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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Vladimir Vertlib, Stazioni intermedie 14/11/2011

Stazioni intermedie                                      Vladimir Vertlib
Traduzione di Paola Buscagliene Candela
Giuntina                                                           Euro 15

Il bambino indossa un basco che gli lascia scoperte le orecchie, una maglietta a maniche corte, con fatica trascina una valigia, lo sguardo perso all’orizzonte. La bella immagine di copertina di Andrew Rich prepara il lettore di “Stazioni intermedie” ad un romanzo straordinario, di carattere universale, sulla vita dei migranti.
Se Boris  Zaidman, autore del romanzo “Hemingway e la pioggia di uccelli morti”, lascia l’Ucraina e si trasferisce definitivamente in Israele affidando al piccolo Tolik, protagonista del libro e suo alter ego, i ricordi d’ infanzia nell’ex Unione Sovietica, Vladimir Vertlib nato a Leningrado nel 1966 compie un lungo percorso di migrazione attraverso l’Austria, l’Olanda, Israele e gli Stati Uniti prima di stabilirsi a Salisburgo e Vienna dove lavora come giornalista, sociologo e scrittore.
Stazioni intermedie, pubblicato per la prima volta a Vienna nel 1999, arriva nelle librerie italiane in questi giorni grazie alla casa editrice Giuntina che lo inserisce a pieno titolo nella prestigiosa collana Diaspora.
Opera di evidente impronta autobiografica, il romanzo di Vertlib racconta con una prosa efficace e un pizzico di umorismo le peregrinazioni di una famiglia di ebrei sovietici alla ricerca di una nuova patria nella quale radicarsi e far crescere il loro figlioletto.
Il racconto, affidato al bambino, si declina in una trama avventurosa, a tratti grottesca e ci conduce dapprima in Israele dove la difficoltà di adattamento (“la giustizia è una barzelletta ebraica”) induce la famiglia a rifare i bagagli per recarsi a Vienna “ crocevia dell’emigrazione dall’est” in attesa di poter tornare in Unione Sovietica.
A Vienna il protagonista ritrova l’amico Viktor e insieme cercano una sistemazione accettabile a Brigittenau, una vecchia casa abitata quasi esclusivamente da ebrei russi, mentre i genitori si arrabattano per trovare un lavoro dignitoso.
Dopo Vienna è nella città olandese di Amsterdam che approda la famiglia, ancora una volta senza che al bambino venga rivelato nulla. Qui  in attesa di un visto per l’America percorrono in lungo e in largo la città visitando i musei e sempre a piedi per risparmiare i soldi dell’autobus: anche questa è una meravigliosa occasione per conoscere il mondo.
“Israele è la terra degli ebrei, nonostante tutto la nostra vera patria…impareremo a tollerare le sue debolezze” con questi propositi e dopo aver subito l’ennesimo rifiuto di un visto, alla famiglia di migranti non resta che tornare nello Stato ebraico.
Il nuovo tentativo di radicarsi nella patria degli ebrei naufraga non solo per la difficile convivenza con una famiglia di ebrei provenienti dall’Usbekistan dalle usanze assai diverse, ma anche per la complessa situazione politica del paese minacciato quotidianamente dagli attentati terroristici. A ciò si aggiunge una incapacità totale di integrarsi condividendo il sogno sionista che ha condotto la maggior parte del popolo ebraico in Erez Israel.
Dopo una breve sosta in Italia è a Vienna che la famiglia di migranti decide di ritornare prima di approdare finalmente in America (“…..il paese in cui i sogni diventano realtà”), grazie all’aiuto di un rabbino chassidico. Ma nemmeno Brighton Beach, “un rione di Brooklyn vicino al mare, dove abitano in prevalenza ebrei emigrati dalla Russia”, sarà l’ultima dimora per la famiglia di ebrei sovietici.
In questo lungo peregrinare alla ricerca di un luogo di appartenenza e costretto continuamente ad andarsene per l’inconciliabilità delle aspirazioni dei genitori con la realtà del paese nel quale approdano di volta in volta, il bambino entra in contatto con una pluralità di personaggi originali che la penna sapiente di Vertlib ritrae con grande maestria e un sottile filo di ironia: la signora Berger che conserva segretamente la foto del Fuhrer, il signor De Vries, incontrato sul treno che li porta ad Amsterdam, che chiacchiera amabilmente con quel giovane viaggiatore per nulla turbato dalla diffidenza dei genitori, la signora Borisovna che a Ostia vende illegalmente su un banchetto in piazza leccornie russe, i pieroghi con la marmellata, e non nasconde ciò che pensa d’Israele “…troppi ebrei su un pezzetto di terra. Per me gli ebrei sono come il sale. Il sale da solo è immangiabile”.
Definito il nuovo Joseph Roth da un prestigioso giornale tedesco, Vladimir Vertlib costruisce un perfetto mosaico narrativo e grazie ad una scrittura tersa, ironica, di rara espressività ci restituisce un romanzo pieno di vita capace di delineare con maestria il mondo degli ebrei dell’ex Unione Sovietica, con la spasmodica ricerca di giustizia sociale, la difficile integrazione in Israele e la riscoperta di un’identità ebraica che non sempre passa attraverso l’appartenenza religiosa.
Si esce dalla lettura di questo libro decisamente arricchiti anche per la capacità dell’autore di puntare lo sguardo su questioni rilevanti e ancor oggi al centro dell’attenzione in qualsiasi società democratica: la difficoltà per chi emigra di accettare la cultura del paese che lo ospita e di condividerne i valori, la complessa burocrazia che rallenta qualsiasi processo di integrazione, la diffidenza che si prova nei confronti di coloro che, per tradizioni e usanze, si percepiscono come stranieri.
Stazioni intermedie fa parte di quei pochi libri che non mi faccio scrupolo di consigliare agli amici invidiandoli per l’incredibile esperienza della prima lettura.

Giorgia Greco


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