Riduci       Ingrandisci
Clicca qui per stampare

 
Antonio Donno
Israele/USA
<< torna all'indice della rubrica
Congresso Italia Israele UDAI: Antisionismo in Usa e la minaccia iraniana 29/09/2019
Congresso Italia Israele UDAI: Antisionismo in Usa e la minaccia iraniana
Analisi di Antonio Donno

Risultati immagini per anti israel campus usa

 Nei campus americani l’antisemitismo è sempre più diffuso. Il termine “antisemitismo”, un tempo oggetto di critica e di condanna, sta sostituendo rapidamente quello di “antisionismo”, giudicato da coloro che sono contro Israele e la sua politica inadeguato a sottolineare con la necessaria durezza ciò che viene considerata una vera e propria persecuzione contro i palestinesi, paragonabile a quella dei nazisti contro gli ebrei.
Doron Ben-Atar, co-editor del libro Anti-Zionism on Campus, di recente pubblicazione, scrive che “il linguaggio antisemita è ben accetto nei campus; al contrario, un’argomentazione che s’oppone all’antisemitismo non lo è”.
Di conseguenza, la diffusione del linguaggio antisemita “è spacciato – scrive ancora Ben-Atar – come lotta universale contro gli oppressi”, e Israele e gli ebrei sono considerati l’avanguardia della persecuzione degli oppressi del mondo, di cui i palestinesi sono i reietti per eccellenza.

Risultati immagini per Doron Ben-Atar, co-editor del libro Anti-Zionism on Campus

La contrapposizione a Israele ha perso ogni connotato strettamente politico, riducendosi alla formula storicamente radicata di “antisemitismo”, nella quale gli ebrei in generale sono indicati come i portatori dell’oppressione in quanto tale. In questo periodo, un rapper palestinese fa il giro dei campus americani con grande successo tra gli studenti, cantando canzoni di evidente contenuto antisemita. Un giornalista glielo ha fatto notare, ricevendo questa risposta dal rapper: “Antisemitismo? Yeah. Ok. La mia musica è antisemita”. È lo sdoganamento di un termine, un tempo giudicato oggetto di riprovazione, al livello del normale uso comune.

Che cosa rispondono gli antisemiti di oggi di fronte ai loro accusatori? La colpa del rigurgito dell’antisemitismo e della sua accettazione nel contesto del normale linguaggio comune è da attribuirsi alla politica di Donald Trump a favore di Israele e contro i palestinesi. È lui il colpevole del nuovo odio verso Israele e verso gli ebrei; è Trump l’autore, con la sua politica anti-palestinese, della nuova ondata di antisemitismo. Scrive ancora Ben-Atar: “L’anti-sionismo di oggi ha posto lo Stato ebraico – una piccola entità che presumibilmente ha nelle proprie mani una sproporzionata quantità di potere mediante macchinazioni nascoste – nella loro cosmologia di oppressione globale. La giustizia sociale e la liberazione comportano la liquidazione del potere ebraico”. Siamo tornati, con ogni evidenza, ai Protocolli del Savi Anziani di Sion e alla concezione dell’ebraismo come portatore del male universale.

Ecco, dunque, la ragione per la quale l’uso del termine “antisemitismo” è da considerarsi più inclusivo rispetto a quello di “anti-sionismo” e più adeguato a esprimere la colpa universale dell’ebraismo mondiale. Scrive David Hirsh: “Se i palestinesi sono […] il simbolo di tutte le vittime dell’‘Occidente’ o dell’‘imperialismo’, allora Israele si pone al centro del mondo come simbolo dell’oppressione globale”. La politica di Trump a favore di Israele è, dunque, una politica che sostiene l’oppressione ebraica come simbolo dell’oppressione del più forte sul più debole. Questa è la mistificazione alla base dell’onda antisemitica odierna.

In realtà, la politica filo-israeliana di Trump ha due facce interconnesse: il rifiuto della massa di menzogne che criminalizzano uno Stato perché è abitato da ebrei e la visione di Israele come parte essenziale di un progetto a largo raggio che comprende tutto il Medio Oriente. Questo secondo punto è cruciale e va considerato alla luce delle seguenti valutazioni:
a) l’avanzata sciita in Medio Oriente ha indotto i paesi arabi sunniti e l’Arabia Saudita a stringere un patto con Washington a scopo difensivo;
b) il rafforzamento militare di Israele e la sua azione a vasto raggio, con il consenso di Trump, spingono quei paesi ad un atteggiamento verso Gerusalemme ben diverso rispetto al passato. In questo modo, Trump è riuscito a costruire un blocco anti-iraniano che vede il mondo sunnita e lo stesso Israele compattarsi intorno alle posizioni americane;
c) tale blocco ha isolato l’Autorità Palestinese, rendendo la questione palestinese, se non marginale, almeno non più centrale in un contesto politico mediorientale che pone un’urgenza complessiva politico-strategica a livello internazionale;
d) la volontà di Trump di non aprire un contenzioso bellico con l’Iran ha la funzione di non consentire a Teheran di rivendicare davanti alla comunità internazionale la posizione di un paese oggetto dell’attacco dell’imperialismo americano e alla Russia di porsi come tutore della stabilità della regione mediorientale;
e) la proposta di Trump di aprire un dialogo con Teheran deve essere valutata come una provocazione nei confronti del regime iraniano. La risposta dell’Iran è stata positiva, ma solo se Washington dovesse annullare tutte le sanzioni economiche imposte da Washington al paese sciita: richiesta inaccettabile da parte americana, perché altrimenti gli Stati Uniti perderebbero la posizione di vantaggio politico che ha costretto Teheran ad accettare un confronto il cui esito sarebbe la rinuncia ad ogni ambizione politica nella regione mediorientale in cambio della cancellazione delle sanzioni americane. Le sanzioni, dunque, hanno un peso molto più rilevante rispetto ad una iniziativa militare americana dagli esiti imprevedibili sul piano delle relazioni internazionali globali. Da questo punto di vista, la visione di Trump è assai lungimirante, perché si pone nei termini di un “contenimento aggressivo” nei confronti del regime iraniano – una definizione che risale ai tempi della guerra fredda e della storiografia su quel periodo – perché intende “aggredire”, mediante le sanzioni, la struttura stessa del sistema economico di Teheran, “contenendo” in questo modo le spinte aggressive del regime sciita nel territorio mediorientale. In conclusione, la politica trumpiana a favore di Israele non deve essere considerata fine a se stessa, ma parte strategicamente fondamentale di una politica a vasto raggio per costruire e consolidare un’intesa più generale fra gli Stati Uniti e alcuni attori mediorientali in funzione anti-iraniana.

Immagine correlata
Antonio Donno

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui