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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Giorgio Israel
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Sulla Spagna l'ombra di Al Qaeda . 16-03-04
Al Qaeda ha eletto il nuovo governo socialista in Spagna. E in Italia?



Il precedente intervento portava ad interrogarsi sulla politica estera di un possibile futuro governo dell’Ulivo, con particolare riguardo alla questione israelo-palestinese. Ma come parlare di questo tema oggi, se non nella cornice degli eventi spagnoli, il cui primo atto è iniziato con gli attentati di Madrid e si è concluso con la vittoria dei socialisti di Zapatero?

Da alcuni giorni prima degli attentati si assisteva a un curioso fenomeno mediatico, tipica espressione di una tradizione tipicamente nostrana di superficiale xenofilia; e che così si può riassumere: «spagnolo è bello». Ne è stato il massimo portavoce il professor Michele Salvati che, avendo letto un libro di un suo amico spagnolo (il sociologo Perez Díaz), si è proposto, ed è stato prontamente accreditato, come esperto di questioni iberiche. Ci è stato spiegato che il «miracolo spagnolo» è il modello ideale per curare la sclerosi di molti paesi europei e, in particolare, la nostra povera e malata Italia: dinamismo economico e sociale, vivacità culturale, una politica ragionata e non urlata, una classe politica matura, consapevole, moderna, su entrambi i fronti contrapposti (ma dialoganti). Neppure i sinistri scricchiolii succedutisi agli attentati hanno suggerito prudenza. Il professor Salvati non si è sottratto alle interviste sulla sua nuova specialità, e ha pronosticato il risultato elettorale più o meno nei termini: «domani pioverà, oppure non pioverà». Il che era difficile contestare, ma lasciava aperte altre interessanti prospettive, come quella che grandinasse. E la grandinata è stata tale da togliere il fiato.

In verità – altro che modello da seguire! – la Spagna è l’anello debole della catena europea e come tale è stato scelto da Al Qaeda. La Spagna è il paese più pacifista d’Europa: quello in cui più del 90 % della popolazione è pacifista «senza se e senza ma»; alla Gino Strada, tanto per intenderci. Non sorprende quindi che non esista laggiù la litigiosità a sinistra che esiste qui su questi temi, il che non è un pregio di per sé (a meno che uno non ritenga che adottare il pensiero di Gino Strada come «pensiero unico» sia maturo e moderno). La Spagna è anche uno dei paesi più anti-americani d’Europa. Ed anche uno dei più anti-israeliani: sui rotocalchi Sharon è spesso raffigurato come un porco, e anche il laico «El País» ha individuato le radici del militarismo israeliano nell’«occhio per occhio» dell’Antico Testamento. Anche su questi temi c’è meno litigiosità che da noi. E anche questo non è un pregio di per sé (a meno che uno non la pensi come il professor Asor Rosa).

Forse, per avere un quadro meno distorto, sarebbe stato utile leggere l’«autopsia» della Spagna di Fernando Savater (Repubblica, 12.3.2004) che, con grande amarezza mette alla berlina le «teste pensanti» del suo paese per le quali «il male non sono le politiche nazionaliste disgregatrici, che reinventano la storia in chiave antispagnola, trasformano la costituzione in un assurdo feticcio … il male non è la pubblica istruzione spezzettata dove si studiano solo le piccinerie locali, o le università in cui cominciano a spuntare gruppuscoli squadristici per boicottare i professori sgraditi… No, intollerabile è soltanto la politica del PP (Partido Popular)». E il risultato dell’autopsia è: «il paese più decentralizzato d’Europa è anche quello più minacciato dalla frammentazione nazionalista, che ovunque è considerata un abominio reazionario, salvo che qui, dove è di sinistra e rappresenta un’alternativa di progresso». (Notiamo di passaggio che la «devoluzione» e la disgregazione dell’identità culturale nazionale, che in Spagna è appannaggio della sinistra, qui è ora appannaggio della destra, il che aiuta a rendere schizofrenico chi voglia ragionare con la testa e non in termini di schieramenti).

La domanda che si pone allora è: se le cose stanno così, perché mai tanti anti-americani altermondialisti pacifisti «senza se e senza ma» hanno votato massicciamente Aznar e lo hanno tenuto al potere per otto anni? Ebbene, questo è accaduto proprio perché una parte consistente del paese ha considerato con grande timore la deriva secessionista regionale – che nel paese basco arriva alla punta estrema terrorista dell’ETA – e i rischi di disgregazione del paese. Aznar e il PP sono stati visti come una barriera contro questa pericolosa deriva. Fino a che il terrorismo è «etarra», milioni di persone sono disposte a scendere in piazza per opporsi ad esso e per appoggiare chi prometterà di reprimerlo nel modo più duro. Per contrastare questi rischi, molti sono stati disposti a digerire la guerra in Iraq, purché non portasse a gravi conseguenze. Ma se le conseguenze ci sono, se il terrorismo è islamico e anti-americano, se la rivendicazione indica gli attentati come risposta alla partecipazione di Aznar alla guerra in Irak, il discorso cambia, e di molto. Gli spagnoli hanno cacciato il PP perché ha attirato sulla loro terra gli assassini di Al Qaeda.

Appaiono quindi patetiche le interpretazioni di certi «riformisti» nostrani che hanno proclamato a caldo: «È stata punita la menzogna». No. Gli spagnoli non hanno detto al PP «Pagherete per avere mentito», bensì «Pagherete per aver fatto la guerra. I colpevoli di quei 200 morti siete voi». Ancor più patetico è stato il «wishful thinking» secondo cui la Spagna non cambierà subito linea sulla questione irakena. Ha osservato Umberto Ranieri dei DS: «Non credo che Zapatero farà scelte che possano essere interpretate come una resa al ricatto del terrorismo, se i terroristi credessero che a colpi di bomba si cambiano gli orientamenti dei governi sarebbe la fine» (Corriere della Sera, 15.3.2004). Ebbene, è la fine… Sono trascorse soltanto poche ore e la prima dichiarazione di Zapatero è stata che le truppe spagnole saranno ritirate dall’Irak, al massimo entro il 30 giugno. Egli ha dato ragione allo sceicco londinese Omar Bakri che, ier l’altro, alla domanda «cosa dobbiamo fare, noi europei per evitare le bombe?», ha risposto: «cambiate i vostri governi».

E, come se non bastasse, Zapatero ha chiamato all’autocritica Bush e Blair. E, come se non bastasse ancora, senza neppure attendere un altro giorno, ha definito la guerra in Iraq in termini vergognosi, degni del radicalismo pacifista più scatenato: «Non si bombardano i popoli», ha detto. Come se Saddam e i suoi scherani fossero «il popolo», e come se questo fosse «il» delitto da condannare, non quelli innumerevoli e terribili compiuti da Saddam. E così Zapatero ha inviato con la massima sollecitudine possibile il messaggio che i terroristi volevano sentire.

Di certo, l’11 marzo 2004 è stato l’11 settembre europeo, ma il 14 marzo non è stato l’inizio della riscossa, bensì la «Monaco 2004» dell’Europa.

Resta la speranza che l’evento resti isolato. Ma da qui, da questa autentica disfatta campale, occorre che le analisi prendano le mosse, non dai quadretti di maniera e dai «wishful thinking».

Iniziamo a chiederci, ad esempio, che cosa ci aspetta qui in Italia. Il che è poi quanto chiedersi quanto sia impellente per Al Qaeda la necessità di intervenire «fisicamente» per modificare la situazione politica in senso a lei favorevole. La situazione italiana è meno compromessa e disastrata di quella spagnola: prova ne sono non tanto e soltanto la posizione del governo, ma la situazione assai più articolata che esiste nel centro-sinistra. Ma, già oggi, le posizioni di coloro che miravano a spostare in senso «anti-terroristico» il discorso «pacifista» sono gravemente indebolite. Fassino si è affrettato a dire che «la linea di Zapatero è la nostra», pur di tenere insieme l’improbabile e variopinta baracca. Ma non gli basterà, perché l’argomento «forte» che gli verrà servito è: «Ecco come si vince. Prendiamo esempio. Soltanto così la sinistra può vincere, e alla grande,: sulle spalle del popolo dell’arcobaleno». Quali argomenti da opporre troveranno coloro che già si erano accinti all’insostenibile acrobazia di cavalcare su due staffe: quella di un movimento unitario contro il terrorismo e quella di un movimento pacifista composito, senza escludere chi ti vuol schiaffeggiare e ti chiama «delinquente», e neppure quegli impresentabili signori (compagni che sbagliano?) che vanno in piazza per sostenere la «resistenza irakena»? Costoro rischiano di finire a terra, in mezzo alle due staffe, vittime della mancanza di chiarezza e del desiderio impossibile di tenere insieme tutto e il contrario di tutto. Sempre più forte sarà la richiesta del ritiro delle truppe italiane «senza se e senza ma», sull’onda del trionfo della sinistra spagnola, che ha indicato la via della vittoria.

Pagherà davvero questa linea? Difficilissimo a dirsi, e non intendiamo avventurarci in simili previsioni, che dovrebbero tenere conto dei piani di Al Qaeda, di cui, se è evidente il fine strategico di disgregare, invadere e condizionare politicamente l’Europa, sono imperscrutabili le mosse tattiche.

Ma, nel breve periodo, non è difficile prevedere un estremo affanno dell’ala riformista e moderata del centro-sinistra. In quest’area, si avvantaggerà chi dirà le cose più vaghe e allusive. Forse Romano Prodi, che ha caratterizzato gli eventi di questi giorni con le immagini di una Spagna e di un’Europa «unite» più che mai e di un’«America in piena crisi politica». Se ne avvantaggerà chi, come Massimo D’Alema sa parlare con un linguaggio che, almeno su certi temi, piace assai alla sinistra radicale pacifista-antiimperalista-altermondialista. Ed uno di questi temi, da lui prediletto è il conflitto israelo-palestinese. Qui, tra il linguaggio di un Boselli e di un Fassino, da un lato, e quello di D’Alema, dall’altro, corre un abisso. Quest’ultimo non disdegna affatto di ricorrere alla terminologia più radicale per la politica di Israele: «terrorismo di Stato», «politica di apartheid di stile sudafricano», concentramento dei palestinesi in bantustan, becero militarismo, e via discorrendo. Con supremo sprezzo della logica, quel che in Iraq è inaccettabile – ovvero l’invio di truppe – lo è in Medio Oriente e, in una funzione che non è di semplice «peace-keeping» – il che sarebbe ridicolo, visto che non c’è alcuna pace da conservare… - ma di imposizione anche coercitiva di determinate deliberazioni (quali?) assunte dalla comunità internazionale. D’Alema sa bene che simili truppe, in un simile contesto, dovrebbero molto probabilmente sparare: con quali «regole d’ingaggio», neanche la sua competenza strategica è in grado probabilmente di dirlo. Ma poco importa, perché in tal modo si costruisce un terreno di intesa, di «unità», capace di riunificare i molteplici filoni della lotta per la pace, e di nascondere, in nome della ripulsa dell’abietta politica d’Israele, le fessure che percorrono il corpo della sinistra.

Intanto, a Ashdod, Israele, un altro attentato suicida ha fatto strage. Ma non abbiamo sentito versare neppure una lacrima. Difatti, quello non è terrorismo. Per qualcuno è legittima lotta di liberazione nazionale, per altri magari non è giustificabile ma si può «capire» come effetto della perversa politica di Bush, il compare di Sharon.

Comunque vada ci aspettano tempi difficili.

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