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Diego Gabutti
Corsivi controluce in salsa IC
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'Aelita', di Aleksej Tolstoj 25/02/2020
'Aelita', di Aleksej Tolstoj
Commento di Diego Gabutti

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Aleksej Tolstoj, Aelita, Alcatraz 2019, pp. 216, 18,00 euro.


Russo bianco presto pentito, Aleksej Tolstoj rientra in Unione sovietica già nel 1921, passata la bufera della guerra civile e del cosiddetto «comunismo di guerra». Rinnega in quattro e quattr’otto le sue origini aristocratiche, lascia la pornografia (in epoca zarista era stato uno specialista del genere) per la letteratura di propaganda (presto nota come «realismo socialista») e col tempo, dice una leggenda, diventa «intimo amico» del Padrone in persona, cosa tuttavia difficile da credere: Stalin non ha amici, tanto meno intimi. Accanto a una produzione «realista» tra due grosse virgolette, scrive due notevoli opere fantastiche: Burattino, una riscrittura in chiave marxleninista di Pinocchio, persino più invereconda del Pinocchio di Benigni, e questo Aelita, storia d’un viaggio su Marte con tentativo, a piè di lista, di sovietizzare il Pianeta (non abbastanza) Rosso. All’apparenza, Aelita è un’imitazione sovietizzante, stile Burattino, delle storie marziane di Edgar Rice Burroughs, nelle quali Tolstoj può essersi imbattuto in esilio. In realtà, ci sono già molti esempi di fantascienza marziana russa, e per di più di fantascienza marziana socialista. Vedi Bogdanov. Bolscevico della prima ora, traduttore del Capitale di Marx, Aleksandr Aleksandrovič Bogdanov non è soltanto l’«empiriocriticista» contro il quale si scatena Lenin nel suo più insensato e imbarazzante pamphlet, Materialismo ed empiriocriticismo. È anche l’autore, nel 1908, di Stella rossa e, quattro anni più tardi, nel 1912, del suo «prequel», L’ingegner Menni (li trovate entrambi in edizione Alcatraz, come Aelita): dove Bogdanov immagina che Marte, la Stella rossa, sia un pianeta abitato da aliens menscevichi di sinistra (e forse anche un po’ «empiriocriticisti»).

Ma soprattutto è uno dei «costruttori di Dio» che dopo la rivoluzione fallita del 1905 hanno raggiunto Maksim Gor’kij a Capri. Che significa «costruttori di Dio»? Be’, meno di vent’anni prima (la notizia è perciò ancora fresca) Friedrich Nietzsche ha annunciato la morte di Dio. Del Dio borghese, beninteso: l’Altissimo del plusvalore, il Dio degli sfruttatori e dei nemici del popolo, pensano Bogdanov e Gorkij sfregandosi le mani. È la nostra occasione, dicono. Approfittiamone per costruire un Dio a nostra immagine, l’Iddio a capotavola del paradiso socialista che si prepara. Visto che al momento l’Altissimo Trono è vuoto, insediamo nel nido del cuculo, finché rimane sgombro, un Onnipotente a misura della classe operaia, che i congressi socialdemocratici e il Manifesto del partito comunista destinano, com’è noto, a ereditare il mondo. Morto Iddio, facciamone un Altro. Per operare questa magia, spiega Vittorio Strada in Maksim Gorkij «costruttore di Dio» a Capri, il marxismo non basta, anche se di Marx non si può fare a meno, naturalmente. Ci vuole anche un po’ (un bel po’) di spirito russo. «In Russia» – scrive Strada, grande slavista – «la problematica etico-religiosa d’inizio secolo aveva preso il nome di “ricerca di Dio”. Non si trattava d’un movimento omogeneo ma d’un insieme di tendenze individuali caratterizzate da una libera riflessione sul cristianesimo e sulla cultura e sulla loro crisi nell’ambito della generale crisi della civiltà. Nietzsche e Dostoevskij, oltre a Tolstoj e a Solov’ev, erano i numi tutelari di questa ricerca, che aveva ricevuto il suo impulso anche da Marx, dal suo ateismo profondamente nuovo rispetto a quello tradizionale di stampo illuministico, un ateismo che, animato da un grandioso progetto rivoluzionario totale la cui attuazione avrebbe reso superflua la stessa esigenza religiosa, costituiva in un certo senso una controreligione, una sfida alla fede che proveniva dal suo stesso interno, una sorta insomma d’ateismo “religioso”.

Alla “ricerca di Dio” dei pensatori religiosi fece da contraltare, in campo rivoluzionario, una “costruzione di Dio”, secondo il termine usato da Gorkij e ripreso dal bolscevico Lunačarskij. In essa la problematica etico-politico-religiosa di Marx, Nietzsche e Dostoevskij confluiva e si trasformava, dando luogo a una nuova ideologia che, combattuta dal rigido razionalista Lenin, era tuttavia destinata a entrare nel fondo genetico del bolscevismo, a costituire quasi la sua seconda anima “utopistica” accanto a quella “scientistica” preminente nella dottrina bolscevica ufficiale». In attesa di prendere d’assalto il futuro, pensano Bogdanov e Gorkij, occorre riscrivere il passato. Questa l’idea centrale dei cospiratori capresi: non soltanto il controllo del futuro attraverso la rivoluzione socialista, la lotta armata, la partecipazione alla Duma (il parlamento russo) e insomma a qualunque costo, ma anche la riforma del passato dell’umanità attraverso la cultura proletaria. Come scrive Gor’kij, citato da Vitalij Sentalinskij nel suo I manoscritti non bruciano, Garzanti 1994, vanno «riscritte la storia, la storia della chiesa, la letteratura mondiale e la filosofia: Gibbon, Voltaire e Goldoni, l’apologeta Tertulliano e Corneille, il professor Afionov come Giuliano l’Apostata, Esiodo, Lucrezio e Zola, Gilgamesh e Hiawatha, Swift e Plutarco. E la serie sarà coronata», esulta il romanziere russo, «dalle leggende orali su Lenin».

Ma torniamo a Stella rossa. Come John Carter, l’eroe di Edgar Rice Burroughs, che negli stessi anni finisce su Marte via proiezione astrale, un costruttore di Dio terrestre capita per vie non meno misteriose sul pianeta rosso, dove scopre che anche Marte, al pari di tutti i pianeti civili sparsi nel cielo stellato, è un’utopia socialista. Ciò a dimostrazione che il Manifesto del partito comunista vale per tutto l’universo, quante sono le galassie, nessuna esclusa: ovunque storie di lotte di classe e (una fase storica dopo l’altra, oggi un modo di produzione, domani un altro) il trionfo finale del proletariato, seguito a stretto giro dall’estinzione dello Stato, poi «a ciascuno secondo i suoi bisogni» e, in conclusione, la fine (anzi, il lieto fine) della storia. Leggermente più annacquata, visto che Tolstoj è un nano e Bogdanov un gigante, questa è anche la morale di Aelita. Romanzo che però si legge come un pulp, tutto azione e dialoghi brillanti, dove Marte ospita i discendenti degli antichi abitanti d’Atlantide, la rivoluzione proletaria è ancora da fare e, al posto dei pipponi marxisti bogdanoviani, c’è (molto ma molto meglio) Aelita, la bellissima e futurista Regina di Marte.

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Diego Gabutti

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