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Antonio Donno
Israele/USA
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Israele da oppresso a 'oppressore' 15/01/2019

Israele da oppresso a 'oppressore'
Analisi di Antonio Donno

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Paul Berman

Le origini dell’antisionismo nella sua attuale connotazione antisemita all’interno del Partito Democratico americano, di cui parla Paul Berman su “il foglio”, devono essere ricercate nelle posizioni della nuova sinistra americana, che, dopo il 1967, anno della guerra dei sei giorni, contestò duramente il successo di Israele sui nemici arabi. Ma quella contestazione aveva origini nell’ideologia stessa del movimento fin dai suoi inizi. Fu in quel decennio, infatti, che la contrapposizione studentesca al potere di Washington acquisì le forme di quel multiculturalismo che accettava e valorizzava ogni espressione minoritaria, giudicata, per il fatto stesso di essere minoritaria, oggetto di oppressione e sfruttamento da parte del potere. Nel caso di Israele, dopo la vittoriosa guerra del 1967, vi fu un vero e proprio capovolgimento di giudizio. Gli ebrei, da minoranza oppressa e perseguitata nei secoli, erano divenuti maggioranza oppressiva per aver sconfitto e umiliato quella che ora era divenuta la minoranza oppressa: i palestinesi. Ironia della storia: Israele si difende dal pericolo di essere distrutto e cancellato dalla carta geografica, ma, nel momento in cui combatte e poi vince, passa automaticamente nella schiera degli oppressori. Insomma, per i contestatori americani di quegli anni l’ebreo è dalla parte del giusto soltanto nel momento in cui è oppresso; ma, nel momento in cui rinasce, si dà uno Stato e combatte contro coloro che vogliono ancora umiliarlo, è un oppressore. Il “problema Israele” fu la cartina di tornasole di una nuova ideologia che si andò sviluppando prima in seno alla componente liberal del Partito Democratico, poi in tutto il partito.

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L’articolo di Berman, a proposito dell’antisionismo antisemita presente oggi nel Partito Democratico americano, è un’analisi molto attenta proprio su questo capovolgimento ideologico in uno schieramento politico che in passato aveva sostenuto a spada tratta Israele e la sua battaglia di sopravvivenza. Ma le avvisaglie di questo lento ma inesorabile mutamento di giudizio su Israele erano già presenti nelle parole d’ordine del movimento studentesco americano degli anni sessanta. Per questo motivo, occorre fare un passo indietro per comprendere la genesi e l’evoluzione di questo fenomeno politico-ideologico. Negli anni che precedettero la guerra dei sei giorni, il multiculturalismo della New Left indirizzò la sua battaglia all’interno della società americana. I suoi punti di riferimento, gli obiettivi della sua battaglia furono le minoranze: i neri, successivamente definiti afro-americani, i nativi americani, i chicanos, cioè i messicani presenti sul suolo americano. Solo dopo il fatidico 1967 e l’esito della guerra in Medio Oriente – che ebbe un’enorme diffusione mediatica – i problemi internazionali entrarono nell’agenda della New Left americana, il conflitto arabo-israeliano in primo luogo. Il terzomondismo presente nell’ideologia dei contestatori, come aspetto di prima grandezza del multiculturalismo, individuò in Israele uno dei clienti principali dell’imperialismo americano e, di conseguenza, la vittoria di Israele fu indentificata come il trionfo di uno dei sostenitori della politica globale degli Stati Uniti. Il mondo arabo, come parte del Terzo Mondo sfruttato e calpestato dagli imperialisti americani, cessò di essere la forza politica e militare che intendeva buttare gli ebrei di Israele in mare, ma gli sfruttati e i perseguitati per antonomasia dal servo imperialista degli americani, lo Stato di Israele. E, poiché Israele era stato il frutto della battaglia sionista, l’anti-sionismo divenne parte integrante dell’ideologia terzomondista e multiculturalista della New Left americana. Ma la cosa più grave fu che l’anti-sionismo prese sempre più i connotati dell’anti-ebraismo; in sostanza, anti-sionismo e anti-ebraismo finirono, nelle zone più ideologizzate e marxisteggianti della nuova sinistra americana, per divenire un unico obiettivo da combattere. L’esito è stato disastroso e il saggio di Berman lo mette bene in rilievo: nei decenni successivi alla scomparsa della New Left come movimento politico l’anti-sionismo prese piede lentamente nel mondo progressista americano e infine nello stesso Partito Democratico, quel partito che proprio nella sua ala liberal, nell’immediato dopoguerra, si era battuta con grande impegno in favore della nascita dello Stato ebraico e della sua battaglia contro i nemici arabi che intendevano distruggerlo. La New Left americana, benché estinta come movimento, ha lasciato, purtroppo, uno strascico ideologico persistente nel mondo progressista americano. Terzomondismo e multiculturalismo si sono diffusi come un cancro negli atteggiamenti politici del Partito Democratico. Il saggio di Paul Berman, perciò, è uno strumento indispensabile per comprendere la natura dell’anti-sionismo anti-semita del partito, al quale occorre aggiungere l’influenza determinante insita nelle radici ideologiche che si svilupparono in seno alla New Left degli anni sessanta.

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