Il suo rapporto con Israele è un rapporto complicato.
«Nei primi anni Israele era un paese molto ideologico, voleva costruire un ebreo diverso. Io però sentivo che volevo anche essere accanto ai miei genitori e ai miei nonni che avevo perso, che mi mancavano, che amavo: volevo essere un vecchio ebreo, come loro. Era una contraddizione, certo. Ora non c’è più tutta quest’ideologia».
Nel libro molti ragazzi trovano una vita difficile. Il sogno sionista non funzionava del tutto?
«Il sionismo è un sistema sociale che voleva il grande cambiamento, e come tutti i sistemi non funzionava, perché la vita non li accetta, li rifiuta. Da questo punto di vista credo di essere un esistenzialista».
Ha mai cercato di stare lontano dai suoi ricordi?
«Non divido gli argomenti: se mi occupassi solo del passato diverrebbe storia, se lo facessi col presente sarebbe cronaca, e col futuro fantascienza».
In Badenheim ha descritto come gli ebrei nel ’39 non volessero vedere l’incombere della catastrofe. Ora delle minacce iraniane cosa pensa?
«Ho paura. Perché Israele è un piccolo paese di 6 milioni e mezzo di ebrei circondato da 250 milioni di arabi che non ci vogliono come vicini. Ma se c’è una cosa che io so, io che ho combattuto tante guerre d’Israele, è che qui, a parte una piccola minoranza di estremisti, la maggioranza vuole la pace. So che qui non c’è odio verso gli arabi, e ne sono molto, molto contento».

Susanna Nirenstein
La Repubblica


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