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Diego Gabutti
Corsivi controluce in salsa IC
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Quando Céline voleva fucilare Jean Renoir 03/04/2020
Quando Céline voleva fucilare Jean Renoir
Diego Gabutti racconta 'L’altra metà di Parigi. La Rive Droite' di Giuseppe Scaraffia

L'altra metà di Parigi - Bompiani
Giuseppe Scaraffia, 'L’altra metà di Parigi. La Rive Droite', Bompiani 2019, pp. 416, 32,00 euro


Ci sono due o tre rivoluzioni per secolo (da stufarsene, senza offesa per i rivoluzionari). Alcune sono rivolte politiche, altre estetiche e culturali, altre ancora sia estetico-culturali che politiche. Mentre alcune si fanno delle illusioni circa il futuro, che immaginano radioso e irrimandabile, altre invocano un radicale ritorno al passato, alla Tradizione e ai Cari Vecchi Valori d’Una Volta. Una rivoluzione predica la riforma delle istituzioni, un’altra quella dei costumi e della sensibilità estetica; alcune rivendicano l’intero pacchetto: l’arte e la politica, l’economia e il costume. Ma tutte le rivoluzioni moderne, per quanto diverse e persino divergenti tra loro, hanno una cosa in comune: nascono tutte in Francia, a Parigi, dalla presa della Bastiglia, il 14 luglio 1789, al maggio 1968. È qui che Giuseppe Scaraffia, francesista e (se mi si passa il neologismo) «bellepologo», da belle époque, ambienta il suo ultimo libro. È un viaggio tra gli arrondissement parigini a grandi balzi sia nello spazio che nel tempo. È come se Scaraffia fosse il Dottor Who della serie televisiva e il suo libro una specie di Tardis (il dispositivo, a forma di cabina telefonica, che il Dottor Who usa per spostarsi qua e là attraverso le epoche e le galassie). A Parigi convergono tutti gli utopisti, tutti i cospiratori, tutti gli artisti d’avanguardia con le loro tradizionali intendenze: i gigolò, le donnine allegre e i cialtroni. Fan di queste antiche rock star, Scaraffia non si limita a passarle in rassegna, eccesso dopo eccesso, scandalo su scandalo, ma li scruta attraverso un prisma che ne scompone o meglio ne frantuma le figure in tante schegge temporali, ciascuna delle quali s’affaccia, più che in un anno (e a un indirizzo) diverso, in un universo parallelo. C’è per esempio un Louis-Ferdinand Céline che nel 1930, domiciliato in Quai de Bourbon, nel quarto arrondissement, appare «al tempo stesso attraente e repellente» quando evoca, «luciferino» ma caritatevole con chi soffre, «gli orrori fisici e morali che incontra nel suo lavoro di medico dei poveri». E c’è il Céline che, otto anni più tardi, approdato al numero civico 83 di Rue Lepic, nel diciottesimo arrondissement, accetta d’incontrare Jean Renoir, grande regista, «figlio del celebre pittore». Céline, racconta Scaraffia, «era stato uno dei pochi, forse l’unico, che l’anno prima aveva attaccato il film più applaudito di Renoir, La grande illusione. Lo aveva fatto in un pamphlet furibondo, Bagatelle per un massacro, che si scagliava contro il declino della Francia e la decadenza del suo cinema caduto, gli sembrava, in mano a ebrei e comunisti. Tutti sapevano che Renoir era vicino al partito comunista francese. Non servì a niente che il regista gli dicesse quanto avesse apprezzato Viaggio al termine della notte e Morte a credito, Céline s’inalberava, borbottava insulti, sputava per terra. Era troppo furente anche solo per ascoltarlo. “Le prometto che… i tedeschi verranno a mettere a posto tutto… la metteranno con la schiena al muro… e quel giorno… ne sia ben certo… sarò io a comandare il plotone d’esecuzione!”» (Parlava così, con tutti quei puntini di sospensione, proprio come scriveva).

Da medico dei poveri, un Omero della condizione urbana, Baudelaire reincarnato, Céline si era trasformato in un Orchetto di Tolkien, una camicia bruna, un tifoso dell’Apocalisse hitleriana, il Joker dei fumetti. Sempre così. All’inizio c’era la rivoluzione: politica, estetica, sessuale, e poi questo: il disfacimento, la putrefazione. Era successo nel 1789: la Grande Rivoluzione era diventata Terrore. Idem nel 1948, quando la passione per la libertà aveva saltato il fosso trasformandosi in passione per i socialismi, per i comunismi, per i nazionalismi. C’era degrado anche nell’arte moderna: messe in burletta le forme artistiche tradizionali, ripudiato il realismo fotografico e la tronfia e odiosa banalità dei «soliti soggetti» in letteratura e nelle arti figurative, le avanguardie s’erano autoproclamate sole custodi del bello. Sgombrati i musei, pretendevano d’occuparne le sale deserte, e invece d’una nuova sensibilità nasceva un nuovo conformismo. («Allontanandosi in taxi» dal palazzo d’Eugenia Errázuris, «Proust confessò al suo amico Gautier-Vignal d’avere apprezzato moltissimo l’arredamento ed Eugenia, pur trovando insignificanti i ghirigori di Picasso. Nel Tempo ritrovato avrebbe evocato la devozione delle signore alla moda per la nuova tendenza: “L’arte le aveva toccate, come la grazia. E come nel XVII secolo illustri dame entravano in religione, loro vivevano in appartamenti pieni di quadri cubisti, mentre un pittore cubista dipingeva solo per loro e loro vivevano soltanto per lui»). Sempre così, una rivoluzione via l’altra, senza tregua: prima l’esaltazione, quindi l’imbolsimento e il disastro. Passate le tempeste d’acciaio della Grande Guerra, passata anche l’epidemia detta spagnola, una sorta di moderna Peste Nera che aveva devastato l’Europa appena uscita dall’incubo delle trincee, l’eterna rivoluzione parigina correva incontro a nuove esaltazioni e a nuovi scacchi. Pochi anni prima c’era stato l’«affaire», quando il destino del capitano Dreyfus aveva diviso la Francia in due – gli antisemiti da una parte e la democrazia liberale dall’altra – e sancito la nascita della moderna opinione pubblica. Ebbene, l’«affaire» era ancora in corso.

Prima radicaldemocratico, poi antisemita, Céline era una mostruosa chimera: come il quadro di Salvador Dalí intitolato L’enigma di Guglielmo Tell, dove appariva «un Guglielmo Tell con la faccia di Lenin e le chiappe di Hitler», Céline era due France in una persona sola. Una Francia, però, che non era soltanto la Francia, ma il porto franco di tutte le nazioni. Esattamente come nell’Ottocento, quando la capitale francese aveva accolto reduci ed espatriati di tutte le rivoluzioni europee, anche nel primo dopoguerra la città delle luci si riempì di profughi. Erano tutti o quasi veterani dell’arte radicale e della politica estremista. Arrivavano dalla Russia sovietica, che insieme alle classi aveva abolito anche la poesia e l’umanesimo, oppure dall’America, dove gli artisti delle generazioni più giovani cercavano emozioni forti lontano da mamma e papà. (Mentre Marina Cvetaeva, forse la più grande poetessa del Novecento, viveva nella miseria in Rue Rouvet, nel diciottesimo arrondissement, Zelda e Francis Scott Fitzgerald folleggiavano, sempre ubriachi persi, al Bar du Ritz, in Rue Cambon 36, il locale più sciccoso ed esclusivo dell’epoca, dove «le ereditiere americane venivano corteggiate e svagate da una schiera di eleganti gigolò, che cercavano di farsi notare nella spessa cortina di fumo»). In fuga dalla Svizzera e dalla Germania, dove non erano apprezzati, i dadaisti cercavano rifugio e consolazione a Parigi, dove erano i cocchi delle avanguardie, surrealisti e cubisti in testa. Cercavano amici (e amori) a Parigi anche i cabarettisti tedeschi e i futuristi italiani. Fascisti e comunisti, la même chose. Intellò di destra passavano a sinistra, poi di nuovo a destra, e viceversa, senza imbarazzo. Ciascuno, infine, passava da un indirizzo all’altro, da un anno all’altro e anche da un universo all’altro, cambiando nel passaggio (è quel che mostra il grande libro di Giuseppe Scaraffia) identità e destino. Prendiamo Louis Aragon, dandy e poeta in quota surrealista, un movimento che lui definiva «figlio della frenesia e dell’ombra». Aragon amava pasteggiare a champagne da Maxim’s, ciò «che in seguito non gl’impedì di scagliarsi contro il ristorante dei capitalisti nella poesia Fronte rosso:

Un dolce per il cane,
Un dito di champagne per la signora.
Siamo da Maxim’s nell’anno 1930.
Si mettono tappeti sotto le bottiglie affinché il loro culo aristocratico non urti contro le difficoltà della vita

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Diego Gabutti

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