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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Intervista a David Grossman
Intervista di Alain Elkann a David Grossman pubblicata
su  “Specchio” del 29 aprile 2006


Grossman, parliamo di letteratura e politica: che cosa significa, nel
profondo, essere uno scrittore israeliano?
“L’obiettivo deve essere questo: scrivere di situazioni intime che
appartengono a una realtà pubblica fin troppo evidente”.

Lei si sente in qualche modo parente dei grandi scrittori ebrei, Kafka,
Bellow, Singer o Roth?
“Sì, molto, nel senso che ognuno di loro scrive cose da outsiders, ai
margini di qualsiasi cultura. Meglio. Anche se appartengono a una cultura,
sono ugualmente degli outsiders, e io mi sento allo stesso modo”.

Che rapporti ha con l’Italia?
“Ogni volta che mi reco nel Vostro paese, mi sento a casa. Nell’osservare
le reazioni ai miei libri avverto che ci sono molte cose simili tra
israeliani e italiani. Se in Israele potessimo avere il lusso di stare in
pace potremmo lasciare emergere e vivere le nostre qualità “italiane”.

La vita in Israele dopo la malattia di Sharon, le elezioni nazionali e
quelle palestinesi: è cambiata?
“In un certo senso la situazione migliorata: la maggioranza degli
israeliani ha accettato l’idea che l’occupazione deve cessare e che ci
debba essere uno Stato palestinese. Ma, come molte altre volte, siamo molto
vicini a raggiungere la pace e, contemporaneamente, anche molto lontani”.

E il ruolo dello scrittore quale deve essere?
“Non deve arrendersi ai cliché dei grandi sistemi (governi, media,
eserciti) per ritrovare e proclamare l’individualità. Le comunicazioni di
massa ci stanno trasformando in uomini senza volto, anonimi, una massa di
persone con un solo volto. Gli scrittori hanno un ruolo molto più ristretto
di quello che avremmo pensato: se la loro influenza fosse più importante,
per esempio, Israele sarebbe oggi in una situazione diversa”.

Come si vive tra le mille suggestioni di Gerusalemme?
“Non voglio distruggere una certa visione romantica di Gerusalemme, ma il
conflitto tra cultura e religione, l’asperità tra ambizioni politiche e
religione è così tesa che io e la mia famigliari siamo spostati in uno dei
sobborghi più remoti. Gerusalemme dovrebbe essere una metafora, il modello
della pace futura in cui tutte le grandi religioni si sentano a casa
propria”.

Che cosa la preoccupa maggiormente?
“in primo luogo, come ogni israeliano, c’è una preoccupazione per il
futuro: quali sono le probabilità di arrivare alla pace con Hamas e le
minacce dell’Iran”.

E a livello più personale?
“Sto aspettando che mio figlio torni da un lungo viaggio nel Sud America. E
sono ossessionato dai problemi legati alle vicende che racconto nel romanzo
che sto scrivendo. Per esempio: Lei ama lui? Lui ama lei?”

Sente che la pace è ancora lontana?
“Su scala internazionale temo che il livello di scontro diventerà sempre
maggiore, con molte tensioni tra le religioni: è come l’avvento di una
nuova era di violenza. Per noi uominidi Israele, invece, il futuro potrebbe
essere più roseo se il nostro primo ministro – come vorrebbero gli
israeliani – fosse più coraggioso e se i palestinesi si dimostrassero
disponibili a trattare sulla base di un’adeguata offerta di pace”.

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