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Antonio Donno
Israele/USA
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Le parole per raccontare la storia di Israele 26/07/2019

Le parole per raccontare la storia di Israele
Commento di Antonio Donno

a destra, la testata di Israel Studies

Il conflitto israelo-palestinese è composto da una serie di questioni che, intrecciandosi, costituiscono un puzzle di assai difficile risoluzione, soprattutto quando le deformazioni e le manipolazioni ne alterano la portata e il significato, anche sul piano linguistico. Anzi, proprio da questo punto di vista, nel corso dei decenni, le parole che hanno contrassegnato i momenti principali di questo conflitto hanno subito un’alterazione manipolatoria di significato tale da mutare gli aspetti sostanziali della questione.

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Il fascicolo monografico di “Israel Studies” (XXIV, 2, Summer 2019, Special Issue: “World Crimes; Reclaiming the Language of the Israeli-Palestinian Conflict”. Guest Editors: Donna Robinson Divine, Miriam F. Elman and Asaf Romirowsky) 
riveste una grande importanza, perché i vari autori analizzano i numerosi problemi, voce per voce, offrendo, in definitiva, una visione complessiva di una delle più complicate questioni internazionali, che si trascina dalla fine dell’Ottocento sino ai nostri giorni in una regione che ha visto il continuo sovrapporsi di fattori interni e internazionali tale da impedirne la stabilità.
Le diciassette voci che sono comprese nel fascicolo sono precedute da un saggio introduttivo di Donna Robinson Divine, la quale elenca i principali temi oggetto di progressiva deformazione storiografica grazie all’alterazione consapevole di significato attribuito ad alcuni termini che hanno connotato l’intera questione arabo-israelo-palestinese, con il risultato che tali modificazioni terminologiche sono entrate nel vocabolario di coloro che denigrano sistematicamente la storia e la politica di Israele. 
Per esempio, il termine “genocidio”, storicamente adoperato per definire lo sterminio nazista di sei milioni di ebrei, è ora applicato dai contestatori di Israele per condannare la politica israeliana nei confronti dei palestinesi: l’assurdità di tale utilizzo, tuttavia, non ha impedito la diffusione della nuova applicazione del termine a danno di Israele per connotare negativamente, e artificiosamente amplificare, una realtà del tutto diversa. Così, è avvenuto per il caso del villaggio di Deir Yassin, che è stato innalzato ad esempio della barbarie sionista, nonostante che Eliezer Tauber, in un libro del 2017 purtroppo mai tradotto in inglese, abbia dimostrato, fonti alla mano, la falsità delle accuse di sterminio attribuite ad un’organizzazione sionista. Anche in questo caso, il termine “sterminio” ha assunto un significato iperbolico per dimostrare le presunte atrocità dell’“invasione” sionista; e perciò, il termine“invasione” ha assunto un significato utile per la demonizzazione del sionismo (v. “Zionism” di Thane Rosenbaum).
La demonizzazione di Israele è la costante della propaganda anti-israeliana, cui Gerald Steinberg dedica la voce “Uncivil Society: Tracking the Funders and Enablers of the Demonization of Israel”. La cosiddetta storiografia revisionista ha dato un contributo molto importante alla sostituzione-deformazione-amplificazione dei termini linguistici per condannare il sionismo e Israele. Così, sostiene Donna Robinson Divine, “Colonialismo” ha sostituito “colonizzazione”, alterando profondamente l’impresa sionista in Palestina; la fuoriuscita dei palestinesi dai confini israeliani nel 1948 – evento che i palestinesi definiscono “naqba” (disastro) – viene decontestualizzata dagli avvenimenti in corso, cioè l’invasione del territorio israeliano da parte di cinque eserciti arabi al fine di distruggere il neonato Stato di Israele (v. “Arab-Palestinian Refugees” di Asaf Romirowsky). 
Questi e altri fatti, infine, sono attribuiti ad una sorta di “minaccia globale immaginata soltanto da coloro che credono in maniera superstiziosa al potere degli ebrei”. Clamorosa è l’inversione di significato del termine “Olocausto” (v. “Holocaust Inversion” di Lesley Klaff) dalla tragica vicenda ebraica ad opera del nazismo alla risposta armata israeliana contro i terroristi palestinesi. In definitiva, se si sposta il discorso a un livello più alto, “il linguaggio accademico, ammantato del prestigio che si attribuisce agli studi, implica che la fondazione di Israele nel 1948 non ha fondamento storico”.
In questa recensione è impossibile dar conto dei contenuti di tutti gli interventi su specifiche questioni del conflitto. Si fa riferimento ad alcune di esse e ai loro collegamenti con altre strettamente intrecciate al fine di dimostrare il processo di falsificazione che nei decenni ha alterato profondamente la visione di un problema tra i più complessi della storia contemporanea. La voce “Indigeneity” (Essere indigeni), opera dell’importante storico israeliano Ilan Troen e di Carol Troen, descrive come il movimento palestinese e i suoi sostenitori abbiano definito come “indigeni” in Palestina solo gli arabi e gli ebrei che vi abitavano prima dell’“invasione”, escludendo categoricamente i sionisti entrati successivamente in quei territori, la cui fede, in realtà, li poneva all’interno di “un autentico popolo storico”, le cui radici erano – e sono – indissolubilmente legate al territorio che un tempo era chiamato Eretz Israel (Terra di Israele). 
Da questa esclusione, in maniera quasi automatica, scaturisce l’accusa rivolta ai sionisti di essere gli attori, come si è detto in precedenza, di un vero e proprio processo “coloniale” (John Strawson), cancellando l’opera straordinaria di colonizzazione di un territorio in grandissima parte improduttivo e sotto-abitato.
Il concetto di “Invasione”, applicato all’originario ingresso sionista in Palestina, è strettamente connesso a quello di “Occupazione”, che, nella propaganda anti-israeliana, è l’esito storico di una mentalità, quella sionista, tesa alla conquista in termini militari o anche mediante lo strumento del “complotto”, accusa secolare rivolta agli ebrei (v. “Israel Lobby” di Natan Aridan).
Il grande storico israeliano Efraim Karsh mette a nudo la falsità dell’uso del termine “Occupazione”, perché, quando nacque lo Stato di Israele nel 1948, non esisteva alcuno Stato palestinese, né sarebbe nato se Israele fosse stato sconfitto dall’invasione degli eserciti arabi, perché l’obiettivo arabo era di dividersi il territorio israeliano, non riconoscendo alcun diritto ai palestinesi di creare un loro Stato.
Né tantomeno si deve parlare di “Occupazione” alla fine della guerra del 1967.
Fu una guerra in cui Israele dovette difendersi dall’imminente attacco degli eserciti arabi e lo svolgimento della guerra portò l’esercito israeliano all’interno della West Bank e di Gaza. Ne seguì la proposta di Israele di riconsegnare i territori, in cambio del riconoscimento dello Stato ebraico e della pace definitiva, ma i paesi arabi e l’Olp di Arafat risposero con i famosi tre “no” alla Conferenza di Khartoum.
I successivi Accordi di Oslo nel settembre del 1993 restituirono gran parte dei territori all’Autorità Palestinese, che li trasformò di fatto in una base stabile del terrorismo anti-israeliano, come avvenne a Gaza sotto il controllo dei terroristi di Hamas. “Terrorismo” è una voce del numero monografico, curata da Jonathan Schanzer, che ricostruisce l’ininterrotto percorso terroristico da parte palestinese che ha caratterizzato il conflitto dal 1948 a oggi.
Le altre voci sono tutte tese a demistificare l’uso distorto o addirittura capovolto dei termini più significativi del contenzioso politico e ideologico da parte della propaganda palestinese e dei suoi sostenitori ai più vari livelli: “Apartheid” (Donand G. Ellis), “Human Rights” (Alex Joffe), “Islamofobia” (Miriam F. Elman), “Intersectionality” (Gabriel Noah Brahm), “Pinkwashing” (Corinne E. Blackmer), “On Three Anti-Zionisms” (Shany Mor), “Settlements” (Ari Blaff), “BDS” (Miriam F. Elman and Asaf Romirowsky).

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Antonio Donno


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