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Giuliana Iurlano
Antisemitismo Antisionismo
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Cancellare la Storia è come cancellare la Memoria 16/07/2020
Cancellare la Storia è come cancellare la Memoria
Analisi di Giuliana Iurlano

Israel Zangwill
Israel Zangwill

Che la storia sia “magistra vitae” è solo una splendida illusione: l’uomo non ha imparato molto dal passato, tant’è vero che i crimini contro l’umanità continuano ad essere perpetrati in ogni parte del mondo. Ed è anche vero che la storia è stata scritta per molto tempo dai “vincitori”, con una connotazione spesso “assolutoria”, anche se, nel secolo scorso, vi è stato un sostanziale tentativo di bilanciamento nella ricerca e nella narrazione delle storie di quei gruppi invisibili che non comparivano nei manuali scolastici. Dagli studi seri di storici onesti, però, si è passati ad una visione “compensatoria” della storia, ad una storia-placebo e terapeutica, in grado di ridare autostima a quei gruppi etnici e sociali che apparivano eccessivamente assimilati e subordinati alla storia dei “bianchi”. Il caso americano è emblematico. Nel 1782, Hector St. John de Crèvecoeur si era chiesto chi fosse “l’Americano, quest’uomo nuovo?” e la sua risposta era stata “quella strana mistura di sangue” composta da “razze” diverse (laddove, per “razze”, si intendeva nel XVIII secolo, la “nazionalità”). Era l’anticipazione del concetto di “melting pot”, che l’ebreo Israel Zangwill avrebbe coniato nel 1908, ma anche la base del motto americano “E pluribus unum”, a significare, più che la diversa provenienza etnica, la condivisione di una serie di valori a fondamento della società americana.

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Era stato un altro ebreo, Horace Kallen, a rivedere il concetto di “crogiolo”, soprattutto di fronte al fenomeno dell’emigrazione massiccia tra la fine dell’800 e gli inizi del secolo successivo, e a proporre l’idea di “pluralismo culturale”, una concezione che – basata sul “diritto di essere differenti” – rintracciava nella società americana una sorta di “commonwealth” costituito da differenti culture nazionali, le quali, pur mantenendosi all’interno di una propria ben definita identità, producevano, nella loro interazione, un arricchimento reciproco. Con Kallen, l’“unum” del motto americano era ancora pienamente valido, pur se arricchito dal contributo dei “molti”. Ben presto, però, tutte le contraddizioni non risolte della giovane nazione americana, nemmeno dopo la spaccatura drammatica della guerra civile e il decreto di abolizione della schiavitù, tornarono a galla con i fermenti degli anni Sessanta e con la nascita del “multiculturalismo”. Una lucida analisi delle conseguenze disastrose di questa concezione e delle distorsioni storiche da essa provocate nel sistema scolastico americano la si trova già in un saggio del 1991 di Arthur M. Schlesinger, Jr., “La disunione dell’America. Riflessioni su una società multiculturale”, in cui egli descrive il processo di disgregazione dell’America cominciato con la revisione dei programmi per le scuole elementari e medie nel 1987 in California e nello Stato di New York e culminato col rapporto finale della task force sulle minoranze, denominata “Equità ed Eccellenza” (tra i cui 17 membri non compariva nemmeno uno storico). La conclusione del rapporto era che la suddivisione in gruppi razziali garantiva il metodo analitico di base per la comprensione della storia americana.

Insomma, si era tornati alle “razze” (dopo le tragiche esperienze del nazi-fascismo), al culto dell’etnicità, alla esagerazione delle differenze, all’intensificazione di risentimenti e antagonismi. In questo processo di assurdo separatismo, i veri problemi erano ignorati, vale a dire il fatto che l’esistenza del razzismo (e non solo in America) o il poco impegno per garantire i diritti civili ai vari gruppi etnici, alle donne, agli omosessuali, ai disabili fossero soprattutto fenomeni culturali che richiedevano tempi lunghi affinché i comportamenti o i giudizi venissero realmente modificati. E certamente, sul piano culturale, non bastano le leggi – giustamente necessarie –, ma occorre la conoscenza storica del passato, senza usare la storia come arma per abusarne. “Lo scopo più alto della storia – scriveva Schlesinger – non è l’autorappresentazione, né si concretizza nella rivendicazione di un’identità, ma è semmai quello di riconoscere la complessità e di ricercare la conoscenza”. La storia per una nazione è come la memoria di un individuo: senza di essa, non ci sarebbero radici dietro ciascuno di noi. E la storia di una nazione è fatta anche di eventi terribili, di crimini commessi nel passato, insomma, di cose buone e di cose cattive. Ma gli aspetti negativi o i simboli del passato non possono essere epurati, abbattuti, cancellati. Non è abbattendo statue e monumenti che si cambia il passato; non è adoperando la cultura della cancellazione e la rabbia iconoclasta che si purifica il presente. Ma esiste un problema ancora più serio, quello del pensiero unico del “politicamente corretto”, che orwellianamente sta rendendo totalitarie le società democratiche, sta diffondendo il conformismo mentale e il timore di esprimere le proprie opinioni. I movimenti del “MeToo” o del “Black Lives Matter” sono importanti, se espressione pacifica di sdegno e di voglia di cambiare le cose; ma se si trasformano in feroci gabbie del pensiero libero, allora ancora una volta bisogna amaramente concludere che la storia non ci ha insegnato proprio niente.


Giuliana Iurlano è Professore aggregato di Storia delle Relazioni Internazionali presso l'Università del Salento. Collabora a Informazione Corretta


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